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11 dicembre, 2019

La Tosca in teatro: luci e ombre


Dico subito che i miei timori si sono materializzati: lo spettacolo è di alto livello, per carità, ma è fatto per il cinema (compresa la sorellina minore, la TV) e per i DVD. In teatro perde molto del suo fascino ed anzi finisce quasi per deludere. Perchè l’attenzione del pubblico viene catturata dall’opulenza della scenografia e distolta dalla componente principale dell’opera, la musica!

La ripresa TV (se fatta sapientemente, come accade abbastanza in questa occasione) riesce a coniugare le esigenze visive con quelle uditive, poichè raramente, e solo nei frangenti che lo richiedono, mostra - fissa - l’intera inquadratura dell’enorme palcoscenico. Per il resto segue da vicino, o da vicinissimo, in primo piano, e da prospettive insolite e precluse allo spettatore in sala, i protagonisti dell’azione, permettendo così a chi assiste di focalizzarsi sull’essenziale, immagine e suono. É precisamente il concetto-base del cinema, dove tutto deve congiurare a orientare l’attenzione dello spettatore sull’essenza del soggetto rappresentato.   

Caratteristica che è poi stata fatta proprio dalle riprese televisive, come quelle di un incontro di calcio, dove quasi mai viene mostrata l’inquadratura fissa dell’intero campo (quella che vede lo spettatore dagli spalti) bensì la (piccola) parte del terreno, quella dove si svolge l’azione, e magari con replay da mille diverse direzioni e angolazioni, per arricchire lo spettatore di informazioni e dettagli invisibili ad occhio nudo. E il bello è che le immagini televisive vengono oggi proiettate anche negli stadi, su schermi giganti, in modo da fornire allo spettatore dal vivo ciò che altrimenti sarebbe patrimonio solo di quello seduto in poltrona a casa sua.

Ma ora sorge la domanda: vogliamo trasformare anche i teatri in stadi, dotandoli di schermi dove proporre i close-up o i replay dell’azione (?!) Se la risposta è , bene, allora si provi a farlo, se ci si riesce... Se invece è no, allora bisogna prendere atto che l’impiego di strumenti nati con altri scopi non è compatibile con il teatro che si fa in teatro (non sullo schermo, maxi o mini).

Altro problema. Purtroppo il teatro-di-regìa non contempla alcuna staticità (siccome vuole appunto fare teatro prima che musica!) e quindi tende a movimentare di continuo la scena, anche dove ciò sarebbe da evitarsi, finendo così per disorientare lo spettatore, che fatalmente sposta l’attenzione dal contenuto essenziale (il principio attivo, direbbe il farmacologo) all’invadente eccipiente. Insomma, è l’esteriorità dello spettacolo (magari interessante e sontuoso in sè) a prendere purtroppo il sopravvento.

Esempi relativi a questa Tosca: la presenza ingiustificata e quasi continua di personaggi alieni (ma a volte anche pertinenti!) al soggetto. Qui basta ricordare le suorine che nella chiesa vanno e vengono, spostando trespoli porta-candele, da destra a sinistra e da sinistra a destra; o la folla che occupa l’ufficio di Scarpia, comprese le domestiche-religiose che gli apparecchiano e sparecchiano la tavola; il continuo spostamento di parti della scenografia (colonne o affreschi che salgono-scendono, oggetti d’arredamento o intere parti di edifici che si spostano da sole o perchè spinte da figuranti, il torrione con l’alona del santangelone che gira incessabilmente su se stesso, come una giostrina per bambini, tableau-vivant che si animano impercettibilmente - ma solo per gli spettatori che entrano in Scala dal foyer al piano terra, quelli che entrano da Largo Ghiringhelli vedono solo... i piedi, o nemmeno quelli). Ma anche dettagli pertinenti al soggetto, ma che dovrebbero restare invisibili all’occhio, proprio come lo sono ai personaggi in scena: la sala della tortura di Cavaradossi, di un realismo davvero controproducente!

Insomma, pare che l’obiettivo della messinscena sia quello di mostrare le meraviglie dei potenti mezzi di cui la Scala si è dotata dal 2005, in modo da stupire lo spettatore (come accadeva nel barocco del ‘700 con l’impiego di strabilianti macchine ed effetti speciali... ma lì erano parte integrante dell’opera!) e pazienza se l’intimo contenuto del soggetto rischia di passare in secondo piano. Insomma: la forma prevale sulla sostanza (leggi: la musica). Non si è sempre criticato il grande Zeffirelli per l’ipertrofia, la sovrabbondanza e l’eccesso di effetti scenografici? Ecco, questa Tosca sembra inscenata da uno Zeffirelli_2.0!

