XIV

da prevosto a leone
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23 marzo, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.16

Dopo il programma americano di due settimane fa, la stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano è ripresa ieri con il 16° Concerto, tutto dedicato alla Spagna. Sul podio Enrico Lombardi, cui laVerdi tempo fa ha affidato la guida dell’Orchestra JuniorLo avevo visto lo scorso 17 agosto al ROF, arrivare in fretta e furia a dirigere l’Adelaide al posto del titolare Lanzillotta, e devo dire che mi aveva ben impressionato.

Dei quattro brani in programma solo il secondo è di autore iberico, gli altri rappresentano la Spagna come vista e vissuta da compositori francesi e russi.

Si inizia quindi con Emmanuel Chabrier e la sua España, Rapsodia per orchestra. In Appendice un sintetico excursus sul brano. Brano che serve davvero a scaldare i motori e… il pubblico. Che non manca di accogliere entusiasticamente la performance dei ragazzi.
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Ora ecco il brano di autore spagnolo, Manolo Sanlúcar, il più famoso compositore di Flamenco, purtroppo da poco scomparso. Di lui abbiamo ascoltato un estratto dalle musiche del balletto Medea (1987) interpretato dal celebre virtuoso Pepe Romero, che fu già ospite qui nel 2019 suonando il Concierto de Aranjuez

Dei 15 numeri del balletto, questa Suite ne comprende 6 (quelli dove la chitarra è in primo piano) come qui sotto evidenziato:

01. Obertura
02. Fiesta
03. Amargura
04. Reencuentro y desencuentro
05. Seducción
06. Riña
07. Saqueo
08. Soledad
09. Conjuro
10. Fiesta II
11. La ofrenda
12. Alboreá
13. La venganza
14. Tiempo del dolor
15. ...Y amén

Ispirato, come suggerisce il titolo, al dramma di origine mitologica (Euripide) poi sviluppato da Seneca, evoca alcuni passaggi cruciali della vicenda della madre tradita che sacrifica i suoi figlioletti.

Purtroppo il bilanciamento fra l’esile suono dello strumento solista e l’orchestra è sempre di difficile calibratura, e ciò si è avvertito anche ieri. Il che non ha impedito di apprezzare la struggente bellezza delle melodie di Sanlúcar e la grande maestrìa di Romero, che l’ha interpretata con grande pathos e tempi sempre appropriatamente sostenuti.

Poi ci ha ringraziato della calorosa accoglienza riproponendo il bis del 2019, la Fantasia cubana del padre Caledonio!
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È Claude Debussy ad aprire la seconda parte del concerto, con Ibéria, da Images terza serie.

Trattasi di un trittico incastonato in un altro trittico più ampio (fra Gigues e Rondes de Printemps). Debussy impiega qui la tecnica definita come puntillismo, da una scuola pittorica vicina all'impressionismo, i cui adepti usavano dipingere quadri coprendo la tela, anziché di pennellate tradizionali, di una miriade di puntini (una specie di anticipazione manuale dei pixel dei moderni monitor!) In effetti la partitura di Images è ricchissima di piccoli dettagli di colore, che creano uno straordinario effetto d'insieme.

Il primo brano (Par les rues et par les chemins) ha un tempo ternario (3/8, da seguidilla, per intenderci) con i clarinetti ad esporne il tema principale. Sembra proprio di sentire suoni (e polifonie) che escono da case e locali di un tipico ambiente spagnolo, o semplicemente il brusio della gente che passa o i rumori del traffico. Al centro del brano c'è una sezione più lenta in 2/4 (ma suddivisi in 12/16, quattro terzine) quasi una pausa per la siesta o l'inoltrarsi su stradicciole fuori mano. Qui c'è ampio impiego di rubato, prima del ritorno del tempo 3/8, che ci riporta ad una certa concitazione urbana, fino alla chiusura su una mirabile cadenza, che preannuncia il crepuscolo.

Il secondo brano (Les parfums de la nuit) è una cosa davvero strepitosa, un'evocazione di sensazioni che si provano guardando il cielo stellato, ascoltando un usignolo lontano, o inspirando i profumi che emanano dai giardini fioriti. Qui arpa, celesta e xilofono, assieme alle campane che emergono nel finale, vengono sapientemente usati per creare l'atmosfera notturna, una notte dove si fa però risentire anche il tema del primo brano, ad evocare il giorno passato ed anticipare quello che si appresta a sorgere.

Ed infatti il terzo brano (Le matin d'un jour de fête) si apre in modo ancora sonnolento, poi le campane annunciano la festa, che si scatena in ogni dove. C'è anche un intermezzo quasi comico, col violino che improvvisa un bizzarro assolo, disturbato due volte dai sordi colpi del tamburo basco prima che il tutto precipiti verso una esilarante conclusione in SOL, che suscita grandi applausi del pubblico per l'orchestra e per Lombardi.
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A chiudere la serata è stato Nikolaj Rimski-Korsakov con il suo celeberrimo Capriccio spagnolo. (Qui un mia sommaria analisi).

Vibrante e travolgente l'esecuzione dei ragazzi, accolta con entusiasmo da un pubblico tutt’altro che oceanico, ma prodigo di applausi ritmati. 

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Appendice. España

Sono circa 6 minuti di musica davvero sfrenata e inebriante, una cosuccia in FA maggiore, come modestamente la minimizzava il suo Autore. 

Seguiamo l’esecuzione parigina della simpatica Zahia Ziouani. La figura sottostante riporta le battute iniziali dei 7 motivi principali del brano.

1’19” Introduzione. 28 battute che impongono il ritmo principale della rapsodia, sul tempo costante di 3/8.

1’39” Ecco il Tema-A esposto dapprima da trombe e fagotti, quindi ripreso dai corni e ancora (2’03”) a piena orchestra e pieno volume, seguito da 7 battute di transizione.

2’19” Corni e fagotti espongono il Tema-B.

2’26” Segue il Tema-C nei fiati, poi propagato all’orchestra.

