Conclusa a
suon di trionfi la tournée ispano-olandese, l’Orchestra Sinfonica di Milano
torna in Auditorium con un programma franco-russo di fine ‘800
– primi ‘900. Per la prima volta sul podio di Largo Mahler sale il figlio
d’arte Emmanuel Tjeknavorian, 27enne austro-armeno nato violinista ma -
seguendo le orme del padre Loris - ormai avviato stabilmente sulla strada della
Direzione.
La prima sezione del concerto è tutta francese, aperta da Pavane pur une infante défunte di Maurice Ravel. Il quale, per negare al brano stretti riferimenti programmatici, ebbe a spiegare minimalisticamente e con tono dissacrante l’origine del titolo come un semplice gioco di parole, un esercizio di allitterazione (fante-funte): in realtà il minuscolo brano (6 minuti scarsi) composto nel 1899, divenne subito notissimo, tanto che 10 anni più tardi Ravel lo orchestrò da par suo (compiendo il percorso inverso rispetto a Fauré, la cui Pavane nacque per orchestra e fu poi down-gradata per la tastiera). Ed è nella versione orchestrata che ascoltiamo il brano in queste tre serate.
La struttura è di rondo assai semplice (A-B-A-C-A) di 72 battute totali, così organizzato:
A - Refrain (7+5=12 battute);
B – Couplet-1 (7+8=15 battute);
A - Refrain
(12 battute);
C – Couplet-2
(10x2=20 battute);
A - Refrain
(12+1 battute).
Ne si può facilmente scoprire l’impianto in questa registrazione di Alexander Tharaud al pianoforte.
Il ritornello A (SOL maggiore, con inflessioni modali e frequente appoggio sulla sesta) è inizialmente esposto a partire dal SOL centrale. Si compone di due frasi delicate, accompagnate nella mano sinistra in atmosfera assai rarefatta e discreta.
Segue (1’08”) il primo episodio (B) che presenta un motivo più risoluto, fatto di accordi di 4 o 3 note, con note lunghe nella mano sinistra; motivo che viene ripetuto.
Il ritornello (A) viene ora esposto (2’25”) un’ottava sopra rispetto all’esordio e con accompagnamento un po’ più
corposo.
Il secondo episodio (C, in SOL minore, a 3’29”) è ancora più mosso del primo e come questo prevede la ripetizione del tema.
Ultima apparizione (5’14”) del ritornello (A) dalla stessa altezza della seconda, ma con accompagnamento assai mosso e ondeggiante, che poi si stempera in una presa di respiro (pp) cui segue la conclusione decisa (ff).
Nella versione orchestrata (qui Ormandy con la Philadelphia) le diverse sfumature sopra descritte vengono realizzate e moltiplicate attraverso un sapiente (proprio… raveliano) impiego dei colori orchestrali: il ritornello è aperto dal corno, poi nella successiva apparizione (2’07”) lo troviamo esposto dagli strumentini e nell’ultima (4’29”) da violini e flauti, poi clarinetti, con l’arpa che accompagna in arabeschi. Il primo episodio (58”) è affidato all’oboe, poi ripetuto dai violini; il secondo (3’05”) al flauto, raggiunto poi dall’intera orchestra. L’arpa fa il suo timido ingresso in chiusura del primo ritornello, poi il suo contributo prenderà via via corpo, fino ad essere protagonista nel terzo e ultimo.
Poi però nel giro di pochi anni (dalla sofferta prima del 1905 alla ripresa, diretta dall’Autore, del 1909) il tempo ha fatto piena giustizia, sia delle critiche, che di titolo e sottotitoli! E l’opera è entrata di diritto fra quelle più innovative ed ammirate del secolo scorso. E la sua fama ha finito anche, paradossalmente, per portare i critici a rivalutarne persino il programma extra-musicale! Perché – in barba a dotte analisi musicali - non ci vuol molto, semplicemente ascoltandola, ad immaginare onde che si infrangono sugli scogli, o la risacca che accarezza la sabbia, o un improvviso mulinello di vento che si forma sul mare e si disperde in pochi attimi. (Però, senza troppa fatica e con un minimo di immaginazione, potremmo invece sentirci atmosfere di montagna – stormire di fronde, svolazzi di stormi di passeri, cascatelle e rigagnoli, veloci passaggi di nuvole… - perchè no!)
Insomma, un’opera affascinante, che affascina proprio per l’inafferrabilità delle sue forme e la perenne mutazione armonica delle sue atmosfere, con i motivi che sgorgano l’uno dall’altro senza apparenti legami di causa-effetto, ma che hanno un… effetto straordinario sulla nostra percezione.
Per carità, non vorrei essere frainteso: non sto insinuando che il giovine armeno si sia limitato a seguire col gesto i suoni emessi in totale autosufficienza dai ragazzi de laVerdi… Diciamo che non gli è stato difficile fare una bella figura, e la simpatia con la quale gli stessi orchestrali lo hanno salutato alla fine dimostra che il ragazzo deve pur avere qualche interessante qualità. Il futuro è tutto dalla sua parte.
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