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18 dicembre, 2017

Faust (con chiassata) a Roma


La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I. Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria contestatrice.

Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe, ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che lei ha fatto, a dir il vero.

Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva, parlando sostanzialmente di eccesso nel voler strafare da parte di Michieletto.

Il peccato originale della sua impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto di Berlioz(Goethe) che si allontana manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di attaccamento morboso alla cultura e non un passato di disgrazie familiari (il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista di sana pianta!

Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da quanto si legge nel Capitolo 40, titolato Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André (suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo (di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine (!)

Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto; l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta, per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali. Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti godimenti. Solo dopo arriva lo spleen, che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica; l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza verso l’intero universo (Quadri I e II...)

Ora, dal passo citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso) arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla Marcia ungherese che Berlioz impiega per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese!)

Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori (per le accuse di lesa-maestà) della vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!

Michieletto? Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto originale, pure interpretato in modo... originale!

Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.     

Non mancano anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi a scambiarsi un estatico bacio.

Ma a proposito di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista: il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès, puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay. E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom) infilati un po’ a caso.

Strampalate (anche se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo essere l’indossatore della pelle di topone (no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro efficacemente presentata, tipo-sanremo).

E poi il mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari – quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz, l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui (ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)

Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.

Quanto alle voci, rispetto all’ascolto radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a sufficiente+ la Veronica Simeoni (con il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran Jurić) e a sufficiente- Pavel Černoch.

Per tutti, comunque (team registico escluso, poichè non-pervenuto sul palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.

16 maggio, 2016

Donizetti ai confini della realtà (3)


Ieri pomeriggio alla Fenice (sala con parecchi vuoti) terza delle cinque recite de La Favorite. In sintesi: come fare di un Grand’Opéra una petite chose. Ci si è messa d’impegno principalmente la regista Rosetta Cucchi (che si serve delle scene di Massimo Checchetto, dei costumi assai curati di Claudia Pernigotti e delle luci sempre efficaci di Fabio Barettin) che ha usato testo e colonna sonora dell’opera di Donizetti per supportare un suo incredibile soggetto che, se proposto nel 1840 all’Opéra di Parigi, le avrebbe direttamente procurato un ricovero al manicomio. Ma essendo passati 175 anni (il progresso, gran cosa!) ecco che la sua straordinaria idea viene accolta come una manna dal cielo (!?)

In che consiste la pensata della Rosetta? Quando ho visto l’austero Convento di SanGiacomoDiCompostella trasformato nel caveau di una setta di monaci-stranamore del quarto millennio che ci conservano in enormi provette esemplari di flora (e fauna?) in via di estinzione e poi le donne che vengono trattate dai maschi come esseri subumani, non ho potuto far a meno di pensare a Giorgio Bracardi, il demenziale professor Spadone, farmacista di alto gradimento!

Insomma, un clichè (sette religiose dedite a riti esoterici e femmine bistrattate) che è buono per tutte le stagioni e per almeno un centinaio di melodrammi. Qui vediamo già nel prologo una specie di santo-gral-dei-poareti con il quale il fragile Fernand abbevera una schiera di novizie, ultima delle quali è la pia Léonor, che subito gli cade tra le braccia: così noi distratti non dobbiamo faticare qualche minuto dopo a comprendere la confessione del giovane al santone Balthazar.

L’Île-de-León ci dà subito l’idea della sottomissione delle donne: fanciulle completamente velate (oh, lì prima di Alphonse XI c’erano i musulmani, che lui aveva cacciato, ed evidentemente avevan fatto scuola!) in un ambiente che pare un harem collocato in una spa. E nel second’atto (all’Alcazar di Siviglia, non so se mi spiego) ecco ricomparire... le provette, anzi, che dico, un unico gigantesco provettone (6m di diametro per 10 di altezza, poichè anche il potere temporale non vuol esser da meno di quello spirituale) nel quale vengono ammassate le cortigiane del Re, che si presenta con tanto di manica e guanto da falconiere, perchè a nessuno sfugga la natura del suo ruolo! E nel quale si rappresenta anche il sontuoso balletto in onore della favorita: 2-danzatrici-2, qui mica siamo l’Opéra, dobbiam far le nozze con... le fiche secche (oh, sia detto con tutto il rispetto per la professionalità di Luisa Baldinetti e Sau-Ching Wong!) che a fine ballo esalano l’ultimo respiro e son trascinate come bestiole morte fino al proscenio dove rimangono fino a fine atto (così i poveri bocia del locale JockeyClub restano pure a bocca asciutta).