2’40” Ecco nei fagotti il Tema-D.

2’51” Ora i violini attaccano il Tema-E, in staffetta con clarinetti e fagotti. Tema subito riproposto anche dai flauti con il rinforzo orchestrale.

3’15” È ora il turno del Tema-F, esposto dapprima dagli archi e via via ripreso dall’intera orchestra. Raggiunto il climax (3’41”) segue una lunga transizione che comporta una modulazione da FA a REb maggiore.

4’00” Qui il pomposo Tema-G viene esposto dai tromboni, quindi si sviluppa in contrappunto con il Tema-A, presenta anche una frase caratterizzata da poliritmia di ottoni, poi di legni e triangolo che per alcune battute suonano in 2/4 (una croma in più per battuta…) Un crescendo orchestrale porta a concludere l’esposizione dei temi ed alla loro ripresa variata, tornando a FA maggiore.

4’45” Tema-A; 4’55” Tema-B; 5’08” Tema-C; 5’21” Tema-E; 5’45” Tema-F e crescendo ad un climax; 6’21” Tema-A contrappuntato dal Tema-G (ora in FA) e colossale crescendo del Tema-G fino ad un nuovo climax.

6’51” Inizio della Coda (Tema-A); 7’08” Stretta finale.

14 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 24 (Rach1/4)

Claus Peter Flor (oggi Direttore Emerito dell’Orchestra Sinfonica di Milano) e Alexander Romanovsky (39enne ukraino trapiantato a Bologna…) hanno ieri dato il via al Rach-Festival, che propone (fino a domenica 23/4) l’integrale dei 4 Concerti pianistici di Sergei Rachmaninov (più altre sue e non sue composizioni).

Il programma della prima giornata è aperto da due lavori di autori francesi contemporanei di Rachmaninov, lavori che hanno in comune il fatto di essere nati per il pianoforte a 4 mani e di essere poi stati trascritti per l’orchestra. Meno stretti sono i loro legami con il Concerto di Rachmaninov: la cui versione originale è di poco posteriore al lavoro di Debussy, mentre quello di Ravel è coevo addirittura del Rach3. Ma anche la versione definitiva del Rach1 non parrebbe influenzata dalle opere dei due compositori francesi.  

Ascoltiamo quindi per prima la Petite Suite in 4 movimenti che Claude Debussy compose nel 1889 per pianoforte a 4 mani, ispirandosi (per i primi due brani) a poesie di Paul Verlaine. Solo 8 anni più tardi sarà un allievo di Ernest Guiraud (quello che aveva… bistrattato la Carmen) di nome Henri Büsser a trascrivere la Suite per grande orchestra.

Seguono poi i Cinq pièces enfantines, che recano il titolo Ma mère l'oye (raccolta di poesie di Charles Perrault che ispirano i due primi pezzi) e che Maurice Ravel compose nel 1909 per pianoforte a 4 mani e orchestrò nel 1910, per poi ampliare a balletto nel 1912.
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Questo antipasto è servito più che altro a mettere in evidenza la distanza fra le avanguardie francesi e la… retroguardia russa rappresentata da Rachmaninov e dal suo Concerto n.1 per pianoforte e orchestra in Fa diesis minore op.1.

Di cui si è eseguita (come ormai quasi sempre accade) la versione definitiva approntata dall’Autore nel 1917, ben 26 anni dopo la stesura originale del 1891. Una mia breve storia ed esegesi della composizione, inclusi alcuni riferimenti alle novità introdotte dalla versione definitiva, è consultabile a questo link.  

Romanovsky la affronta con gran cipiglio, martellando sulla tastiera le poderose terzine in ottava a due mani che coprono le battute 3-8 del Vivace di apertura. Poi mette tutta la sua sensibilità nel presentare i due temi (espressivo e cantabile) che innervano l’esposizione. Ispirata la lunga cadenza che porta alla chiusura.

Lo spirito romantico del concerto viene mirabilmente interpretato da Romanovsky nell’Andante, condotto con nobile semplicità… a dispetto del relativo appesantimento apportato da Rachmaninov in questa versione agli interventi dell’orchestra.

Anche l’Allegro vivace conclusivo, come rimaneggiato nel 1917, acquista una brillantezza piuttosto… gratuita, ecco. Romanovsky fa del suo meglio perché la voce del pianoforte non venga troppo oscurata dai rumorosi interventi dell’orchestra.

Alla fine grande apprezzamento per lui (e per tutti, ovviamente) ricambiato da ben due bis: il primo e più famoso Preludio di Rachmaninov (in DO# minore, op.3 n°2, che si riverbera anche nel Concerto appena ascoltato) e poi il 12° Studio dell’op.8 di Scriabin, nella bizzarra tonalità di RE# minore! 

Domenica il Rach2. 

18 novembre, 2022

laVerdi 22-23. 6

Conclusa a suon di trionfi la tournée ispano-olandese, l’Orchestra Sinfonica di Milano torna in Auditorium con un programma franco-russo di fine ‘800 – primi ‘900. Per la prima volta sul podio di Largo Mahler sale il figlio d’arte Emmanuel Tjeknavorian, 27enne austro-armeno nato violinista ma - seguendo le orme del padre Loris - ormai avviato stabilmente sulla strada della Direzione.

La prima sezione del concerto è tutta francese, aperta da Pavane pur une infante défunte di Maurice Ravel. Il quale, per negare al brano stretti riferimenti programmatici, ebbe a spiegare minimalisticamente e con tono dissacrante l’origine del titolo come un semplice gioco di parole, un esercizio di allitterazione (fante-funte): in realtà il minuscolo brano (6 minuti scarsi) composto nel 1899, divenne subito notissimo, tanto che 10 anni più tardi Ravel lo orchestrò da par suo (compiendo il percorso inverso rispetto a Fauré, la cui Pavane nacque per orchestra e fu poi down-gradata per la tastiera). Ed è nella versione orchestrata che ascoltiamo il brano in queste tre serate.

