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09 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°3

L’appuntamento di questa settimana è per un concerto idillico... A dirigerlo torna sul podio dell’Auditorium un giovane che vi aveva esordito nella scorsa stagione, meno di un anno fa: il Direttore Musicale della Toscanini di Parma, il bel (!) britannico Alpesh Chauhan.

Il pericolo nascosto nel programma del concerto è quello di... conciliare il sonno (!) Scherzo, naturalmente, ma mi riferisco alle dolci e cullanti ninna-nanna che mamme e nonne amorose canticchiano sussurrando ai bebè, e che hanno un effetto infallibile. Qui abbiamo tre brani che in tutto presentano si e no un paio di impennate, rimanendo per il resto su agogiche e dinamiche assolutamente riposanti. Due dei tre sono, di fatto o di nome, delle serenate; quello centrale è una... dichiarazione d’amore.

Wagner, Brahms, e in mezzo Webern: i due capi-fazione della musica del tardo ‘800 e uno dei rivoluzionari del primo ‘900, ma ancora, per così dire, con i calzoni corti, e quindi rispettoso dei sacri padri e caso mai loro solerte seguace.

Ed è proprio un brano che reca Idillio nel titolo quello che apre la serata: il wagneriano Siegfried-Idyll, della cui genesi ho già riferito (per bocca di Teodoro Celli) in questo precedente scritto. É un regalo di compleanno composto per una compagine domestica, quindi tipicamente Covid-compliant (haha!) perchè fatta di 8 fiati e 5 archi in tutto. Qui gli archi sono 23, 3 in eccesso (una viola, un cello e un basso) rispetto ai 20 prescritti da Wagner al momento di far stampare la partitura.

Insomma, qui ascoltiamo questo patchwork (in senso buono) dal terz’atto dell’opera quasi come lo udì, nuovo di zecca, la Cosima col piccolo in braccio, quel Natale svizzero del 1870. E l’Orchestra smagrita non ha deluso le attese, suono leggero, etero e dinamiche che Chauhan ha mantenuto sempre contenute, anche nel passaggio più eroico, quello che evoca il Siegfried erede della potenza del mondo.

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Adesso i fiati restano lì seduti a riposare, mentre i 23 archi ci propongono un inaspettato (perchè... diatonico!) Anton vonWebern, con il suo Langsamer Satz, composto originariamente (1905) per quartetto d’archi e poi arrangiato (1995) per ensemble - così lo si esegue qui - da Gerard Schwarz. Per curiosità, questo era uno dei brani eseguiti al Quirinale il 1° giugno di quest’anno - unico spettatore, il Presidente Mattarella - dagli strumentisti dell’Opera di Roma diretti da Daniele Gatti per accompagnare la fine del famigerato lockdown (e - coi numeri di questi giorni - tocchiamo tutto ciò che c’è da toccare per scongiurarne la recidiva!)  

Tornando a bomba, erano tempi in cui un tale Hanslick era appena stato seppellito, ergo la musica aveva finalmente il permesso di recapitare all’ascoltatore sensazioni, stati d’animo, immagini, gioie-dolori o anche incubi, insomma: musica a programma! Ora, questo pezzo, rimasto nel cassetto per 50 anni e pubblicato abbondantemente dopo la morte di Webern, non reca indicazioni programmatiche semplicemente perchè esse furono affidate ad un tweet (!) dell’Autore (allora poco più che ventenne) che informava del suo stato d’animo salito al settimo cielo (accanto alla mia amata, ...totalmente in armonia con l'universo) durante un trekking nella pace idilliaca di boschi e prati, insieme ad amici e in particolare alla cugina Wilhelmine, sua futura moglie, della quale era perdutamente infatuato.

Sul piano musicale, non si sbaglia sospettando che l’ispirazione per questo movimento di quartetto sia venuta a Webern dalla Verklärte Nacht del suo insegnante Schönberg, che gli aveva assegnato dei compiti-a-casa. Il brano è persino pre-atonale, come certifica anche la presenza di accidenti-in-chiave (3 bemolli, salvo una parentesi senza accidenti). Ecco, siamo ancora in pieno fervore tardo-romantico, pur con venature espressioniste, e la glacialità della dodecafonia dovrà aspettare parecchio... Non saprei dire se si tratti di pura coincidenza, o se Webern lo abbia fatto di proposito, ma l’attacco del brano (DO minore che vira rapidamente a MIb maggiore) mi ricorda Rossini (Mosè) e la frase Pietà de’ figli tuoi, del popol tuo pietà, che parte in SOL minore e sfocia in SIb maggiore. Ebbene, Webern è più diatonico di Rossini: la sua frase percorre inizialmente tutte e sette le note della scala di DOm-MIbM e solo più avanti introduce qualche alterazione cromatica; mentre Rossini ne introduce una (una quarta eccedente) già sulla quinta nota della melodia!