La fedeltà alla partitura (le indicazioni didascaliche) tanto sbandierata da Livermore/Chailly è un concetto assai elastico: ne è lampante prova il finale dell’atto secondo, dove l’intera sequenza dell’allestimento - da parte di Tosca - della camera ardente per Scarpia (è Kitsch solo se fatta in modo trasandato, altrimenti è proprio parte integrante del quadro della personalità della protagonista) viene tranquillamente rimossa, per lasciar spazio a Freud. Ironia della sorte, la responsabilità è di Chailly, che ha ripristinato la posizione del verso E avanti a lui tremava tutta Roma, che comporterebbe che quell’esternazione venisse fatta da Tosca con due candele in mano, una cosa da avanspettacolo. Ma anche il finale dell’atto terzo, con la ridicola passeggiata nello spazio della controfigura di Tosca, è opera di Chailly, che ha voluto esser da meglio di Puccini, ripristinando il pleonastico finale (al posto di Livermore, avrei fatto abbassare il sipario nero e lasciato Chailly da solo a menare il torrone sinfonico di questa chiusura pacchiana). 

Che dire poi di Tosca che entra in chiesa a mani vuote e poi ruba i fiori di qualcun altro per omaggiare la Madonna (Bel rispetto - per Puccini - direbbe Scarpia)? O delle tre coltellate a Scarpia, più strangolamento (per sicurezza) dove Livermore ha rivaleggiato con l’orrendo Bondy? E della lugubre ambientazione del terz’atto, con plumbeo cielo da temporale, che fa totalmente perdere allo spettatore il lancinante contrasto fra l’idilliaco risveglio della natura e la catastrofe che si materializzerà di lì a poco?     

Insomma, una sovrabbondanza di orpelli e trovate genialoidi che sembran fatte apposta per catturare a buon mercato l’approvazione del pubblico. Di sicuro quella di Livermore è però una regìa che ci racconta precisamente la storia di Tosca, e non quella di Lulu, ed è già una gran consolazione, con i tempi che corrono...
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Molto meglio che alla prima (personalmente seguita in TV) sono andate le cose sul fronte dei suoni: evidentemente una prova (!) in più è servita. E non solo per evitare false partenze (seconda uscita di Angelotti) o improvvise amnesie (Netrebko, atto secondo). Mi pare che Chailly abbia rimediato all’approccio eccessivamente sostenuto mostrato a SantAmbrogio (anche qui, le prove servono...) e abbia dato maggior fluidità alla sua direzione. L’orchestra si era già comportata bene e ha fatto, se possibile, ancor meglio (memorabile il dispiegarsi della melodia - richiama Ciajkovski e anticipa Mahler - che accompagna lo scampanìo del risveglio della città). Inappuntabili i cori di Casoni e De Gaspari (che ha fornito anche il personaggio del Pastorello, il bravissimo Gianluigi Sartori).

Anna Netrebko, a parte aver rimediato i due erroracci (l’attacco del Vissi d’arte e il secondo Chi m’assicura?) ha sciorinato le sue grandi doti naturali, la splendida qualità della sua voce e la capacità di esprimere sentimenti, atteggiamenti e pulsioni d’animo di questo complesso personaggio che è Tosca. Il lato attoriale non è il suo forte, si sa, ma io (con buona pace di chi mette il teatro prima della musica) confermo di preferire una cariatide che canta come si deve ad una Eleonora Duse che gracchia e pigola.

Francesco Meli non è forse il Cavaradossi ideale (altrimenti Pereira non avrebbe avuto esitazioni ad annunciarlo in programma già lo scorso 27 maggio) ma si fa perdonare con la sua voce pulita e accattivante, in aggiunta alle mezze-voci (preferisco i suoi falsettini alle ingolature di tale Kaufmann). Lui è anche un ottimo attore, il che ovviamente non guasta.

