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31 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°15

 

Anche a cavallo fra 2013 e 2014 risuona per quattro volte in Auditorium, diretta da Zhang Xian, la Nona beethoveniana che laVerdi offre ogni fine d’anno al suo affezionato pubblico. Pubblico che ieri sera, alla seconda replica, era davvero strabocchevole e che alla fine, prima e dopo il tradizionale bis della coda dell’Ode, ha tributato a orchestra, coro, solisti e direttore una specie di trionfo non solo per la serata, ma idealmente per tutto questo 2013 che ha segnato per la Fondazione alcune tappe davvero indimenticabili: dal compleanno dei 20 anni, alla prestigiosa presenza ai PROMS fino alla tanto sospirata ed acclamata ottava mahleriana.

Ed anche questa esecuzione ha confermato la piena maturità dei complessi strumentali e corali de laVerdi, entrata ormai a pieno titolo nel novero delle istituzioni musicali più prestigiose. E un segnale non insignificante di ciò è la crescita di singoli componenti dell’orchestra, che si guadagnano via via posizioni di prima parte: ieri sera ne era esempio palpabile la presenza, sulle due sedie ai lati del podio, di Nicolai Freiherr von Dellingshausen (un nome… un programma!) e di Tobia Scarpolini, che ha guidato splendidamente il pacchetto degli archi bassi nel grande recitativo del Finale.

Zhang Xian ha comandato le masse (sue e di Erina Gambarini) e i quattro solisti (Maida Hundeling, Deborah Nansteel, Gregory Warren, Rudolf Rosen, tutti all’altezza, con qualche punto di merito in più per la Hundeling) con grande autorità, in un’interpretazione che definirei… eroica, quanto a intensità e pathos (forse persino con qualche eccesso nelle scariche dei timpani della bravissima Viviana); in ogni caso un’esecuzione austera, con tempi sempre misurati e composti, che poco o nulla ha lasciato a retorica o ad eccessive romanticherie. Rientra in questa logica anche il taglio di tutti i ritornelli dello Scherzo, ad eccezione di quelli delle due sezioni del Trio.      

Insomma, almeno qui in Auditorium il 2013 non sarà certo ricordato come annus horribilis, ma mirabilis! Di questi tempi, è già qualcosa…

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Sulla Nona si sono scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro. Ma in Italia il saggio ancor oggi - dopo quasi 40 anni - più completo è quello di Massimo Mila (Lettura della nona sinfonia, purtroppo difficile a reperirsi tramite i principali canali commerciali) che esplora la partitura quasi battuta per battuta, mettendone in luce anche le più remote significanze.

Oggi noi non ci scandalizziamo della durata di oltre un’ora di una sinfonia, abituati all’ipertrofia di quelle di Mahler, che almeno in 7 casi su dieci si avvicinano ai 90 minuti; così come non badiamo alla mancanza del da-capo nell’esposizione dei temi del primo movimento (A-A e poi B-B invece che il tradizionale A-B con ritornello); e poco ci curiamo del fatto che il secondo tema, invece che in FA maggiore come da sacri canoni, sia nella sua sottodominante SIb; né ci sorprende che il movimento vivace (lo Scherzo) compaia in seconda anziché in terza posizione. E soprattutto troviamo quasi normale la presenza di voci e coro, dopo che la cosa era diventata quasi un’abitudine sin da fine ‘800, sempre grazie a Mahler (per la verità anticipato isolatamente dal Mendelssohn della Lobgesang). E il nostro orecchio accetta senza drammi le tremende dissonanze degli accordi che aprono l’introduzione, nello stesso Finale della sinfonia.  

Ma per il pubblico e soprattutto per la critica dell’anno di grazia 1824 quelle novità suonavano come un autentico terremoto che scuoteva dalle fondamenta sacre consuetudini consolidate ormai da quasi un secolo! E proprio e soprattutto l’ultimo movimento della Nona fu da subito oggetto di accese discussioni a causa dell’impiego della voce, che avrebbe – secondo gli schizzinosi à-la-Hanslick – inquinato la purezza della forma sinfonica con ingredienti alieni e propri di generi completamente diversi (Lieder, oratori, cantate, messe, opere). 

