Un Direttore
di casa a laVerdi, Oleg Caetani, torna a dirigere in
Auditorium un concerto assai impegnativo, con Schubert e Shostakovich. A proposito
di quest’ultimo, prima del concerto si è tenuta una conferenza di presentazione
del recente lavoro del venerabile Piero
Rattalino, cui è intervenuto l’autore in persona, accompagnato dallo stesso
Caetani (che per discendenza da Igor Markevitch
è un profondo conoscitore della musica, ma anche della realtà russa) e dai professori
Malcovati e Beacco; ha introdotto, e con gran cognizione di causa, il Presidente
della Fondazione, Gianni Cervetti, che
la passata militanza politica aveva condotto più volte in quel di Mosca, dove (a fine anni ’50) aveva
anche avuto modo di incontrare un paio di volte lo stesso Shostakovich. Tutti (più
o meno) concordi nel convenire con la tesi che sorregge il libro di Rattalino, secondo
cui la figura del controverso compositore vada oggi vista in un’ottica depurata
da ogni opposto pregiudizio di parte (né eroico anti-stalinista, né ipocrita doppiogiochista).
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Di Schubert ascoltiamo la Sinfonia
in DO maggiore, catalogata come sesta,
ma amichevolmente chiamata piccola, per distinguerla da quel
mostro, sempre in DO, che va sotto il nome di grande.
Schubert, sommo
liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie
alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, almeno
le prime 6, lavoretti scolastici di uno che
era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello
che, da Haydn in poi, e massimamente con
Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro. E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede
la presenza di (come minimo) due temi, il maschio
(eroico) e la femmina (contemplativa,
elegiaca) che devono prima presentarsi, poi provare a convivere, confrontarsi,
magari pure affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere la pace in cui il
secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra,
tradizionalmente, in quella del marito).
Ebbene, al giovane
Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei temi (e ci
mancherebbe!) ma di trovare temi con le caratteristiche richieste dalle regole
del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente
elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il
compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere
all’interno della forma canonica.
Questo limite
si manifesta puntualmente anche nella sesta
sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un pretenzioso Adagio (proprio à la Haydn) ad introdurre l’immancabile Allegro. Che però soffre della mancanza di stacco, di
conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo
differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare
che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia.
Nei movimenti
centrali (Andante e Scherzo) la vena melodica di Schubert va
a nozze e cava fuori due cammei di tutto rispetto. Il Finale è ancora una volta assai ricco (pur se monotono la sua parte): un chiaro preludio a quello della futura grande.
Meritoria in ogni
caso l’esecuzione dei ragazzi, giustamente in formazione un po’ ridotta negli archi,
nel rispetto della tradizione e dell’originaria destinazione (piccole sale private)
dell’opera.
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La seconda
parte del concerto è occupata come detto da Shostakovich
e dalla sua Ottava Sinfonia, composta, come la settima, in piena guerra
(1943) e dedicata a Evgeny Mravinsky. L’organico orchestrale è proprio tardo romantico,
ipertrofico in particolare negli archi (64, la tipica struttura straussiana,
anche se nella 7, poi nella 13 ne sono prescritti fino a 80-84!) Qui ne abbiamo
meno di 50 (la dotazione è questa…) ma direi che bastano ed avanzano a produrre
il richiesto volume di suono. Caetani li schiera con le viole al proscenio, probabilmente
in forza del risalto di cui la sezione gode nella partitura di Shostakovich.
Del quale di
solito si suol descrivere la musica (e le sinfonie, in particolare) come fosse
tutta una serie di episodi della vita di
un artista (parafrasando Berlioz…):
in questo caso non un artista (come l’ipersensibile francese) alle prese con
problemi sentimental-psicologici e conseguenti
visioni mistico-infernali, ma (anche secondo la visione che ce ne dà Rattalino) un artista-patriota che se la doveva
vedere tutti i santi giorni con fastidiosi pipistrelli, quali Stalin e Ždanov.
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Fra la settima (sinfonia trionfalistica,
retorica - e non del tutto sincera, ad onor del vero - composta mentre si era
in piena guerra e con i nazisti ormai alle porte di Leningrado) e l’ottava (sinfonia invece di ambientazione
abbastanza cupa, composta però mentre la guerra si avviava pur lentamente alla
vittoriosa conclusione, dopo l’impresa di Stalingrado - che infatti aveva dato
il nome all’opera) c’è in effetti una distanza abissale, come se il compositore
volesse qui meditare sulle disgrazie dell’umanità, di tutta, vincitori e vinti.