Luca Salsi mi pare il migliore del terzetto per autorevolezza. E intendo autorevolezza vocale, timbro brunito, potenza in tutta l’estensione, sfumature efficaci (l’Ebbene? sussurrato a Tosca si è perfettamente sentito dal loggione). Se invece devo giudicare il suo approccio alla personalità del Barone, allora mi vien da dire che sia più lo Scarpia di Sardou che quello di Puccini... Cioè: un individuo depravato sì (Sardou) ma non una vera bestia quale lo scolpisce Puccini.

Efficacissimo il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, una macchietta che è stata interpretata con la giusta misura, senza mai scadere in volgare avanspettacolo. Altrettando dicasi di Carlo Bosi, la cui voce petulante ha reso al meglio il personaggio dello sbirro di Scarpia. Anche Carlo Cigni mi è parso più efficace e rinfrancato rispetto alla prima: deve rompere il ghiaccio e questa non è mai una cosa facile, ma ieri il suo Angelotti ne è uscito assai bene. Ernesto Panariello (lui è come il prezzemolo, alla Scala) ha svolto con la consueta professionalità il suo compitino di carceriere. Guido Mastrototaro è stato un dignitoso Sciarrone.

Per tutti ovazioni ed applausi (forse non si è battuto il record di durata del 7/12, ma ci si è avvicinati) con punte per Netrebko e Salsi. 

01 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°5


Per la prima volta sotto la bacchetta del Direttore Musicale, ecco uno dei pilastri ormai più che consolidati delle stagioni de laVerdi: il Requiem!

A proposito dell’eterna diatriba che divide i critici, fra chi accusa Verdi di aver scritto un Requiem melodrammatico (quindi addirittura insincero...) e chi invece difende l’opera quasi come fosse Brahms (che infatti spese parole di elogio per il Verdi sacro) ho riletto la fulminante monografia del sommo Massimo Mila (suggerimento tecnico per la lettura: prima scaricare il file, per poterlo poi ruotare di 90°) un’acutissima analisi socio-filosofico-estetica dell’intera problematica della musica religiosa e in particolare di quella che tratta i misteri di vita e morte. Mila individua due macro-approcci sviluppatisi storicamente, che battezza come tedesco e latino: il primo tende a trattare la morte con laica consapevolezza e con serena rassegnazione ad un evento purtroppo inevitabile; il secondo dove invece la morte è subita come choc (il Dies Irae!) dal quale l’Uomo è colpito all’improvviso, e che gli fa opporre resistenza alla stessa volontà divina. Va da sè che Verdi venga inserito di diritto nella seconda scuola di pensiero e di produzione artistica.

Claus Peter Flor, che pure ha un background sinfonico e tedesco, non ha però cercato di trasferire questa opera di Verdi nell’austero mondo teutonico, anzi: ha messo in risalto quanto di più latino si trova in questa partitura, a cominciare dalle esagerazioni del Dies Irae e del Tuba mirum...

Il coro si cimentava per la prima volta nel Requiem con uno dei nuovi Maestri che han preso il posto di Erina Gambarini, Alfonso Caiani: direi proprio che l’eredità sia stata ben salvaguardata!

Il quartetto di solisti (dislocati a metà palco, fra Orchestra e Coro). Di Erika Grimaldi avevo un buon ricordo, ma devo dire che ieri non mi ha del tutto convinto, per una certa approssimazione forse giustificabile dall’aver dovuto sostituire all’ultimo momento la titolare Svetlana Kasyan, che personalmente avevo scoperto (come molti, peraltro) nell’aprile 2013 al Regio di Torino in un discreto DonCarlo e che ero curioso di risentire (ma ci sarà una prossima occasione).  

Al mezzosoprano Roxana Constantinescu e al tenore Matteo Desole darò un’abbondante sufficienza, anche se non mi hanno particolarmente... eccitato, ecco.

La palma del migliore del quartetto la assegno al basso Carlo Cigni, che avevo avuto modo di apprezzare lo scorso agosto al ROF come Oroe nella Semiramide di Mariotti (purtroppo anche di Vick...) e che ha confermato alle mie orecchie quanto di buono era emerso in quell’occasione.

Auditorium piacevolmente affollato e prodigo di applausi, anche ritmati, ai protagonisti. Beh, il solo fatto di mettere in cantiere ogni stagione un mostro come questo e di saperlo domare come si deve è un merito non da poco!

18 agosto, 2019

ROF-XL live: Semiramide, ovvero: Vick in galera!


Eccomi quindi a commentare la (terza recita di) Semiramide, in una Vitrifrigo-Arena con diverse poltrone vuote.

