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02 dicembre, 2013

Alla Fenice un’africana un filino… impoverita


Ieri la Fenice ha ospitato l’ultima delle sei rappresentazioni de L’Africaine di Giacomo Meyerbeer. Segnalo che MediciTV ha mandato in onda in diretta la recita del 29 (primo cast) e che – per qualche tempo ancora, quanto non è dato capire – la mette meritoriamente a disposizione sul suo sito-web.

Altre lodi si merita l’ufficio gestione-immagine-e-promozione-culturale del Teatro: il giorno successivo alla prima il pregevolissimo programma di sala era disponibile in web, ad arricchire il già sterminato archivio online: roba da meritare alla Fondazione un supplemento agli scarsi fondi FUS!

Venendo invece allo spettacolo, arrivano note un poco meno liete: purtroppo – a mio modestissimo avviso – si è trattato di una proposta discutibile, quanto meno poco coraggiosa, nel senso che non si è presentata nemmeno la versione Fétis, che pure sappiamo fu ottenuta attraverso dolorose ferite al corpo dell’opera come lasciato da Meyerbeer, bensì una sua riduzione di cui fatico (io, perlomeno) a cogliere i razionali.

Salvo la solita preoccupazione relativa al timing: dove l’imperativo categorico sembra quello di non superare le tre ore nette di musica, costi quel che costi. Tanto per dare un’idea ed un riferimento ormai consolidato, è lo stesso obiettivo che si era posto l’ormai antica edizione Verrett-Domingo (San Francisco, 1971 e poi 1988). Non a caso parecchi tagli sono presi direttamente da lì, con alcune importanti differenze, che può essere interessante analizzare, se non altro per curiosità.

Nel primo atto qui alla Fenice si rispetta quasi completamente Fétis, di cui si taglia solo l’inizio (e non la quasi totalità, come a San Francisco) del Terzettino (Don Diégo, Inès, Don Pédro) e un paio di passaggi del finale, meno tagliato quindi della versione americana.

Nel secondo atto viene soppressa la strofa centrale (Je vois, dans la grande île) e la seconda entrata di Fille des Rois (Atto II, aria di Nélusko) il che è un autentico scempio musicale, e poco conta che fosse perpetrato anche nella citata edizione californiana. Dalla quale si mutuano anche i due tagli al settimino finale (alla scoperta da parte di Inès del non-tradimento di Vasco e a quella di Vasco delle nozze di Inès con Don Pédro); tagli che gioveranno senza dubbio ai cantanti, meno al pubblico (almeno a quella parte che ne conosce il contenuto…)

Nel terzo atto – quello già massacrato da Fétis! - vengono cassati, come a San Francisco, il coro femminile d’entrata, il quartetto dei marinai, poi l’intervento di Don Pédro e marinai fra i due couplets di Adamastor e infine la parte conclusiva del coro degli Indiani: tutta musica che si fa rispettare, ma anche classici squarci da grand-opéra. Si mantiene invece (quasi) intatto il duo Vasco-Don Pédro, assai più decurtato a San Francisco.

Ma è all’inizio del quarto atto che viene perpetrata l’offesa più grave al concetto stesso di grand-opéra: la solenne e pomposa entrata di sacerdotesse, bramini, amazzoni, giocolieri, guerrieri e, infine, della Regina, viene totalmente rimossa dalla scena (a San Francisco ciò non accadeva). Quanto all’orchestra, a sipario chiuso, nemmeno suona il brevissimo Entr’acte e poi si limita a ripetere (abbastanza noiosamente, direi) le sole prime sezioni in RE minore della Marche indienne, privandoci del trio in RE maggiore all’entrata delle sacerdotesse (con il bel tema affidato alle trombe); poi subito dopo di quello in LA maggiore; poi ancora del primo (adesso in SIb) all’entrata dei bramini; e di tutto il resto della musica che dovrebbe accompagnare una scena sfarzosa ed enfatica. Buonanottealsecchio!

Sempre nel quarto si penalizza fortemente – come  a san Francisco – la scena dove Nélusko ha la sua crisi al momento di dover giurare il falso riguardo le nozze Sélika-Vasco; si taglia un po’ meno che in California la prima benedizione del gran sacerdote agli sposi; poi si fanno quasi gli stessi tagli al finale, salvo opportunamente eseguire (parte clamorosamente amputata a San Francisco) il celestiale Remparts de gaze, vero contraltare della marcia nuziale del Lohengrin.

Il quinto atto qui è letteralmente devastato! Non solo viene ignorata la scena iniziale con Inès e Vasco (che a San Francisco avevano meritoriamente ripescato dal cestino di Fétis) ma si butta in discarica, oltre all’Entr’acte, tutto il successivo e drammatico duetto Sélika-Inès. In sostanza viene unito, senza soluzione di continuità, il finale dell’Atto IV alle le prime battute (di Fétis) dell’Atto V, dove Sélika impreca al tradimento di Vasco e ordina a Nélusko di spedire a casa i portoghesi; poi si fa un lungo cambio scena (invece di due, ad onor del vero) e si passa direttamente al finale, con Sélika sul promontorio, nei pressi dell’albero della mancinella. 