La struttura è di rondo assai semplice (A-B-A-C-A) di 72 battute totali, così organizzato:

A - Refrain (7+5=12 battute);

B – Couplet-1 (7+8=15 battute);

A - Refrain (12 battute);

C – Couplet-2 (10x2=20 battute);

A - Refrain (12+1 battute).

Ne si può facilmente scoprire l’impianto in questa registrazione di Alexander Tharaud al pianoforte.    

Il ritornello A (SOL maggiore, con inflessioni modali e frequente appoggio sulla sesta) è inizialmente esposto a partire dal SOL centrale. Si compone di due frasi delicate, accompagnate nella mano sinistra in atmosfera assai rarefatta e discreta.

Segue (1’08”) il primo episodio (B) che presenta un motivo più risoluto, fatto di accordi di 4 o 3 note, con note lunghe nella mano sinistra; motivo che viene ripetuto.

Il ritornello (A) viene ora esposto (2’25”) un’ottava sopra rispetto all’esordio e con accompagnamento un po’ più corposo.

Il secondo episodio (C, in SOL minore, a 3’29”) è ancora più mosso del primo e come questo prevede la ripetizione del tema.

Ultima apparizione (5’14”) del ritornello (A) dalla stessa altezza della seconda, ma con accompagnamento assai mosso e ondeggiante, che poi si stempera in una presa di respiro (pp) cui segue la conclusione decisa (ff).

Nella versione orchestrata (qui Ormandy con la Philadelphia) le diverse sfumature sopra descritte vengono realizzate e moltiplicate attraverso un sapiente (proprio… raveliano) impiego dei colori orchestrali: il ritornello è aperto dal corno, poi nella successiva apparizione (2’07”) lo troviamo esposto dagli strumentini e nell’ultima (4’29”) da violini e flauti, poi clarinetti, con l’arpa che accompagna in arabeschi. Il primo episodio (58”) è affidato all’oboe, poi ripetuto dai violini; il secondo (3’05”) al flauto, raggiunto poi dall’intera orchestra. L’arpa fa il suo timido ingresso in chiusura del primo ritornello, poi il suo contributo prenderà via via corpo, fino ad essere protagonista nel terzo e ultimo.

Come si vede, gli strumentini e l’arpa hanno qui un ruolo chiave, e gli alfieri de laVerdi (Manachino, Greci, Ghiazza e Piva, più il corno magico di Amatulli) non hanno tradito la loro fama, giustamente ovazionati alla fine, insieme all’intero complesso e al Direttore.
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A seguire ecco Claude Debussy con i tre schizzi sinfonici intitolati La Mèr. Venuta alla luce all’inizio del ‘900, quando Strauss aveva appena chiuso la sua gloriosa stagione dei Tondichtungen, la composizione di Debussy, con tanto di titolo e soprattutto di tre ben specifici sottotitoli riferiti al mare, venne immaginata da pubblico e critica come un poema sinfonico in piena regola. Dopodichè, andandola ad ascoltare con questo pregiudizio, pochi ci sentirono davvero il mare e così la considerarono un mezzo fallimento. E a poco valsero le imbarazzate e un po’ piccate spiegazioni dell’Autore, che invitava a godere di quella musica dimenticandone gli specifici riferimenti acquatici: ma allora perché non intitolarla semplicemente Tre schizzi sinfonici… sul tipo di Ouverture, Scherzo und Finale di schumanniana memoria?

Poi però nel giro di pochi anni (dalla sofferta prima del 1905 alla ripresa, diretta dall’Autore, del 1909) il tempo ha fatto piena giustizia, sia delle critiche, che di titolo e sottotitoli! E l’opera è entrata di diritto fra quelle più innovative ed ammirate del secolo scorso. E la sua fama ha finito anche, paradossalmente, per portare i critici a rivalutarne persino il programma extra-musicale! Perché – in barba a dotte analisi musicali - non ci vuol molto, semplicemente ascoltandola, ad immaginare onde che si infrangono sugli scogli, o la risacca che accarezza la sabbia, o un improvviso mulinello di vento che si forma sul mare e si disperde in pochi attimi. (Però, senza troppa fatica e con un minimo di immaginazione, potremmo invece sentirci atmosfere di montagna – stormire di fronde, svolazzi di stormi di passeri, cascatelle e rigagnoli, veloci passaggi di nuvole… - perchè no!)

Insomma, un’opera affascinante, che affascina proprio per l’inafferrabilità delle sue forme e la perenne mutazione armonica delle sue atmosfere, con i motivi che sgorgano l’uno dall’altro senza apparenti legami di causa-effetto, ma che hanno un… effetto straordinario sulla nostra percezione.

Tjeknavorian dirige con gesto a volte fin troppo scolastico, nella scansione delle battute, ma evidentemente efficace, visto l’eccellente risultato dell’esecuzione, accolta con favore dal pubblico non… oceanico dell’Auditorium. 
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La serata si è chiusa con la celeberrima Sheherazade di Rimski, che Tjeknavorian ha scelto come primo brano da incidere su CD in veste di Direttore, con l’Orchestra Tonkunstler: e si deduce che l’abbia studiata a lungo, se ha fatto rimuovere il leggio e ha diretto a memoria! Qui ha poi il vantaggio di trovare una compagine che lo conosce come le sue tasche e una spalla (Santaniello) che non ha rivali nel sapersi calare nelle… corde della principessa!

Per carità, non vorrei essere frainteso: non sto insinuando che il giovine armeno si sia limitato a seguire col gesto i suoni emessi in totale autosufficienza dai ragazzi de laVerdi… Diciamo che non gli è stato difficile fare una bella figura, e la simpatia con la quale gli stessi orchestrali lo hanno salutato alla fine dimostra che il ragazzo deve pur avere qualche interessante qualità. Il futuro è tutto dalla sua parte.

19 settembre, 2019

MITO-2019 - Chiusura milanese di Axelrod al Dal Verme


Ultima tappa del mio MITO-parcour milanese (con omaggio di T-shirt gentilmente offerto da uno sponsor) con John Axelrod che in un DalVerme gremito ha diretto la OSN-RAI in un programma classico-moderno, dove un lavoro di un maturo cinese contemporaneo (in prima italiana) si è inserito fra due opere del primo novecento.