Ascoltare uno dei più grandi monumenti musicali di ogni tempo più che discretamente eseguito da Direttore, Orchestra e Voci, ma rappresentato in scena come un esercizio da oratorio parrocchiale non è proprio il massimo... ma si sa, i Festival son fatti per stupire e scandalizzare (o almeno così dice la vulgata). Quindi take-it-easy e ridiamoci sopra!

Testuali parole di Vick: Nel 2019 mi pare imbarazzante fare l'imitazione di un uomo interpretato da una donna, magari con le gambe aperte. È una convenzione tramontata.

Ah davvero? A parte il fatto che il nostro mondo del 2019 (e la tendenza è a crescere...) è pieno di travestiti nobili e proletari, ricchi e poveri, e di gente che cerca la loro compagnia, dall’imbambagiato in Ferrari Lapo Elkann al più sfigato dei derelitti, e quindi non si vede cosa ci sarebbe di imbarazzante in tutto ciò... il problema, caro il mio Graham, è di una semplicità disarmante: It’s the music, stupid!

Tu, caro Grahm, sarai anche un grande uomo di teatro (nessuno te lo nega) ma di MUSICA  capisci poco o nulla, o meglio, temo io, tu la musica - questa, per lo meno - la disprezzi! Come hai fatto, sempre qui a Pesaro nel 2011, impiegando quella del Mosè per rifilarci la storia della nascita dello Stato di Israele (Mosè=Jabotinski!) e nel 2013 travisando completamente l’estetica del Tell, ridotto a strumento di propaganda politico-ideologica di bassa lega.   

E quindi - tanto per limitarci a Rossini - immagino che sarai ben lieto in futuro di farci conoscere (basta che ti appaltino, a fronte di laute parcelle pagate da NOI, la regìa delle rispettive opere) anche l’eroina Tancreda, la regina Cira di Babilonia, la regina sfigata Sigismonda, la Pippa della Gazza ladra... e mi fermo qui per non coprire di ridicolo un’altra mezza dozzina di straordinari protagonisti en-travesti di opere del Gioachino. Che per te era evidentemente un depravato sessuale il quale, rimasto a secco con i poveri castrati, rivolse le sue morbose attenzioni ad altri esemplari targati LGBT...  Ascpide! L’idea che la scelta delle voci cui affidare i caratteri dei personaggi fosse per Rossini di natura squisitamente estetica non ti sfiora nemmeno, vero? Oppure, dato che l’estetica può cambiare - e cambia - nel tempo, ecco che tu ti permetti allegramente di adulterare l’opera originale per adattarla ad una presunta estetica di oggi! Quindi metti un piercing alla Gioconda e il tanga alla Primavera! Apperò! La tua Semiramide si trasforma nella storia in una catena lesbica: Semiramide-Arsace e Arsace-Azema. Geniale!
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Ma Arsace femmina è solo la punta dell’iceberg del colossale travisamento del soggetto perpetrato dal regista albionico che - forse per ammortizzare i costi delle sue fatiche - deve aver trattato Semiramide come corollario della Tote Stadt da lui recentemente inscenata alla Scala: tutta Freud, complessi edipici, visioni oniriche, isterie, allucinazioni (ma là ci stava bene, trovandosi precisamente nel libretto, prima che nella musica!) Il tutto in una strampalata ambientazione moderna, altro che la sontuosa e sfarzosa Babilonia! E dove il tragico, il magico e il soprannaturale - non si è sempre detto che con Semiramide Rossini abbandonò il suo innivativo modello di opera seria sperimentato a Napoli per tornare al tardo-barocco? - cedono il posto alla più ritrita riproposizione freudiana di turbe psichiche ingenerate in un infante, per il resto alle prese con orsacchiotti e gessetti: questo per spiegarci una... belinata, cioè come Arsace sia stato testimone oculare dell’omicidio del padre (azione oltretutto cruenta, come mostra il coltellaccio che lui pargoletto vede nelle mani insanguinate della madre!) e come quel ricordo continui ad emergere dal suo subconscio. Auto-imprestito, si dovrebbe dire (visto che siamo da Rossini): avendo Vick copiato se stesso, vedi l’Arnold del suo Tell che guarda i filmetti dell’infanzia. Così Arsace diventa ossessionato dal desiderio di vendicare la madre, cosa che finalmente gli riuscirà: e lo farà in piena luce, avendola ben visibilmente a tiro, non certo per sbaglio (mano divina) e nella completa oscurità del mausoleo di Nino.