Ecco, poi il resto avviene in questi ambienti e su questa falsariga: una concettualizzazione piuttosto velleitaria, degna del più abusato Regietheater.
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Meglio sono andate le cose sul fronte dei suoni, dove Donato Renzetti ha solo un po’ esagerato con i decibel (ma ad onor del vero senza mai coprire le voci): per il resto ha diretto e concertato con la consueta sobrietà di gesto, ottenendo dall’agguerrita orchestra della Fenice (e dai singoli, come nel bellissimo attacco dell’atto quarto, con il dialogo fra l’organo e il violoncello) una bella resa delle atmosfere romantiche che caratterizzano questa partitura. Comunque a qualcuno non è piaciuto del tutto, a giudicare da qualche (timido) dissenso all’uscita finale. E bene si è portato il coro di Claudio Marino Moretti, che ha una parte di rilievo (monaci, cortigiani e cortigiane) in tutti i quattro atti.

Veronica Simeoni ha confermato le sue ottime doti di interprete, sul piano attoriale, e ha offerto una prestazione più che discreta su quello vocale, che ha una tessitura abbastanza impegnativa per un mezzo, andando dal LA sotto il rigo al SIb acuto.

John Osborn ha offerto il meglio di sè sui passaggi impervi (il DO# e i DO che abbondano) mentre non altrettanto convincente è stato su quelli più intimistici, resi con eccessivi ingolamenti della voce: ha ricevuto applausi a scena aperta dopo tutti i suoi numeri (singoli o in duo) e dopo la famosa Ange si pur (Spirto gentil) le ovazioni si sono protratte per un paio di minuti. Ma all’uscita singola due secchi buh dal loggione hanno probabilmente voluto sottolineare l’incompiutezza della sua prestazione.

Più che buono, a mio parere, il Balthazar di Simon Lim, voce robusta che ben si adatta al ruolo, e intonazione sempre corretta. Come già all’ascolto radiofonico, VIto Priante mi è parso poco penetrante e il suo Alphonse sa più di... Rossini che di Donizetti, anche se è giusto riconoscergli un’ottima presenza scenica e capacità di esibire sia il lato autoritario che quello magnanimo del carattere del Re.

Molto bene Ivan Ayon Rivas, che per radio non mi aveva impressionato più di tanto: invece dal vivo la sua voce squilla che è un piacere, anche nei concertati più fracassoni.

Pauline Rouillard ha una vocina che sarà anche adatta ad un ruolo di ancella servizievole, ma qui si esagera un po’ troppo con i piagnucolii, ecco. Salvatore De Benedetto ha svolto onestamente la sua particina.
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Comunque dirò che, nonostante tutto, valeva la pena di una gitarella in laguna, anche perchè, come ha osservato il venetiofobo Amfortas che ha visto la prima, i gabbiani sono tornati in letargo.

(3. fine)

07 maggio, 2016

Léonor di passaggio in laguna (2)

 

Telegrafiche note sulla prima de La Favorite, seguita ier sera su RAI5.

Renzetti ha rispettato quasi completamente la partitura, limitandosi a un paio di sforbiciatine: ha eseguito anche (quasi) tutto il balletto del second’atto. La sua direzione mi è parsa corretta nei tempi e nel sostegno alle voci: insomma, lui è un vecchio marpione che sa come portare a casa la serata.

Fra le voci, bene (non dico benissimo, per via dell’ascolto via etere - o cavo – che può sempre trarre in inganno) Osborn e benino la Simeoni. Priante ha fatto correttamente tutte le note, ma mi è parso mancare di spessore (la parte di Alfonso è quasi da baritono verdiano...) Darei una sufficienza ampia a Lim e più risicata a Rivas e alla pigolante Rouillard. All’altezza il coro di Moretti.

Sull’allestimento della Cucchi mi limito a constatare come si adatti altrettanto bene male a Parsifal (infatti qualcuno ci ha già pensato) e pure alla Forza del destino e financo ad Aida. Ergo: come ogni letto di Procuste che si rispetti, l’unica certezza che garantisce è di fare danni al corpo del malcapitato che ci viene steso sopra.

Prossimamente le sensazioni dal vivo.

(2. continua)

02 dicembre, 2013

Alla Fenice un’africana un filino… impoverita


Ieri la Fenice ha ospitato l’ultima delle sei rappresentazioni de L’Africaine di Giacomo Meyerbeer. Segnalo che MediciTV ha mandato in onda in diretta la recita del 29 (primo cast) e che – per qualche tempo ancora, quanto non è dato capire – la mette meritoriamente a disposizione sul suo sito-web.