Si è quindi aperto con Debussy e la sua Isle joyeuse, composta originariamente nel 1904 per pianoforte e successivamente (1917) orchestrata (col beneplacito dell’Autore) da Bernardino Molinari. Rispetto alla versione per la sola tastiera, quella orchestrata da Molinari presenta per ovvie ragioni sonorità più ricche e complesse (e un finale tardo-romantico); in compenso appare meno asciutta e impressionista. Tuttavia ad un ascolto superficiale si potrebbe tranquillamente credere trattarsi della scrittura orchestrale dello stesso Debussy.

Sono poco più di sei minuti che scorrono piacevolmente, come del resto suggeriscono il titolo dell’opera e l’ispirazione che Debussy ebbe dal quadro di Watteau, oltre a risvolti vagamente autobiografici (l’estate passata al mare con l’amante che diventerà la sua seconda moglie). Servono bene a scaldare i motori dell’Orchestra e... le mani del pubblico.
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Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:

Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).

Qui ad interpretarlo per l’esordio italiano è stata un’altra rappresentante del gentil sesso, la 32enne norvegese Tine Thing Helseth, che - presentatasi a piedi nudi! - ha messo in mostra le sue eccezionali doti tecniche superando brillantemente le difficoltà di cui è popolato questo brano, rilevabili dall’esempio qui sotto:



Il finale è davvero pirotecnico e la simpatica Tine si merita ovazioni ripetute, che ricambia con un bis assai più... tranquillo.
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Chiusura con Mahler e la sua Quarta sinfonia. L’Orchestra la conosce evidentemente come le sue tasche e Axelrod, che con i nazionali-RAI ha un’antica consuetudine, va proprio sul velluto. Lui ci mette ovviamente del suo e devo dire con grande profitto, quanto a tempi e dinamiche sciorinati nei diversi scenari che la sinfonia propone.

Francamente mi sarei aspettato di più dalla Rachel Harnisch, che ha esposto con discreto portamento il Lied conclusivo, ma la voce è scarsina di decibel, specialmente nelle note gravi, davvero poco udibili. Ma il pubblico ha mostrato di apprezzare, richiamando ripetutamente al proscenio lei e il Direttore.

Per quanto posso giudicare dalla mia (scarsa) frequentazione di questo MITO, mi pare che abbia dato parecchie soddisfazioni al suo Direttore artistico, il valente Nicola Campogrande. Arrivederci (e risentirci) quindi al 2020!

02 dicembre, 2017

Milano Musica chiude all'Auditorium


Largo Mahler ha ospitato ieri una delle tappe (anzi l’ultima, che si replica domenica) della rassegna Milano Musica, dedicata come sappiamo a Salvatore Sciarrino. Del quale era in programma la prima esecuzione italiana del Libro notturno delle voci, una specie di eterodosso Concerto per flauto dedicato all’esecutore di oggi, Mario Caroli (speriamo il flauto non si offenda, e nemmeno il concerto...) del 2009.

L’opera (!) si suddivide in tre parti, con tanto di sottotitoli:

1. In val d'abisso
2. Fauci dell'emozione
3. Mario Caroli e l'iridescenza di un Re

Purtroppo nè i titoli, nè (soprattutto) i contenuti musicali ci aiutano a distinguere chiaramente una parte dall’altra. Quindi possiamo sentenziare trattarsi di un’opera caratterizzata da grande unità tematica...

Sciarrino si è specializzato nel riprodurre in musica qualunque tipo di suono(/rumore) in ciò prendendo spunto dalla filosofia di Mahler (a proposito dei suoi Naturlaute) ma portandola all’estremo. Così non ascoltiamo più i classici cuculi, o le melodie stiracchiate di un violino di strada, o i campanacci di vacca su un alpeggio... ma arrivano alle nostre orecchie muggir di buoi, latrar di cani o miagolar di felini in calore, per citare solo qualche esempio. Poi ci sono anche sirene antifurto, porte metalliche di vecchi ascensori che sbattono, sinistri cigolìi, sgocciolar di rubinetti guasti... tutti suoni che rompono il silenzio notturno, ci pare di udirli nel dormiveglia, ritmato dal respiro affannoso di due violoncelli.

Il flauto qui è usato nel primo movimento come un fischietto di quelli che un tempo corredavano i nostri vestitini da marinaretto; nel secondo come strumento per produrre... starnuti; e nel terzo per emettere il suono che si ottiene naturalmente soffiando in una canna di bambù.

Che dire, restarne rapiti? Farci prendere da esasperazione? Sghignazzarci sopra? Beh, ognuno si attrezzi un po’ come gli pare... c’è libertà di scelta, di gusti e di critica; e per fortuna (dei compositori, soprattutto) non c’è in giro nessun nipotino di Zdanov, ecco. Però dobbiamo riconoscere che qualche progresso si è compiuto: rispetto alla registrazione della prima assoluta in terra tedesca (citata più sopra, del 2009) ieri la durata del brano ha superato di poco i 25 minuti. Grazie!

PS: Caroli deve avere comunque un buon rapporto con il suo flauto: per farsi perdonare di averlo bistrattato a quel modo, ha concesso un bis dove lo strumento è stato impiegato precisamente per lo scopo per il quale fu inventato: emettere suoni e non rumori (!)
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La serata era stata aperta (come da prassi che vuole che, in presenza di un brano moderno, gli si anteponga uno di tradizione, per in qualche modo obbligare il pubblico a sorbirsi il moderno...) da Ravel, con la sua Valse, ovviamente in versione orchestrale. Si tratta di un grottesco sberleffo alla Vienna presuntuosa e godereccia di metà ‘800, dove sentiamo raffinate atmosfere impressioniste intercalate a volgarità da fetida balera… Però il tutto è sempre un piacere per l’ascolto, e qui difficilmente si pone il problema di come reagire di fronte a ciò che arriva alle nostre orecchie. Va da sè che i ragazzi (e Angius ovviamente) han dato il loro fattivo contributo alla riuscita dell’impresa..
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Dopo la pausa ecco Debussy, con in suoi tre Nocturnes, una particolare variante di musica-a-programma.

Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Chissà se quella specie di Dies Irae esposto da clarinetti e fagotti è un riferimento voluto o casuale... 

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes si riallaccia in quache modo a Sciarrino, che ha trattato il mito di Orfeo più volte, non ultima la sua recente opera data in prima mondiale alla Scala. In più, è davvero raro ascoltare questo brano in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): così è un merito de laVerdi (che un coro, e coi fiocchi, ce l’ha) averci fatto questo bel regalo. Per la cronaca Angius ha schierato le signore di Erina Gambarini proprio in mezzo all’orchestra, scelta appropriata data la natura degli interventi canori.
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Ha chiuso la serata un ennesimo bolerodisciarrinoravel, che il tamburino militare del solito Ivan Fossati (rimastosene stavolta in piccionaia fra i colleghi percussionisti, invece di accomodarsi davanti al Direttore, come fa di solito) ha scandito imperterrito, dalla prima all’ultima battuta. Anche questa è musica discutibile e persino offensiva nella sua struttura, eppure - chissà mai perchè? - la si ascolta sempre con gran trasporto e alla fine la sala addirittura trema sotto lo scrosciare degli applausi.   


Ma ora vedo profilarsi minacciosa all’orizzonte un’affilatissima ghigliottina...

30 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°2


Terza consecutiva presenza sul podio de laVerdi per Patrick Fournillier (lo rivedremo altre due volte nella stagione) che ci guida in una promenade attraverso l’800 operistico francese (con escursione nel primo ‘900) insieme al soprano fiammingo 35enne Iris Hendrickx (nuovo cognome d’arte della Luypaers).

Programma francamente modesto, e non a caso l’Auditorium è rimasto semideserto. La Hendrickx deve aver scambiato il concerto per una sfilata di moda, sfoggiando ben due abiti talmente ingombranti da quasi impedirle l’accesso e l’uscita dal proscenio... Dirò malignamente che sono le cose migliori che ha saputo presentare: voce che negli acuti ha un timbro francamente sgradevole (urla piuttosto che canto) e personalità interpretativa un po’ deboluccia, ecco.

L’Orchestra ha vissuto su qualche assolo (Scarpolini, Santaniello, Stocco, Amatulli, Piva) e su pochi sprazzi di carica dei bersaglieri (Carmen e Samson) per il resto normale amministrazione.

Alla fine bis in pieno ‘900 (Poulenc: Les chemins de l’amour) ma resta la domanda: perchè niente di Meyerbeer, Auber, Halévy? Troppo impegnativi per la voce ? Evabbè, almeno... che non si ripeta.

22 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (3)

 

Ieri all’OF seconda recita del Pelléas dei due Danieli. Nota davvero stonata i larghissimi vuoti in sala, testimonianza fin troppo lampante, oltre che desolante, del degrado della cultura musicale del pubblico italiano, a dispetto delle risorse pubbliche impiegate per costruire strutture che diventano le classiche cattedrali nel deserto, il deserto delle sale…  

Spettacolo complessivamente di buon livello, soprattutto sul fronte dei suoni (che poi è ciò che conta di più).

Daniele Gatti è alla sua prima esperienza con Pelléas (non certo con Debussy): per essere un esordio, diciamo che è stato… promettente, ecco. Ha tenuto mediamente tempi abbastanza serrati (tipo Abbado o Karajan) che privilegiano il lato più onirico che non quello drammatico (paura e crudeltà, come ebbe a sentenziare Boulez) dell’opera. Ma il Pelléas ha tali e tante sfaccettature che un Direttore vi potrà sempre trovare qualcosa di nuovo da mettere in luce: se ci tornerà sopra, non ho dubbi che anche Gatti (come accadde proprio a Boulez, per dire) ripenserà in qualche modo l’interpretazione, quanto meno in molti dettagli. L’orchestra del Maggio mi è parsa a sua volta all’altezza del compito, avendo prodotto sempre un suono pulito e trasparente, cosa certo da accreditare anche alla consuetudine di Gatti con le opere strumentali di Debussy (il quale sprezzava il magma sonoro wagneriano, dove secondo lui un violino non si distingue più da un corno). E che fra Gatti e l’Orchestra si sia instaurato un feeling particolare lo dimostra il calore dell’accoglienza che i Professori hanno riservato al Maestro all’uscita finale, in un tripudio di archetti agitati in aria al suo indirizzo!    

Gatti ha scelto un cast tutto italiano: scelta legittima, anche se forse un po’… provocatoria, o bizzarra, come la si voglia giudicare. Ma prima di parlare delle voci, bisognerebbe ricordare come le tessiture dei protagonisti siano influenzate non solo dalle rispettive caratteristiche antropologiche (giovane, vecchio, mite, ombroso) ma anche e soprattutto dall’idiosincrasia di Debussy (in questo davvero seguace di Wagner) per gli stereotipi dell’opera tradizionale, con conseguente abbandono non solo di ogni forma chiusa, ma anche di ogni forma di affettazione, così tipica del melodramma classico, dove i personaggi mai e poi mai (né nei recitativi né tanto meno nei numeri) cantano come si parla normalmente. Per Debussy valeva la massima prima le parole, poi la musica, e la musica doveva servire il testo del dramma, non viceversa: insomma, l’antico recitar cantando di bardiana memoria. Una delle tante conseguenze di questo approccio è la relativa intercambiabilità (tenore-baritono e soprano-mezzosoprano) delle voci dei due protagonisti del titolo. 