Insomma, sono tutte mutilazioni piuttosto deleterie sia per la drammaturgia, sia perché ci privano di fior di musica e di canto. Nel complesso una scelta di fondo piuttosto infelice, sulle cause della quale a noi poveri mortali non resta che farci le solite domande oziose: timore di russate generali in platea e nei palchi? di fughe di massa fra un atto e l’altro? O il problema erano per caso i cantanti, incapaci di arrivare in fondo ad un’esecuzione di dimensioni non dico meyerbeeriane, ma almeno normali (chez-Fétis, per intenderci)? Già il libretto è farraginoso la sua parte; già Fétis ha confuso le idee ripristinando un titolo fuorviante e ha tagliato la partitura col machete; se poi anche il direttore e i cantanti decidono di suonare/cantare soltanto ciò che pare e piace a loro (chissà, forse per evitare… figuracce?) ecco raggiunto il poco esaltante risultato!

Altre domande (sempre di quelle da sesso degli angeli): ma allora, non sarebbe stato preferibile rinunciare del tutto a mettere in cartellone un’opera come questa, e spendere meglio gli scarsi quattrini disponibili? O comunque anche un suo torso, privo di arti, è reputato utile a promuoverne conoscenza e apprezzamento presso il vasto pubblico? Oppure l’obiettivo è di far bella figura proponendo un titolo difficile quanto desueto pur non disponendo di un cast adeguato e allo stesso tempo senza impegnare troppo un pubblico considerato ignorante e irrecuperabile, propinandogli qualche mezz’ora di musica più o meno accattivante, e chi se ne frega di tutto il resto?
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Fatte queste premesse – che gettano una luce non proprio limpida sui protagonisti, facendo insorgere nei loro confronti sospetti di inadeguatezza ai ruoli, che si sarebbe cercato di mascherare cambiando… le carte in tavola – vediamo come se la sono cavata i quattro principali.

La Sélika di Veronica Simeoni merita ai miei occhi un’ampia sufficienza; alle mie orecchie la sufficienza si striminzisce un filino e mi domando come sarebbe… morta (smile!) se prima di aspirare il veleno della mancinella avesse dovuto sostenere il drammatico confronto con Inès (dove, incidentalmente, dovrebbe anche spiegare al perplesso pubblico perché deciderà di fare quella brutta – o bella – fine).

Vasco de Gama era Gregory Kunde, gran professionista, che ha come al solito fornito una prestazione di tutto rispetto, anche se non la definirei superlativa. Comunque nella famosa grand air ha dato il meglio, accolto da un’autentica ovazione, mentre nel duetto con Sélika (che per sua fortuna è l’ultima parte che canta, poi rientra in camerino un atto – qui mezzo atto - prima degli altri…) ha ben mascherato qualche appannamento. Il trionfo finale è anche alla carriera, oltre i meriti della serata.   

Jessica Pratt ha impersonato Inès senza infamia e senza lode; si è pure risparmiata - seguendo abbastanza disciplinatamente (e direi giudiziosamente) lo spartito - quello svolazzo tanto sovracuto quanto gratuito che alla prima aveva esibito (dicono) in chiusura della romanza di esordio.

Anche sul Nélusko di Angelo Veccia pesano i… tagli che gli sono stati concessi (o che si è fatto concedere per cavarsela?) Bella voce, calda e passante, per una prova discreta (ma è come correre i 110-ostacoli con sole 7 barriere su 10…)

Degli altri direi abbastanza bene del Don Pédro di Luca dall’Amico e dei due… porporati: il cattolico Mattia Denti e il braminico Ruben Amoretti, tutti bassi, come si vede.

Il resto della compagnia (Don Alvar di Emanuele Giannino, Don Diégo di Davide Ruberti e la Anna diAnna Bordignon) ha onestamente fatto il suo dovere.

Bene invece il coro di Claudio Marino Moretti e l’orchestra, che il concertatore Emmanuel Villaume ha guidato in modo pulito, diciamo con una sana routine.
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L’allestimento (di stampo abbastanza tradizionale) di Leo Muscato, con scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo ha avuto il merito di non complicare una trama che già Scribe ha reso farraginosa la sua parte (anche perché a complicarla ci hanno pensato i responsabili della parte musicale…) Peraltro ciò che si è visto credo abbia poco a che fare con il grand-opéra, o al massimo ne è un modellino tipo rivarossi, inclusi i filmetti pretenziosi e puerilmente didascalici che introducevano i vari atti.

Morale: ci dobbiamo accontentare?

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