In poche parole: una storia inventata di sana pianta, che contraddice alla grande il testo di Rossi (dove Arsace fino all’ultimo rifiuta ritorsioni sulla madre per rivolgere la sua sete di vendetta esclusivamente su Assur) e - soprattutto - la MUSICA di Rossini, che a quel testo e a quel soggetto si è mirabilmente ispirata. Se a Rossini fosse stata mostrata la messinscena di Vick, ammesso che non fosse scoppiato a ridere ed avesse acconsentito a musicarla, vi avrebbe composto musica totalmente diversa da quella che scrisse per la tragedia di Rossi, mutuata da Voltaire, se ne può star certi.

Oh, in certi momenti Vick è però rispettosissimo del libretto, come quando, nel drammatico confronto fra Semiramide e Assur del second’atto (da lui peraltro trasformato in una scena-di-petting-sul-divano da filmetto osé) ci mostra lei che, cantando La forza primiera ripiglia il mio core, Regina e guerriera punirti saprò, afferra e strizza ben bene i... coglioni di Assur! Quale poesia, quanta profondità di scavo psicologico...

Insomma, non saprei se definire questo spettacolo come irridente o irrispettoso, dissacrante o provocatorio, o semplicemente... una sciocchezza.   
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Beh, chiuso il discorso sulla carnevalata, veniamo alle cose serie, e per fortuna ad aspetti che giustificano (alle mie orecchie, per lo meno, visto che gli occhi sono stati... torturati) la spesa del biglietto. Mariotti si conferma ormai solido interprete di queste impervie partiture rossiniane, guidando la OSN-RAI con il suo proverbiale (quanto abbadiano) gesto della mano sinistra a dettare attacchi e sfumature. Cosa che fa anche con le voci, quasi sempre rispettate (cioè non coperte da fracassi orchestrali) e in particolare con i cori, che qui hanno un ruolo da protagonisti. E il Coro di Giovannni Farina si è da parte sua distinto in tutte le diverse apparizioni e configurazioni, meritandosi un lungo applauso alla riapertura del sipario dopo la fine dell’opera.

La voce che mi ha più impressionato è stata quella di Carlo Cigni (Oroe): grande potenza e profondità, ha piacevolmente invaso gli spazi dell’Arena, caratterizzando al meglio il personaggio del santone talebano che pilota tutta la vicenda, fino al suo tragico epilogo.

La diffusione radiofonica tende ad appiattire tutto, ed anche in questo caso è stato così: voci che dall’etere parevano corpose, dal vivo si rivelano assai meno penetranti. Così è stato per Nahuel Di Pierro, oltretutto esibitosi in alcuni schiamazzi molesti. Nel duetto del primo atto con Arsace, forse temendo di calare, ha invece stonato parecchio per eccesso, con acuti francamente sgradevoli. A lui darò una sufficienza risicata.

Salome Jicia è pure rimasta un filino al di sotto rispetto a quanto udito per radio alla prima: una prestazione onorevole la sua, ma inquinata da alcuni acuti sparati alla sperindio e da un paio di virtuosismi piuttosto approssimativi.

Meglio di lei Varduhi Abrahamyan, la cui voce dal vivo mi è apparsa meno penetrante, ma sempre ben impostata e senza sbavature. Si notano comunque progressi evidenti rispetto al suo esordio di qualche anno fa, quando vestì i panni di Malcom: segno che il mezzosoprano armeno non sta dormendo sugli allori...

Il trionfatore della serata è stato curiosamente... l’intruso (parlando di soggetto letterario): l’Idreno di Antonino Siragusa, che rivaleggia, anche per vetustà di presenza al ROF) con il leggendario JDF. Ha sciorinato le sue due arie con grande sicurezza, ricevendo lunghe ovazioni a scena aperta. La sfilza di DO, RE e DO# acuti (scritti dal signor Rossini o dalla signora... tradizione) gli è uscita alla grande, sia pur non senza evidenti sforzi.

Su discreti standard gli altri interpreti, che metterei in quest’ordine di merito (anche rispetto alla consistenza delle parti): Alessandro Luciano, Sergey Artamonov e Martiniana Antonie.

Per tutti accoglienza assai calorosa, con punte trionfali per Siragusa e Mariotti. Vick... non pervenuto.