Il personaggio di Pelléas – notato da Debussy in chiave di SOL, cioè di tenore - ha una tessitura che va dal DO sotto il rigo al LA sopra, nemmeno due ottave: certo una tessitura ardua, sugli acuti, per un baritono, ma che ha frequenti (e difficoltose, per un tenore leggero) escursioni in zona grave (penso ad esempio alla scena della grotta dell’atto II, dove si tocca eccezionalmente un SOLb sopra il rigo, ma dove per il resto la declamazione si muove tutta sull’ottava bassa). Non a caso alla prima del 1902 fu interpretato da Jean Périer, che era un bari-tenore (o baryton-Martin come usano definirlo i francesi) e Debussy stesso scrisse appositamente degli ossia sullo spartito in occasione di recite affidate a tenori, ma discusse addirittura la proposta di affidare la parte ad un mezzosoprano (alla prima del dramma di Maeterlinck Pelléas era impersonato da un’attrice, Marie Aubry). Ebbene, Paolo Fanale, tenore dalla voce brunita e robusta, si è dimostrato una scelta assai azzeccata per il ruolo, che ha diverse sfaccettature, dall’efebico all’eroico. Purtroppo proprio alla fine (la scena d’amore del quart’atto) mi è parso che la sua voce abbia perso un po’ di smalto e incisività, con la conseguenza che le bordate sonore scagliate da Gatti dalla buca lo abbiano travolto e coperto.

Quanto a Mélisande, la tessitura è ancora più corta di quella di Pelléas, andando dal DO sotto il rigo al LAb sopra (tanto per esemplificare, all’acuto è solo un tono pieno sopra quella di Geneviève): e infatti anche qui la parte può essere sostenuta da soprani (quale fu la prima interprete, Mary Garden) ma altrettanto bene da un mezzosoprano, come qui Firenze dove troviamo Monica Bacelli. Che mi è parsa ben calata nel ruolo, proponendoci una Mélisande dalla cangiante personalità, celestiale ma allo stesso tempo anche ombrosa e scabrosa. La sua voce non è delle più… pure e qualche acuto è stato un po’ maltrattato, ma in complesso si merita un’ampia sufficienza.

Su Golaud non ci son dubbi che debba essere un baritono, ma un baritono di voce abbastanza chiara, poiché il personaggio sarà pure sbifido, ma non è certo uno Scarpia. Ecco, Roberto Frontali se l’è cavata assai bene, proponendoci un personaggio divorato dai dubbi, ma mai sopra le righe: convincenti soprattutto le due scene-madre con Mélisande (quarto e quinto atto).

Roberto Scandiuzzi ha ben meritato, nel difficile ruolo di Arkël: sempre autorevole e mai macchiettistico come a volte viene presentato questo personaggio.

Geneviève è l’inossidabile Sonia Ganassi: una parte limitata (al solo primo atto) quasi esclusivamente declamata recto-tono, che lei ha però sostenuto con  appropriata sensibilità.

Il personaggio del piccolo Yniold è affidato ad un soprano (devo dire che personalmente gradirei di più, anche dal punto di vista attoriale, una voce bianca, pur riconoscendo che per un fanciullo la parte è davvero ostica…): qui ad impersonarlo è Silvia Frigato, che ha effettivamente un fisico da fanciullo. Il canto però mi è parso eccessivamente forzato, proprio a simulare una voce bianca, con risultati francamente non eccelsi. 

Andrea Mastroni si è ben disimpegnato, sdoppiandosi nei ruoli del pastore e del medico.

Il coro (A-T-B) ha qui una parte limitatissima verso la fine del prim’atto (mutuata dal Tristan e poi… miscroscopizzata) che la compagine di Lorenzo Fratini ha svolto con diligenza.

In complesso questo cast autarchico (e… sciovinista alla rovescia) non ha affatto demeritato e anche la pronuncia (bisognerebbe però verificare con un francofono autentico) mi è parsa sufficientemente credibile.
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La messinscena do Daniele Abbado mi è parsa invece eccessivamente fredda: della Natura, che pure è presente, e come, nel testo di Maeterlinck, qui proprio non v’è traccia. Per carità, nessuno pretende i boschi finti e lo stormire di foglie di cartavelina, ma nemmeno convince l’argomento secondo cui basta la musica di Debussy ad evocare la Natura: perché se la musica evoca fiori e prati ma ciò che si vede è un’impalcatura di tubi-Innocenti, il rischio che si corre è che pure la musica ne venga penalizzata. La scenografia di Giovanni Carluccio prevede, alla base, due grandi semi-ellissi (a volte raddoppiate) che possono apparire in combinazioni diverse: una sola, concava verso l’alto, che fa da unico ambiente in alcune scene; oppure due contrapposte e separate (contenenti all’interno strutture orizzontali in cui si muovono i personaggi); oppure ancora congiunte, a formare una specie di occhio o il bordo di un pozzo (la fontana dei ciechi). Oltre a queste abbiamo una passerella (scena 3 dell’atto I e scena 1 dell’atto IV) e poi dei ponteggi con scale, impiegati in particolare nelle prime tre scene dell’atto III. La scena finale è invece totalmente spoglia e bianca, il letto di Mélisande è un tavolaccio posto quasi in verticale (il che di sicuro aiuta l’interprete a cantare in posizione quasi eretta).

Abbado ha poi inventato (anzi… copiato da altri) qualche gratuito particolare, come ad esempio il fendente che Golaud si auto-infligge con la spada dopo aver infilzato il fratellastro: ciò si desume solo dalla parte del testo di Maeterlinck che Debussy ha soppresso (!) e la cosa avviene oltretutto in tempi successivi alla chiusura dell’atto IV, dove Golaud si dovrebbe limitare a seguire Mélisande che scappa via inorridita. Pure gratuita, anche se consente all’interprete di rifarsi viva dopo la fine del primo atto, è la presenza di Geneviève nella scena finale, a recare la neonata al capezzale della mamma. Il testo ci parla per l’ultima volta, e indirettamente, di Geneviève nell’atto IV, quando Pelléas riferisce a Mélisande della gioia della madre per la guarigione del padre. Ma cosa sia stato di lei dopo il fattaccio intercorso fra i suoi due figli non ci è dato sapere: potrebbe pure esser morta di crepacuore!