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Ora è il momento di seguire una pregevole esecuzione della versione originale, proposta dall’indimenticabile Quartetto Italiano. La figura riporta i principali temi e motivi del brano:

Lo specchietto qui sotto reca invece i principali traguardi dell’esecuzione proposta, che possono orientare la comprensione della struttura del brano, che si presenta come una forma-sonata assai liberamente interpretata, con un’esposizione di tre temi e una successiva ripresa che si tinge anche di sviluppo, prima della coda conclusiva:

Qui invece è il trascrittore che dirige il suo lavoro per ensemble di archi.

Come si nota, il centro tonale del brano è costituito dalla coppia di relative DOm-MIbM, tonalità che, fin dalla seconda battuta, sembrano fondersi e trascolorare l’una nell’altra; ma poi troviamo frequenti modulazioni o brevissimi incisi anche verso tonalità lontane: una testimonianza dell’omaggio che il giovane Webern tributa alla tradizione tardo-romantica cercando al contempo di spingersi oltre, come dimostra anche la distorsione della forma-sonata, che Webern porta all’estremo con il contemporaneo Quartetto.

Un’esecuzione, quella dei 23 alfieri de laVerdi guidati da Dellingshausen, che mi sentirei di definire davvero eccellente, per la pulizia di suono e - grazie ai tempi staccati da Chauhan, mai troppo letargici - per il giusto grado di pathos che emana da ogni battuta di questa partitura giovanile. 

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Ha chiuso la serenata la Serenata Op.16 di Brahms. È il secondo approccio a questo genere musicale che servì al burbero amburghese (con l’altra Serenata Op.11 e il primo Concerto per piano Op.15) a prendere le misure alla Sinfonia, cui approderà tre lustri dopo e ormai lungo-barbuto (!)

Particolare curioso: alla sezione degli archi mancano proprio i violini (!) che forse Brahms temeva schiarissero troppo il colore del brano, che lui evidentemente voleva morbido, ombroso e discreto. E in effetti, a differenza della prima, questa Serenata ha un tono dimesso, intimistico, che nemmeno lo Scherzo altera troppo, e dove solo il Finale si anima un poco, ma proprio poco.

Rientrati quindi a casa anzitempo i violinisti, le viole, che stavano prima al proscenio, si sono trasferite sulle sedie (opportunamente sanificate, come i leggii, non si sa mai!) dei secondi violini, cosicchè il proscenio è rimasto occupato da sole sedie vuote... Il che non ha per nulla guastato l'impasto sonoro fra i fiati - che fanno la parte del leone in questa partitura - e gli archi guidati dall'ottimo Gabriele Mugnai.  


Successo caloroso - e meritatissimo! - per strumentisti e Maestro.

16 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°3


Il terzo concerto 2016 vede l’eclettico David Greilsammer (da Gerusalemme) in doppia veste (bacchetta e tastiera) di interprete di un concerto (quasi) tutto beethoveniano. Il quasi è spuntato... quasi per caso, sotto forma della Sinfonia op.21 di Anton Webern, che ha rimpiazzato l’originariamente programmata Ouverture Egmont.

Su quest’opera di Webern (10 minuti scarsi di musica) ormai si è scritto più che sul Tristan, anche se sono testi che trattano più di matematica che di ciò che si intende normalmente per musica (tipo questa analisi del cattedratico Paolo Rotili). Certo, sappiamo benissimo che fra musica e numeri ci sono legami strettissimi: ma sarebbe da dimostrare che partendo da serie di numeri costruite a tavolino (con metodi casuali piuttosto che complessamente strutturati) si ricavi musica che abbia senso compiuto.

E al non-cattedratico, che normalmente si dispone a farsi piacere i suoni che gli vengono propinati, poco importa di serie, rivolti, retrogradazioni e procedimenti fiamminghi assortiti: si accontenterebbe di apprezzare ciò che ascolta, trovandoci qualcosa di interessante, o di accattivante, o di stimolante, o – perchè no! – di afrodisiaco. Il tema principale del terzo movimento della prima sinfonia di Brahms, esposto dai clarinetti, non manca di affascinare, anche se la sua seconda metà è ottenuta truffaldinamente dal compositore ricorrendo ad un arido procedimento fiammingo: l’inversione. Ma nessuno se ne accorge e, tanto meno, se ne lamenta. Salvo che il clarinettista non stecchi una nota... Ora domando: se il clarinettista - a battuta 6 della Sinfonia di Webern – suona un MI bemolle al posto del MI bequadro, dico: chi c. se ne accorge?