Altre lodi si merita l’ufficio gestione-immagine-e-promozione-culturale del Teatro: il giorno successivo alla prima il pregevolissimo programma di sala era disponibile in web, ad arricchire il già sterminato archivio online: roba da meritare alla Fondazione un supplemento agli scarsi fondi FUS!

Venendo invece allo spettacolo, arrivano note un poco meno liete: purtroppo – a mio modestissimo avviso – si è trattato di una proposta discutibile, quanto meno poco coraggiosa, nel senso che non si è presentata nemmeno la versione Fétis, che pure sappiamo fu ottenuta attraverso dolorose ferite al corpo dell’opera come lasciato da Meyerbeer, bensì una sua riduzione di cui fatico (io, perlomeno) a cogliere i razionali.

Salvo la solita preoccupazione relativa al timing: dove l’imperativo categorico sembra quello di non superare le tre ore nette di musica, costi quel che costi. Tanto per dare un’idea ed un riferimento ormai consolidato, è lo stesso obiettivo che si era posto l’ormai antica edizione Verrett-Domingo (San Francisco, 1971 e poi 1988). Non a caso parecchi tagli sono presi direttamente da lì, con alcune importanti differenze, che può essere interessante analizzare, se non altro per curiosità.

Nel primo atto qui alla Fenice si rispetta quasi completamente Fétis, di cui si taglia solo l’inizio (e non la quasi totalità, come a San Francisco) del Terzettino (Don Diégo, Inès, Don Pédro) e un paio di passaggi del finale, meno tagliato quindi della versione americana.

Nel secondo atto viene soppressa la strofa centrale (Je vois, dans la grande île) e la seconda entrata di Fille des Rois (Atto II, aria di Nélusko) il che è un autentico scempio musicale, e poco conta che fosse perpetrato anche nella citata edizione californiana. Dalla quale si mutuano anche i due tagli al settimino finale (alla scoperta da parte di Inès del non-tradimento di Vasco e a quella di Vasco delle nozze di Inès con Don Pédro); tagli che gioveranno senza dubbio ai cantanti, meno al pubblico (almeno a quella parte che ne conosce il contenuto…)

Nel terzo atto – quello già massacrato da Fétis! - vengono cassati, come a San Francisco, il coro femminile d’entrata, il quartetto dei marinai, poi l’intervento di Don Pédro e marinai fra i due couplets di Adamastor e infine la parte conclusiva del coro degli Indiani: tutta musica che si fa rispettare, ma anche classici squarci da grand-opéra. Si mantiene invece (quasi) intatto il duo Vasco-Don Pédro, assai più decurtato a San Francisco.

Ma è all’inizio del quarto atto che viene perpetrata l’offesa più grave al concetto stesso di grand-opéra: la solenne e pomposa entrata di sacerdotesse, bramini, amazzoni, giocolieri, guerrieri e, infine, della Regina, viene totalmente rimossa dalla scena (a San Francisco ciò non accadeva). Quanto all’orchestra, a sipario chiuso, nemmeno suona il brevissimo Entr’acte e poi si limita a ripetere (abbastanza noiosamente, direi) le sole prime sezioni in RE minore della Marche indienne, privandoci del trio in RE maggiore all’entrata delle sacerdotesse (con il bel tema affidato alle trombe); poi subito dopo di quello in LA maggiore; poi ancora del primo (adesso in SIb) all’entrata dei bramini; e di tutto il resto della musica che dovrebbe accompagnare una scena sfarzosa ed enfatica. Buonanottealsecchio!

Sempre nel quarto si penalizza fortemente – come  a san Francisco – la scena dove Nélusko ha la sua crisi al momento di dover giurare il falso riguardo le nozze Sélika-Vasco; si taglia un po’ meno che in California la prima benedizione del gran sacerdote agli sposi; poi si fanno quasi gli stessi tagli al finale, salvo opportunamente eseguire (parte clamorosamente amputata a San Francisco) il celestiale Remparts de gaze, vero contraltare della marcia nuziale del Lohengrin.

Il quinto atto qui è letteralmente devastato! Non solo viene ignorata la scena iniziale con Inès e Vasco (che a San Francisco avevano meritoriamente ripescato dal cestino di Fétis) ma si butta in discarica, oltre all’Entr’acte, tutto il successivo e drammatico duetto Sélika-Inès. In sostanza viene unito, senza soluzione di continuità, il finale dell’Atto IV alle le prime battute (di Fétis) dell’Atto V, dove Sélika impreca al tradimento di Vasco e ordina a Nélusko di spedire a casa i portoghesi; poi si fa un lungo cambio scena (invece di due, ad onor del vero) e si passa direttamente al finale, con Sélika sul promontorio, nei pressi dell’albero della mancinella. 