Quanto ai movimenti dei personaggi e alla recitazione, si sa che la staticità del testo offre al regista pochissimi spunti per sbizzarrire la propria fantasia: Abbado non è andato al di là di un onesto lavoro di scavo psicologico. Da questo punto di vista mi son sembrati ben centrati i personaggi di Golaud e dei due vecchi (Arkël e Geneviève). Pelléas è personaggio indecifrabile di per sé, e Abbado come tale ce lo mostra, senza prendere decisamente posizione (a mio avviso) né per un giovane debole e complessato, né per un amante fiero e deciso a tutto.

Quanto a Mélisande, mi pare che il regista ne abbia voluto enfatizzare il lato schizofrenico: alludo in particolare alla scena dove lei mente spudoratamente a Golaud (a proposito dell’anello) dove ci viene mostrata una donna in atteggiamento propriamente carognesco.

Insomma, un allestimento dignitoso, ecco. Il pubblico selezionato ha comunque mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata indistintamente a tutti i protagonisti.

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Allego per l’occasione un’interessante monografia su Debussy, a cura di François Lesure, con particolari riferimenti al Pelléas, apparsa su Musica&Dossier nel maggio 1989. 

17 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (2)

 

Dopo aver preso in considerazione il testo del dramma di Maeterlinck così come adattato da Debussy per la sua opera, proviamo a farci un’idea di quest’ultima, che il Maggio fiorentino ospiterà a partire da domani.


Debussy, primi anni ’90 del secolo XIX, aveva alcuni possibili modelli cui ispirarsi per un’opera teatrale: Wagner in-primis, di cui lui (prima di distaccarsene al seguito di Nietzsche) era stato ammiratore tanto incondizionato da fare innumerevoli pellegrinaggi a Bayreuth, per il Ring, Tristan e Parsifal; all’opposto (quanto a notorietà acquisita, oltre che ad approccio al dramma musicale) Musorgski, di cui aveva ammirato le spericolate innovazioni del Boris; o magari, perché no, Mascagni, che in quegli anni era venuto alla ribalta con Cavalleria, un soggetto che, al di là delle incrostazioni simboliste, lì del tutto assenti, era però nella sostanza un parente del Pelléas, basta sostituire questi con Turiddu, Golaud con Alfio, Mélisande con Lola e Geneviéve con Lucia (smile!)

Certo un tipo con la puzza al naso come Debussy mica poteva abbassarsi al livello di un Mascagni qualunque… mentre non potè evitare di tener buona almeno in parte la lezione di Wagner e di far proprie alcune soluzioni dell’ubriacone russo. E così, anche se si offendeva a morte a sentirli definire come Leitmotive, pure lui si servì, e come, di motivi conduttori (Maurice Emmanuel ne ha catalogati non meno di 13) anche se li impiegò in modo e in quantità non paragonabili a quelli di Wagner.

Poi: si era a fine ‘800, e sempre più si metteva in discussione la tonalità: e anche chi ci si dichiarava fedele (un Mahler, tanto per dire…) faceva poi di tutto per insidiarne il predominio, scarnificandola di continuo e aprendo la strada a chi (meno riverente della tradizione) ne predicava e praticava il seppellimento (Schönberg in primis).

Debussy, che da colto sciovinista non si voleva mescolare ai rozzi crucchi, si differenziò da costoro rimanendo formalmente ancorato alla tonalità (tutte le sue partiture recano i classici accidenti in chiave) ma surrogandola con il frequente ricorso a scale esotiche: tanto per dire, nelle prime sole sei (!) battute del brevissimo Preludio del Pelléas ne vengono impiegate due, che poi giocheranno un ruolo di primo piano, anche se non esclusivo, in tutta l’opera: la scala pentatonica (DO-RE-MI-SOL-LA) e la scala a toni interi (DO-RE-MI-FA#-SOL#-SIb). Entrambe le scale mancano della sensibile (il SI nella tonalità di DO) e non comprendono semitoni (quindi impediscono ogni disegno cromatico). Ora, bisogna sapere che l’orientamento alla sensibile è stato il motore di tutta la musica occidentale da prima di Bach fino ad… Allevi! E quindi, levare di mezzo quella nota, alle nostre orecchie fa lo stesso effetto che farebbe alle nostre papille gustative il bandire il sale dai nostri manicaretti. Insomma, la musica senza sensibile, per noi (e sottolineo: noi) diventa inSIpida (smile!) Per questo, almeno di primo acchito, il Pelléas non coinvolge ed entusiasma come una Cavalleria! Peccato perché invece è opera che ha tutto il diritto di essere apprezzata, proprio come va apprezzato qualcosa di unico nel suo genere (nemmeno il suo autore riuscì più a ripetere nulla di simile).

Si diceva dei motivi conduttori: due di essi – fondamentali – compaiono subito all’inizio del Preludio:


Le prime 4 battute presentano un primo tema costruito ed armonizzato con la scala pentatonica, caratteristica di certa musica orientaleggiante, arcaicizzante e naif, che rappresenta tradizionalmente l’innocenza, il mondo celeste, la pace della natura (qui abbiamo il bosco, ma l’atmosfera ricorda anche quella immobile del preludio del Rheingold) mentre il secondo (nel seguito associato alla personalità di Golaud) è costruito ed armonizzato con la scala a toni interi, che ha un che di istintivamente repellente, innaturale (vi mancano la quinta e la quarta giuste) e diabolico (come attesta il tritono RE-LAb nei bassi).

Ecco, nel Pelléas ritroveremo spesso motivi e atmosfere creati con queste due scale, a rappresentare rispettivamente momenti (o personalità, o stati d’animo, o ambienti naturali) caratterizzati da serenità, poesia, cielo, sole, luce e soprattutto amore; oppure da violenza, oscurità, barbarie, cattivi sentimenti. E anche l’impiego degli strumenti dell’orchestra e dei relativi colori sarà conseguente: chiarezza e trasparenza nel primo caso (archi, strumentini, arpe); colori cupi e opachi nel secondo. A queste due scale particolari Debussy affianca poi modi gregoriani e scale più tradizionali, come la maggiore, la minore e il cromatismo, laddove lo richiedono le atmosfere da ricreare.