Al proposito, Giovanni Bietti (una delle voci che su Radio3 ci impartiscono splendide lezioni di musica) nel suo recente Ascoltare Beethoven ricorda come la Nona sia da sempre oggetto non solo di critiche, ma anche di ritocchi… fra i quali cita quello famoso di Furtwängler, consistente nel re-instrumentare l’incipit del Finale, per renderlo ancor più enfatico e strepitoso di quanto già non sia. Questa è la pagina della partitura originale (una delle tante edizioni, inclusa quella recente di Jonathan del Mar per Bärenreiter, che concordano tutte sul contenuto):


Ora, se si ascolta un’esecuzione del famoso direttore (qui nel 1954) non si può non notare come alle trombe (clarini, nell’originale di Beethoven) sia stata di fatto assegnata la stessa parte dei flauti, il che conferisce al passaggio una spettacolarità perfino eccessiva e al limite del pacchiano! Oltretutto coprendo quasi completamente il suono dei legni. (Qualcosa di simile accade poco dopo, al secondo intervento dei fiati, dopo il primo recitativo degli archi bassi; e poi ancora, al ritorno della fanfara prima dell’entrata del baritono.)

Ma in realtà tutto ciò non è nemmeno farina del sacco di Furtwängler, bensì di quello di Richard Wagner, che nel 1873 aveva scritto un piccolo trattato sull’esecuzione della Nona, in cui precisamente giustificava la sua decisione di cambiare sostanzialmente la parte delle trombe in quel passaggio (una terrificante fanfara dei fiati, parole sue) poiché, a suo dire, come l’aveva scritta Beethoven era tale da far udire all’ascoltatore soltanto il ritmo di quegli ottoni, la cui potenza sovrastava la linea melodica dei legni. E siccome, secondo lui, ciò non poteva corrispondere ai desideri del compositore, ecco la decisione, che Wagner aveva adottato nelle sue ultime interpretazioni della sinfonia, di far suonare alle trombe la stessa linea degli strumentini. E nel suo scritto Wagner riporta precisamente la modifica della parte delle 2 trombe (qui le prime 5 battute):


Beh, con tutto il rispetto per Wagner, anche un principiante capisce che una soluzione meno estrema del problema – soluzione che sia più rispettosa dell’idea del compositore, quindi non uccida il suono dei legni e non crei effetti pacchiani - consisterebbe semplicemente nel chiedere alle trombe di suonare un filino più piano rispetto ai legni (dinamica f e non ff, per dire…) Così mi pare proprio abbia fatto ieri la Xian, e del resto anche tale Charles Gounod (non certo il primo che passava per la strada…) non aveva risparmiato pesantissime critiche verso quelle scelte di Wagner.

Di avviso opposto fu Gustav Mahler, che non solo cooptò tutti i suggerimenti di Wagner, ma rincarò la dose, conformemente alla sua abitudine-attitudine di apportare valore-aggiunto (?!) alle opere altrui (e Schumann ne sa qualcosa…) La sua prima direzione della Nona a Vienna (domenica 18 febbraio 1900) fu l’occasione per lo scatenarsi di polemiche furiose fra i critici riguardo alla cosiddetta libertà dell’interprete. Ad esempio, Max Kalbeck difendeva a spada tratta le scelte di Wagner e Mahler, sostenendo che in fin dei conti la musica esiste soltanto quando qualcuno (l’interprete) la porta all’orecchio dell’ascoltatore, viceversa resta solo un ammasso di segni morti sulla carta. (Peraltro non poteva esimersi dal deplorare il taglio di 8 battute perpetrato da Mahler all’inizio della ripresa dello Scherzo!)

Sul fronte opposto della barricata c’era chi, come Robert Hirschfeld, deprecava l’eccessivo e maniacale gusto del dettaglio, che portava Mahler a mettere sempre in risalto anche piccoli particolari di puro contorno e riempitivo, perdendo così la visione d’insieme dei brani eseguiti. E poi concludeva che se si lascia al direttore la libertà di re-instrumentare a suo piacere una partitura, magari con il razionale della limitatezza dei mezzi disponibili ai tempi di Beethoven, allora si sa dove si comincia ma non dove si va a finire…

In effetti queste diatribe fra progressisti e conservatori si registrano ancor oggi (pur se a livello partiture siamo ancora alle quisquilie, se confrontate con le libertà che si prendono i registi nelle messeinscena delle opere!) Ma pensiamo cosa succederebbe ad un direttore che – sostenendo che se Beethoven avesse avuto a disposizione il saxofono (inventato 20 anni dopo la sua morte!) lo avrebbe di certo impiegato alla grande nelle sue sinfonie - decidesse di rinforzare la sezione degli ottoni con un paio di sax: sarebbe portato in trionfo, o accompagnato presso il più vicino psichiatra?

Quanto all’idea che la musica esista solo sotto forma di onde sonore propagantesi nell’aria fino a raggiungere i timpani dell’ascoltatore, come la mettiamo col fatto che almeno un terzo dell’intera produzione di Beethoven fu composto da una persona quasi totalmente sorda? E non è forse vero che Brahms, disgustato dalle pessime esecuzioni mozartiane dei teatri del suo tempo (eccettuato Mahler!) ripeteva che quando voleva ascoltare un DonGiovanni come si deve, si metteva comodo in poltrona a casa sua e apriva la partitura? E forse che per apprezzare l’Amleto si deve per forza andare a teatro ed ascoltarlo dalla viva voce di Laurence Olivier? O non si può goderne (almeno fin ad un buon livello) anche semplicemente leggendone il testo nel silenzio del proprio studio?  