E ovviamente è un problema dell’ascoltatore, mica certo del compositore, che ci ha messo tutto il corpo e l’anima per scrivere lì quel MI bequadro invece del MI bemolle! Ma se gli ascoltatori son tutti porci, a che pro servirgli le perle? Certo, Schönberg diceva che era solo questione di tempo, e che i suoi nipotini avrebbero canticchiato canzonette seriali: fatto sta che, ancora dopo un secolo, e nonostante tutti i tentativi di indottrinamento forzato, noi e pure i nostri figli e nipoti non siamo in grado di distinguere se quel MI bemolle del clarinetto sia o no fuori posto.

E a proposito di battute verso l’impiego dei procedimenti fiamminghi nella musica seriale, eccone una che mi ha davvero divertito: il canone cancrizzante dello spettatore che – nel bel mezzo della sinfonia di Webern – abbandona la sala alla chetichella, camminando all’indietro come un gambero!    

Ora, a parte le battute, sono in molti (io mi tengo prudentemente neutrale) ad apprezzare la Sinfonia, che ha l’aspetto di un caleidoscopio sonoro, dove fantastici e continuamente cangianti effetti sono ottenuti proponendo diverse visioni e prospettive di uno stesso oggetto (la serie fondamentale, appunto: FA-LAb-SOL-FA#-SIb-LA-MIb-MI-DO-DO#-RE-SI) di volta in volta manipolato, spacchettato, rigirato e (i timbri!) diversamente illuminato. Certo, una Sinfonia degna di tal nome pretenderebbe di possedere una narrativa vera e propria, che qui manca totalmente (Webern rimase incerto per parecchio tempo persino sulla sequenza dei due tempi, oltre ad aver rinunciato ad un terzo!) E a salvare la forma non bastano certo i due da-capo che il compositore ha infilato nel primo movimento. 

Come al solito le reazioni del pubblico sono assai variegate, andando dall’entusiasmo dei pochi... entusiasti agli scuotimenti di capo dei più. Quanto all’esecuzione, faccio l’atto di fede (conoscendo la bravura dei ragazzi) che tutte le note siano state eseguite precisamente come il buon Webern le mise sul pentagramma!
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Come accadeva con i classici palinsesti dei concerti scaligeri abbadiani anni-’70, fatto il fioretto di ascoltare la musica contemporanea (?!) si passa a cose serie, per le quali esclusivamente lo spettatore medio (diciamola pure tutta!) ha deciso di entrare in Auditorium.

Ecco quindi la piccola di Beethoven: della lettura di Greilsammer mi ha convinto l’agogica, in particolare il tempo con cui ha staccato l’iniziale Allegro vivace e con brio: certo, il metronomo che Beethoven appiccicò a posteriori (quando compose la sinfonia, Mälzel ancora lo doveva brevettare) pare del tutto folle (l’equivalente di 207 semiminime!) e nessuno ci prova mai ad applicarlo, però il simpatico David almeno ha provato ad avvicinarlo. Invece sulle dinamiche avrei qualche riserva: tutto suonato piuttosto sul forte, con scarsa varietà di sfumature. Ma si è trattato comunque di un’esecuzione vibrante ed effervescente, come è appropriato per questa composizione spesso un poco sottovalutata.
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Chiude la serata il più problematico dei concerti per pianoforte: il terzo, in DO minore. Greilsammer, come fa spesso e volentieri, non si vergogna a tenere lo spartito sul leggio (e si porta dietro anche la gira-pagine...) ma ci propina un’interpretazione di gran qualità: tocco sempre leggero e vellutato, nessuna enfasi fuori luogo. Il tutto con una tecnica sopraffina. Memorabile la cadenza dell’Allegro con brio, e da incorniciare tutto il centrale Largo.

Per ripagare il (foltissimo) pubblico di applausi e ovazioni il nostro decide (giustamente, dato il doppio ruolo sostenuto nell’occasione) di offrire un bis insieme all’orchestra. Così ci godiamo il celeberrimo Andante dal K467. Meno male che ci ha risparmiato un pezzo di Cage, altrimenti... povero pianoforte!