Altro aspetto peculiare della scrittura di Debussy (e lo si osserva in queste primissime battute) è la giustapposizione di temi costruiti con scale diverse, e quindi lontani e addirittura in conflitto fra loro: e ciò è propriamente la traduzione in musica della tecnica di Maeterlinck consistente nell’affiancare o sovrapporre nella sua prosa elementi (materiali e soprattutto psicologici) fra loro contrastanti, facce opposte e confliggenti di una realtà inafferrabile. (Su scala più macroscopica, è ciò che Wagner fece con Parsifal, dove si fronteggiano il diatonismo del Gral e il cromatismo di Klingsor.)   

Un chiaro esempio di natura bifronte è costituito dal tema di Arkël, esposto nella prima scena, quando Golaud si identifica come suo nipote: motivo che sembra nascere da quello nobile della Natura (scala pentatonica nelle prime tre note) perché il vecchio Re incarna il bel tempo antico; tuttavia l’impennata finale (che rappresenta il suo anelito verso il bene) parte con un tritono e si muove poi sulla scala a toni interi, come a gettare un’ombra su tanto ottimismo:
Anche il tema di Mélisande, che pure compare già dal Preludio, è costruito con questa tecnica di giustapposizione di elementi contrastanti, essendo formato da due sezioni, di cui la prima (prevalente nel prosieguo dell’opera, peraltro) più serena ed elegiaca e la seconda più aspra ed agitata, a rappresentare la duplice personalità della donna:
Quanto a Pelléas, il suo tema viene esposto nella seconda scena, al momento per lui di presentarsi con la lettera di Marcellus:

È un tema meno scolpito rispetto a quelli di Golaud e Mélisande, quasi a tratteggiare una personalità evanescente e incerta (si notino le sincopi nelle viole).

Anche il piccolo Yniold ha un suo tema, esposto per primo dall’oboe (su una scala di DO# minore) al termine dell’Interludio fra la terza e la quarta scena dell’atto III:


Va osservato che i temi associati ai personaggi sono quasi esclusivamente relegati in orchestra: servono quindi ad evocarne la presenza o il ricordo, più che ad incarnarne le esternazioni. 

Oltre a quelli elencati troviamo ovviamente i motivi che evocano luoghi od oggetti, o sensazioni; in ordine di apparizione: l’acqua, l’anello, la malattia, i rumori della grotta, la povertà, i capelli, la caduta da cavallo, la minaccia i Golaud, il sospetto, le lacrime, il gregge, la trappola, l’ombra, la dichiarazione d’amore, il risveglio, la neonata, il calar del sole.  

Come detto, non tutta l’opera è ostinatamente ancorata alle scale prive di sensibile e semitoni, come dimostra ad esempio questo motivo che ascoltiamo dalla bocca di Re Arkël nella sua prima esternazione, costruito sulla scala pentatonica, ma incorporante un FA che la impreziosisce; ecco come lo raddoppia il clarinetto:
Non per nulla c’è chi l’ha vista come un omaggio al vecchio buon Gounod… e a proposito di Arkël, il Re viene gratificato (atto I, scena II e atto IV, scena II) di due autentiche arie, da far invidia all’opera italiana. 

Poi tutto l’armamentario del cromatismo viene impiegato nelle scene-madri dell’opera, come nella violenta tirata che Golaud fa alla moglie, nella seconda scena del quart’atto, o nell’ultima scena dello stesso atto (incontro amoroso di Pelléas e Mélisande) dove troviamo una pagina come questa, degna di… Massenet o Puccini:

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A proposito invece di… reminiscenze, soprattutto wagneriane, l’Interludio fra le due prime scene inizia con una specie di Waldweben, ma contemporaneamente presenta anche una rassomiglianza impressionante con l’accompagnamento al racconto di Pimen, nel primo atto del Boris; (poi Mahler se ne ricorderà nel secondo canto del Lied von der Erde…)


L’Interludio culmina poi in una citazione tanto chiara quanto appropriata alla circostanza (il faticoso cammino di Golaud e Mélisande per uscire dalla foresta) del cambiamento di scena del prim’atto di Parsifal:


Un altro Interludio, quello che porta alla terza scena del second’atto (quella della grotta dove si reca Mélisande con Pelléas) è aperto da una figurazione degli archi che ricorda chiaramente l’incipit del terzo Preludio del Tristan, con la snervante dissonanza (SI-LA in Debussy e SOL-FA in Wagner) che li caratterizza:


Nella seconda scena dell’atto IV (incontro fra il Re e Mélisande) nel mezzo di quella che è un’autentica e strepitosa aria di Arkël (tipo Re-Marke, per intenderci) subito prima di Viens ici; pourquoi restes-tu là sans répondre et sans lever les yeux?, la viola suona, un tono sotto, il leggendario tema che apre il Tristan!


Invece richiama ancora Parsifal la chiusa dell’atto IV, con la caduta di seconda maggiore (SOL-FA) che ricorda quella (DO#-SI) che conclude l’atto di Klingsor.
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Per chi volesse approfondire nei dettagli l’esplorazione di quest’opera tanto interessante quanto ostica, è disponibile in rete la storica analisi (1907) fattane da Lawrence Gilman. Magari da accompagnare con il video di una altrettanto (ormai) storica produzione del 1992 di Peter Stein, diretta da uno dei maestri che più ha studiato e sviscerato (fin dal 1969) il Pelléas: il venerabile Pierre Boulez, qui con la WNO.

Vedremo come se la caveranno i due Danieli a Firenze, dove purtroppo la proposta pare venga (finora almeno) apprezzata da pochi intimi, a giudicare dal mucchio di biglietti ancora disponibili in internet per tutte e 4 le rappresentazioni.