Insomma, sono tutte mutilazioni piuttosto deleterie sia per la drammaturgia, sia perché ci privano di fior di musica e di canto. Nel complesso una scelta di fondo piuttosto infelice, sulle cause della quale a noi poveri mortali non resta che farci le solite domande oziose: timore di russate generali in platea e nei palchi? di fughe di massa fra un atto e l’altro? O il problema erano per caso i cantanti, incapaci di arrivare in fondo ad un’esecuzione di dimensioni non dico meyerbeeriane, ma almeno normali (chez-Fétis, per intenderci)? Già il libretto è farraginoso la sua parte; già Fétis ha confuso le idee ripristinando un titolo fuorviante e ha tagliato la partitura col machete; se poi anche il direttore e i cantanti decidono di suonare/cantare soltanto ciò che pare e piace a loro (chissà, forse per evitare… figuracce?) ecco raggiunto il poco esaltante risultato!

Altre domande (sempre di quelle da sesso degli angeli): ma allora, non sarebbe stato preferibile rinunciare del tutto a mettere in cartellone un’opera come questa, e spendere meglio gli scarsi quattrini disponibili? O comunque anche un suo torso, privo di arti, è reputato utile a promuoverne conoscenza e apprezzamento presso il vasto pubblico? Oppure l’obiettivo è di far bella figura proponendo un titolo difficile quanto desueto pur non disponendo di un cast adeguato e allo stesso tempo senza impegnare troppo un pubblico considerato ignorante e irrecuperabile, propinandogli qualche mezz’ora di musica più o meno accattivante, e chi se ne frega di tutto il resto?
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Fatte queste premesse – che gettano una luce non proprio limpida sui protagonisti, facendo insorgere nei loro confronti sospetti di inadeguatezza ai ruoli, che si sarebbe cercato di mascherare cambiando… le carte in tavola – vediamo come se la sono cavata i quattro principali.

La Sélika di Veronica Simeoni merita ai miei occhi un’ampia sufficienza; alle mie orecchie la sufficienza si striminzisce un filino e mi domando come sarebbe… morta (smile!) se prima di aspirare il veleno della mancinella avesse dovuto sostenere il drammatico confronto con Inès (dove, incidentalmente, dovrebbe anche spiegare al perplesso pubblico perché deciderà di fare quella brutta – o bella – fine).

Vasco de Gama era Gregory Kunde, gran professionista, che ha come al solito fornito una prestazione di tutto rispetto, anche se non la definirei superlativa. Comunque nella famosa grand air ha dato il meglio, accolto da un’autentica ovazione, mentre nel duetto con Sélika (che per sua fortuna è l’ultima parte che canta, poi rientra in camerino un atto – qui mezzo atto - prima degli altri…) ha ben mascherato qualche appannamento. Il trionfo finale è anche alla carriera, oltre i meriti della serata.   

Jessica Pratt ha impersonato Inès senza infamia e senza lode; si è pure risparmiata - seguendo abbastanza disciplinatamente (e direi giudiziosamente) lo spartito - quello svolazzo tanto sovracuto quanto gratuito che alla prima aveva esibito (dicono) in chiusura della romanza di esordio.

Anche sul Nélusko di Angelo Veccia pesano i… tagli che gli sono stati concessi (o che si è fatto concedere per cavarsela?) Bella voce, calda e passante, per una prova discreta (ma è come correre i 110-ostacoli con sole 7 barriere su 10…)

Degli altri direi abbastanza bene del Don Pédro di Luca dall’Amico e dei due… porporati: il cattolico Mattia Denti e il braminico Ruben Amoretti, tutti bassi, come si vede.

Il resto della compagnia (Don Alvar di Emanuele Giannino, Don Diégo di Davide Ruberti e la Anna diAnna Bordignon) ha onestamente fatto il suo dovere.

Bene invece il coro di Claudio Marino Moretti e l’orchestra, che il concertatore Emmanuel Villaume ha guidato in modo pulito, diciamo con una sana routine.
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L’allestimento (di stampo abbastanza tradizionale) di Leo Muscato, con scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo ha avuto il merito di non complicare una trama che già Scribe ha reso farraginosa la sua parte (anche perché a complicarla ci hanno pensato i responsabili della parte musicale…) Peraltro ciò che si è visto credo abbia poco a che fare con il grand-opéra, o al massimo ne è un modellino tipo rivarossi, inclusi i filmetti pretenziosi e puerilmente didascalici che introducevano i vari atti.

Morale: ci dobbiamo accontentare?