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24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

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Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

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La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…


11 febbraio, 2022

Alla Scala una convincente Thaïs

Si segnala al pubblico che lo spettacolo include alcune scene di nudo.

Ecco perchè il Piermarini ieri sera era al tutto esaurito! (beh, veramente non è proprio così...)

Slurp! mi son detto: finalmente ci fanno vedere ciò che Massenet aveva pudicamente coperto dietro il sipario chiuso, concedendoci solo qualche erotico... massaggio musicale. E mi sono segnato accuratamente i momenti papabili, secondo il libretto, per presentare Thaïs (e magari - per par condicio - anche qualche gagliardo maschione) senza veli: 1. La visione del primo atto, primo quadro, dove Athanael sogna Thaïs esibirsi nel lungometraggio porn dal titolo Gli amori di Afrodite; 2. La fine del primo atto, ancora l’inizio de Gli amori di Afrodite, ma dal vivo; 3. L’apertura del second’atto, in casa di Thaïs (che si contempla, nuda, allo specchio); 4. Il menoso balletto del second’atto, dove qualche piccante coreografia può servire a vincere la noia; 5. La replica, ma ancora in DVD, della prima visione (secondo quadro del terz’atto). Poi ho accuratamente pulito le lenti del binocolo da marina che mi porto regolarmente a teatro, per non perdermi i primissimi piani dell’arrapante spettacolo.

Conclusione? Mah, chiappe e tette abbondano, però siamo addirittura sotto il livello che ormai raggiungono anche gli ad dei pannolini, ecco. In compenso Py e compagni sono andati pure al di là dei miei 5 punti, aggiungendovi anche la Méditation e la corsa nella notte. (Il regista ha - in parte - riesumato ciò che Massenet aveva cassato nella versione definitiva del 1898 - la pantomima dell’’Atto III - mostrandoci squarci riconducibili alle Tentazioni di Sant’Antonio; ma effettivamente, se si ipotizza che Athanaël viva da sempre con l’ossessione e le frustrazioni del sesso, allora il sesso ci potrebbe stare dal primo all’ultimo minuto dell’opera, come decise di proporci Stefano Poda a Torino nel 2008.)

Discutibili le presenze di un figurante nei panni di un Eros... erotico nella scena dello specchio (la presa d’atto di Thaïs della sua inevitabile sfioritura va ben al di là dell’aspetto puramente carnale...) e del successivo incontro con Athanaël (la statuetta di Eros evoca in Thaïs l’Amore con la A maiuscola, non il sesso...)  

Azzeccata invece l’insegna al neon posta sulla facciata della grande casa di appuntamenti che caratterizza Alessandria: insegna che riporta i versi della prima terzina della Commedia dantesca: il che pare del tutto appropriato ad evocare la selva oscura dei degradati costumi della città. (Bene ha fatto il regista a fermarsi qui con Dante, chè la disprezzata Taide dell’Inferno è quella pagana, ben avanti-Cristo, e non la santa cristiana del quarto secolo.)  

A proposito di ambientazione, Py ci porta ai tempi della composizione dell’opera, aggiungendovi poi scene (con donne-in-vetrina) mutuate dalle moderne cittadelle del vizio. Monaci e monache sono membri della Salvation-Army, con tanto di uniformi militaresche e con un appariscente scudetto con la S appuntato sul bavero. Di indubbia genialità l’idea di trasferire - nell’atto conclusivo - lo scudetto dal bavero di Athanaël a quello di Thaïs: plastica rappresentazione dei due opposti percorsi esistenziali dei due protagonisti (chapeau!)  

Peraltro ad Antinoe i monaci (escluso Palémon e un aiutante) non sono militari-militanti ma poveri clochard che mendicano un pasto come alla Caritas o al Pane Quotidiano (?!) in un’atmosfera (per di più incupita da lampi temporaleschi, caratteristici invece del secondo quadro del terz’atto) che ha ben poco dell’austerità dell’agape evocata da testo e musica. Viceversa le monache di Albine sono tutte in rigorosa uniforme (peraltro forzatamente scura e non candida come imporrebbe il testo).