È curioso come il primo tema dell’Adagio,
che si alza nei violini, sia una reminiscenza – in chiave mesta e su ritmo da
marcia funebre – di quello spigliato e baldanzoso che evocava l’incedere
dell’armata nazista, nel primo movimento della settima:
Ecco, è
come se qui si si cantasse una specie di requiem
per le vittime di tutte le guerre. Ma chissà che non ci sia anche un po’ di
pessimismo sul futuro, e magari una larvata denuncia del regime sovietico che
si avviava (a guerra vinta) a diventare ancora più totalitario ed oppressivo di
quanto già non fosse.
Il
secondo scenario tematico, Poco più mosso
(difficile qui parlare di strutture classiche, anche se qualche connessione con
la forma-sonata è vagamente riconoscibile) è in tempo prevalente di 5/4, un
ritmo quindi sghembo, ma non certo come lo era l’Allegro con grazia della patetica:
qui pare di assistere ad un incedere strascicato e scomposto di armate in
rotta, o al procedere di un’esistenza che ha perso la sua normalità.
La
ripresa dell’Adagio, che è una sorta di sviluppo,
porta gradatamente, con interventi del tamburo militare, ad un climax (in cui par fare capolino persino…
Fratelli d’Italia!) che introduce una
sezione in Allegro non troppo, nella
quale si stagliano per due volte sette battute in cui i corni emettono, su
ripetute terzine e in zona acuta, lamenti disperati e strazianti. Il tutto
sfocia in un Allegro marziale, spiritato,
quasi isterico, che porta un nuovo climax
caratterizzato (col ritorno in Adagio,
per una specie di ricapitolazione) da
cinque scrosci a piena orchestra dove nell’intervallo fra i due ultimi compare negli
ottoni una citazione dal ciajkovskiano Manfred
(che risentiremo anche nel finale):
Qui
segue una lunga melopea del corno inglese,
sul tremolo dei soli archi e con un breve e momentaneo supporto di oboi e clarinetti:
sono 50 battute di vero e proprio lamento, come un accompagnare morti al
cimitero, seguite dal mesto incedere degli archi, che riaprono la sezione in
5/4, questa volta interrotta da uno spettrale squillo di trombetta (con
sordina) che conduce – riprendendo il motivo dell’introduzione - alla cadenza
conclusiva del primo movimento. La quale si adagia, abbastanza
sorprendentemente, dopo tanta tristezza e tanti lutti, su un sereno e forse
ottimista DO maggiore, illuminato dal
SOL della tromba, non più imbavagliata dalla sordina.
A
questo punto Shostakovich infila non uno, ma due consecutivi Scherzi, assai diversi fra loro quanto a
spirito e ambientazione. Il primo (Allegretto,
REb, 4/4) sembra una parodia della felicità, o la danza di un ubriaco che cerca
di rimuovere scomodi ricordi, o il tentativo di mascherare, dietro una facciata
di allegrezza, problemi e disgrazie. È caratterizzato da insistenti ripetizioni
di un inciso anapestico (doppia croma + semiminima) su cui si inseriscono gli
svolazzi degli strumentini. Il ritmo pare rallentare e, passando a LA minore,
abbiamo un siparietto dominato da impertinenti guizzi dei due ottavini, supportati
da fagotti e controfagotto e poi dal clarinetto piccolo (in MIb). Si ripetono,
ma assai variate, le due sezioni in REb e LA, nella seconda delle quali
subentra un’atmosfera marziale, con interventi di tamburino e percussioni,
prima della cadenza conclusiva, ancora in REb, dove tornano a spiccare i due
ottavini. L’anapesto conclusivo è affidato ai timpani, che preparano l’accordo
finale di REb in fff dell’intera
orchestra.
Il
secondo Scherzo (Allegro
non troppo, 2/2, MI minore) è uno dei tipici moti-perpetui di Shostakovich, dove si evocano atmosfere da
industria pesante (magli che incessantemente pestano lingotti d’acciaio
rovente) o da locomotive sbuffanti lanciate in corse forsennate. Il ritmo è
sempre scandito da semiminime (prescritte a tutti gli strumenti in marcatissimo) a partire dalle viole, che
aprono il movimento:
Questo
pedale ostinato, su cui si innestano
di tanto in tanto gli schianti degli altri archi e gli urli dei legni, contagia
poi i violini primi, quindi i secondi, per poi trasferirsi ai fiati;
successivamente si fraziona, con le prime due semiminime negli archi in
pizzicato e le seconde nei fiati, creando un effetto stereofonico; quindi torna
nei soli archi, con le scansioni (una sul terzo tempo della battuta) dei fiati.