Tornando a bomba, oggi scopriamo che con Wagner, Mahler e Furtwängler si trova in pieno accordo anche Aldo Ceccato: che nel suo libretto Beethoven duemila, dove raccoglie le sue cosiddette attualizzazioni delle nove sinfonie beethoveniane, propone più o meno la stessa soluzione wagneriana all’incipit del finale, anzi estendendola in buona parte anche ai corni (le note piccole sono quelle aggiunte):


Quanto a quell’incipit, Massimo Mila da parte sua ce ne fa notare la straordinarietà, in particolare proprio nelle prime due battute, dove troviamo un chiaro esempio di politonalità (roba da XX secolo!) Infatti vi abbiamo la sovrapposizione di due diverse triadi: SIb maggiore e RE minore. La prima deriva dal SIb di flauti, oboi e clarinetti, dal RE del secondo corno e dal FA di fagotti, controfagotto e corni 1-3-4. La seconda  è determinata, oltre che dai RE e FA succitati, dai poderosi LA delle trombe e dei timpani, che creano quella stridente dissonanza con i SIb. 

Le due tonalità rappresentano precisamente gli ingredienti di base dell’intera sinfonia (i due temi del primo movimento, le tonalità di base dei restanti tre) e in particolare il passaggio fra il terzo e il quarto movimento è frutto di una mirabile quanto geniale intuizione di Beethoven: l’Adagio molto e cantabile si chiude sulla triade di SIb maggiore, ma mettendo in evidenza la mediante RE, negli strumentini. Quindi all’attacco del Finale (che andrebbe eseguito senza lunghe pause, come testimonia l’assenza di corona puntata alla fine dell’Adagio) nel nostro orecchio risuona ancora l’accordo di SIb che ci prepara col suo RE alla tonalità (minore) su cui poggerà la prima parte del Finale. Orbene, la transizione dal SIb maggiore al RE minore è ottenuta precisamente in quelle prime due battute del Finale, dove le due triadi coesistono (e stridono) per un attimo soltanto, quasi che la prima stia passando idealmente il testimone alla seconda. E uno sguardo alla pagina di partitura ci mostra anche come tale passaggio di testimone avvenga, per così dire, dall’alto al basso dei righi di pentagramma, al cui centro si trovano le note comuni alle due triadi (RE-FA, emesse da strumenti di suono più sordo, come fagotti e corni) mentre ai due estremi si trovano proprio le note che le differenziano, emesse da strumenti dal suono squillante o percussivo: SIb, in alto, negli strumentini; LA, in basso, in clarini e timpani!   

Ma al ritorno della fanfara, prima dell’entrata della voce del baritono, Beethoven va ancora più in là, aggiungendo anche SOL (violini II), MI (violini II e viole) e DO# (viole). Mila ci fa osservare che adesso sono addirittura quattro le triadi che si sovrappongono: SOL minore (SOL-SIb-RE); SIb maggiore (SIb-RE-FA); RE minore (RE-FA-LA) e infine LA maggiore (LA-DO#-MI). Qui vengono suonate insieme tutte e sette le note della scala armonica di RE minore, un gigantesco cluster! (Ritroveremo cose simili in musica non prima del Parsifal e della Decima mahleriana, per dire…)


È talmente grande la Nona, che è stata ed è strumentalizzata per mille diversi ed opposti interessi: basterà ricordarne due. L’esecuzione della coda del Finale in occasione del compleanno di Hitler, nel 1942, quando proprio Furtwängler, che nessuno ha mai capito se in quei momenti si sentisse più imbarazzato che onorato, diresse i Berliner davanti ai più alti gerarchi nazisti, in un tripudio di croci uncinate. 47 anni più tardi, in quella stessa Berlino, a Natale, toccava a Lenny Bernstein dirigere la Nona nel Concerto della Libertà, per celebrare la caduta del muro. E – come si ascolta a 1h07’05” nel filmato - invece di Freude, il baritono ed il coro intonarono Freiheit!
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Segnalo ancora le lezioni sulla Nona di Giangiorgio Satragni, pubblicate qualche anno fa in rete dalla Città di Torino nell’ambito della meritoria iniziativa che va sotto il nome dentrolamusica.

Ecco infine cosa scriveva a proposito della Nona Danilo Prefumo sul numero di aprile 1988 di Musica&Dossier.

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