Accurata la caratterizzazione dei personaggi: su tutti il Nicias, davvero l’archétipo del sibarita incallito!

Sul lungo balletto del second’atto si potrebbe discutere all’infinito: non certo di come è stato presentato qui (niente di speciale e niente da eccepire) ma sull’opportunità o meno di farlo, stante l’inevitabile calo di tensione che si crea in un momento topico della vicenda e - diciamolo francamente - la non sublimità della musica. Tutt’al più si potrebbe salvare - non saprei se sia semplice dal punto di vista musicale - il N°6 (la Charmeuse).

In conclusione: a dispetto delle segnalate (più o meno veniali) incongruenze, uno spettacolo di alto livello, assai godibile e costruito con indubbia professionalità. Il che fa onore a tutta la compagine che cura questo allestimento (e a chi - in alto - ha deciso di proporcelo).
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Buone se non ottime notizie sul fronte sonoro. Intanto: meno male che Viotti c’è! Il giovane Kapellmeister (pensiamo che meno di 20 anni fa suo padre dirigeva proprio Thaïs alla Fenice!) ormai è più che una certezza: evidentemente i due anni difficili, causa Covid, trascorsi dal Roméo et Juliette da lui diretto qui (già con grande successo) gli hanno dato modo di studiare, studiare e approfondire, e i risultati si... sentono.  Ovviamente poi a suonare sono i professori e va a loro il merito di aver tradotto alla perfezione le note - scritte da Massenet e... veicolate da Viotti - in suoni di assoluta purezza. Va da sè che una lode speciale sia da attribuire alla splendida... Thaïs di Laura Marzadori!  

Marina Rebeka (ebbi occasione di ascoltarla la prima volta al ROF nel 2010 nello Stabat Mater, quando era agli esordi) non aveva avuto un debutto propriamente entusiasmante qui tre anni orsono in Violetta. Poi si era in parte riscattata a settembre 2020, sempre in Violetta in forma di concerto con Mehta. Ecco, ieri direi che abbia fatto un altro bel passo in avanti, ampiamente riconosciutole dal pubblico. Se posso permettermi una modesta osservazione, è ancora la cosiddetta ottava bassa che andrebbe... potenziata, mentre la salita agli acuti è sicura e autorevole, sia in quelli spinti (vedi i RE del finale) ma soprattutto in quelli da esalare in pianissimo.

Piacevolissima sorpresa (per me almeno, che di lui conoscevo poco o nulla) è stato Lucas Meachem: il baritono yankee (ieri sera con folto... parrucchino) ha sostituito poco tempo fa l’annunciato Ludovic Tézier e devo dire che non lo ha fatto rimpiangere. Leggo che non era all’esordio nel ruolo, avendo già interpretato Athanaël negli USA, e in effetti la sua è stata una prestazione più che apprezzabile: la voce è potente e passante, senza sbavature nè sguaiatezze. E pregevoli sono anche le sue qualità attoriali, che gli hanno consentito di rendere al meglio la natura di questo personaggio complesso e... complessato.  

Ma un’altra sorpresa (conferma anche, avendo già calcato il palcoscenico del Piermarini e venendo dall’Accademia) è Giovanni Sala, un Nicias semplicemente perfetto: certo nella postura e nelle movenze, davvero azzeccatissime e perfettamente calzanti sul personaggio. Ma anche nel canto, che è poi la cosa più importante: voce chiara, squillante, del tutto appropriata a vestire questo vanesio e gaudente sibarita.

Di Caterina Sala e Anna-Doris Capitelli (le schiavette di Nicias) così come della Federica Guida (la Charmeuse) si sono potute apprezzare le qualità vocali, ma anche (non dirò soprattutto per non passare per depravato...) quelle fisiche!

Onorevoli le prestazioni di Valentina Pluzhnikova (Albine), Insung Sim (palémon) e Jorge Martínez (servitore di Nicias) così come quelle del sestetto dei cenobiti, altrettanti membri del Coro. Che a sua volta ha fatto bene la sua parte, non proibitiva.

Ecco, una bella serata, di quelle che davvero ti tirano su il morale.