Poi riprende la configurazione iniziale, diminuendo l’intensità, adesso nei
soli archi bassi, che ben presto (all’ingresso delle percussioni) muta con le
semiminime alternate fra gli ottoni, mentre la tromba esplode spiritate volate
in su e in giù, inframmezzate da svolazzi degli strumentini e dalle folate
delle terzine degli archi. Torna l’ostinato iniziale, che si sviluppa con un impressionante
crescendo fino a provocare un autentico terremoto in tutta l’orchestra, un fracasso
infernale in cui spiccano le tremende mazzate dei timpani. Il tutto chiuso da
un prolungato rullo di tamburino che introduce senza soluzione di continuità
il…
… Largo (4/4, SOL# minore). Dopo due
colossali accordi a tutta orchestra viene esposto il tema principale, una
lunghissima frase che partendo dal grave sembra non riuscire a spiccare il
volo; poi si innalza, ma a fatica, con puntate verso l’alto seguite da
ricadute. La cosa si ripete fino all’ingresso del corno, che espone un nuovo
motivo lamentoso, subito seguito dall’ottavino solo che sembra portare echi di
mondi lontani, imitato poi dal flauto. Ora l’atmosfera sembra addolcirsi, il
tremolo dei legni introduce i clarinetti che riprendono il motivo prima esposto
dall’ottavino. E sono i clarinetti (anche quello basso) ad accompagnare gli
archi nella sognante cadenza finale che porta (ancora senza alcuna cesura) al
conclusivo…
…Allegretto (3/4, DO maggiore). OK, sarà
pure un maggiore un po’ offuscato e corrusco, però qui siamo nel pieno solco di
una tradizione che (tralasciando opere meno famose di Mendelssohn, Bruckner,
Dvorak, Saint-Saëns e Prokofiev) dalla quinta di Beethoven passa
attraverso la prima di Brahms, la seconda di Ciajkovski e l’ottava di Bruckner!
È il
primo fagotto ad esporre il tema conduttore, che ci riporta vagamente
all’incipit della quinta. Gli
subentrano gli archi, interrotti dall’impertinente irruzione del primo, poi del
secondo flauto, che sembrano fischiettare il loro motivo. Adesso tocca al
violoncello solo cantare una melodia intrisa di malinconia, che sfocia nel
ritorno del primo tema negli oboi. Tocca poi ai violini l’esposizione di un
nuovo motivo, in realtà mutuato dal tema principale; quindi gli archi bassi
introducono una sezione caratterizzata da un vivace contrappunto fra archi e
fiati, dopodiché ancora gli archi riprendono il tema principale, contrappuntati
poi dai legni (oboi, corno inglese e clarinetti).
Adesso
inizia una sezione più mossa (Allegro)
con interventi degli ottoni (trombe in particolare) che porta ad un progressivo
crescendo culminante, come era accaduto nel primo movimento, in alcuni
colossali quanto sinistri schianti di tutta l’orchestra, al termine dei quali
riudiamo in trombe e tromboni quell’inciso che ricordava il Manfred. Ancora
pesanti accordi portano (Adagio) alla
conclusione di questo squarcio cupo ed enfatico. Qui entra in scena il
clarinetto basso, che espone uno dei motivi già uditi, durante il quale abbiamo
un’improvvisa irruzione del primo violino che apre la strada al ritorno del
violoncello per riesporre il suo tema cantabile.
Tornano
i fagotti, con una cadenza che introduce il primo tema, subito raggiunti dagli
archi. Ci si avvia alla conclusione, con una coda dove si fa sentire l’ottavino,
con il suo melisma intriso di malinconia. Sono gli archi soli a chiudere,
esalando serenamente la triade di DO maggiore.
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Ora, l’ottava non sarà forse un capolavoro
(ammesso che troviamo autentici capolavori in tutta la produzione del buon
Dimitri) ma di sicuro presenta aspetti assolutamente interessanti, anche se
magari piuttosto nascosti e non facili a discernersi di primo acchito.
Per i curiosi:
c’è anche chi si è divertito a descrivere nei minimi
dettagli ciò che questa musica (gli) dice, proponendone una versione… romanzata,
buona magari per farci un’azione scenica (?!)
Invece io sono
personalmente più che soddisfatto di come Caetani e laVerdi ce l’hanno proposta, meritandosi convinti applausi dal loro
(iersera ahinoi scarsino, ma affezionato ed osannante) pubblico. Che all’uscita
benedice la compressione adiabatica dell’aria,
arcano fenomeno fisico che, dal gelo imperante fino a metà giornata, ha portato in un batter d'occhio la temperatura sopra i 10°…
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