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14 novembre, 2019

Lo strampalato Fidelio svizzero a Bologna


Nella bomboniera del Bibbiena è andata ieri in scena - in pomeridiana - la terza delle sei rappresentazioni della nuova produzione di Fidelio, co-realizzata con l’Opera di Stato di Amburgo, dove è passata all’inizio dello scorso anno non senza contestazioni quasi unanimi (pubblico e critica) soprattutto al regista, ma un poco anche al direttore. E pensare che erano (e sono) la coppia-più-bella-di-Amburgo (Delnon-Nagano): sovrintendente e direttore musicale del Teatro! Come se alla Scala venisse censurata una messinscena di Otello con regìa di Pereira e direzione di Chailly (nulla di più probabile, direbbe qualcuno, haha...)

Domenica scorsa Radio3 aveva irradiato la prima che - ad essere sincero - non mi aveva particolarmente entusiasmato: direzione di Asher Fisch piuttosto incolore e impacciata, e cast mediamente poco sopra il minimo sindacale. Ma si sa che l’ascolto tecnologico è ingannatore: infatti quello dal vivo è stato... quasi peggio (!)

Al Direttore israeliano riconosco un sicuro merito: la scelta dell’Ouverture giusta (ad Amburgo Nagano optò narcisisticamente per la Leonore3) e la rinuncia all’usanza mahleriana di infilare la citata Leonore3 prima del finale. Per il resto, siamo più alla magmatica prosopopea di Wagner (del quale Fisch è obiettivamente un grande esperto) che alla trasparente asciuttezza del Ludovico, ecco. Non sono comunque mancati momenti emozionanti, come il coro del primo atto (Leb wohl, du warmes Sonnenlicht) e lo scioglimento delle catene di Florestan da parte di Leonore (O Gott, welch ein augenblick!Meritevole di elogio anche il finale del coro di Alberto Malazzi.

Note miste (e per me in parte sorprendenti) per le voci. Su tutti il Pizarro di Lucio Gallo, veterano del ruolo che interpreta con il giusto grado di sbifidezza, ma senza esagerare: la voce è sempre potente, anche se non priva di qualche forzatura, però, avercene! Sorpresa negativa la Simone Schneider: voce spesso chioccia in acuto e carente nell’ottava grave; una Leonore francamente sotto le mie aspettative. Al contrario, dopo l’ascolto radiofonico che mi aveva quasi orripilato, il Florestan di Erin Caves mi è parso un altro cantante. Tanto per cominciare: niente stonature; e poi buona proiezione della voce e discreta tenuta fino in fondo. Degli altri, sufficiente la Marzelline di Christina Gansch, che se non altro si fa sentire senza problemi (poi se gli acuti fossero meglio controllati meriterebbe quasi un voto discreto...) Di male in peggio gli altri tre interpreti maschili: inudibile (vocina opaca e anonima) il Jaquino di Sascha Emanuel Kramer; vocione artificialmente gonfiato, cavernoso e sgradevole quello di Petri Lindroos (Rocco) e del tutto privo della necessaria autorevolezza (leggasi: una voce di basso corposa ma morbida) il Ministro di Nicolò Donini. Meglio di loro han fatto i due coristi del Comunale, Andrea Toboga e Tommaso Novelli, voci soliste del gruppo di prigionieri.

Pubblico per nulla oceanico e assai freddo durante lo spettacolo: applausetti a scena aperta solo dopo Ouverture, le arie di Pizarro e Leonore nel prim’atto, l’aria di Pizarro e il duetto Leonore-Florestan nel secondo. Applausi un po’ più convinti per tutti - ma di breve durata - alla fine.
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In compenso (?!) tutto quanto di male era stato scritto in Germania a proposito della regìa si è puntualmente quanto inevitabilmente ripetuto nella ripresa bolognese, giustamente (a mio parere) stroncata in questa autorevole recensione della prima.

Io sarò un po’ meno severo, derubricando l’accusa da quella di lesa maestà a Beethoven nell’altra di semplice velleitarismo e banalizzazione del soggetto, da parte di un regista in cerca di Konzept discutibili (la caduta della DDR, le citazioni da opere di Müller e Büchner più fuorvianti che altro) e di trovate da avanspettacolo (vedasi la Marzelline isterica insidiata da Jaquino e Pizarro mentre si suona la mirabile introduzione all’atto secondo).

Insomma: uno spettacolo francamente modesto, di cui temo nessuno si ricorderà... In ogni caso, chi proprio volesse prenderne visione (con il secondo cast) lo può fare stasera stessa collegandosi con lo streaming del Teatro.

15 aprile, 2010

L’enorme terza di Mahler a Bologna

Ieri sera il Teatro Manzoni di Bologna ha ospitato – in esemplare unico! – la sterminata Terza Sinfonia di Gustav Mahler, diretta da Asher Fisch. Con l'Orchestra e i Cori (di femmine e piccoli) del Comunale, si è esibita Veronica Simeoni.

Mahler aveva steso delle note programmatiche – poi ritirate dalla circolazione, ma di tanto in tanto ricomparse qua e là – per introdurre ciascun movimento della sinfonia, orientando l'ascoltatore a coglierne lo spirito. A parte l'iniziale Risveglio di Pan, irrompe l'estate, che a mala pena dà l'idea del gigantesco, complesso ed interminabile movimento che apre l'Opera, gli altri cinque sottotitoli hanno in comune Quel che mi racconta… E cos'è precisamente ciò di cui Mahler è in ascolto? I fiori di campo, Gli animali del bosco, La notte, Le campane del mattino e L'amore.

Comunque, rimossi i titoli (altri ancora ne aveva indicati informalmente) Mahler ha lasciato esplicitamente in vigore la suddivisione dell'intera sinfonia in due parti: l'una costituita dal primo, ipertrofico movimento (che da solo occupa un terzo della durata totale) l'altra dai restanti cinque. (Qualcosa di simile il boemo farà per la sua ottava, con la giustapposizione del Veni Creator alle ultime scene del Faust.)

L'inizio è appunto un movimento (in struttura quasi da fantasia, più che da classica forma-sonata) che propone le più svariate idee, dalle frasi monumentali e solenni degli ottoni, agli squilli di trombetta, alle marcette da Prater di Vienna, con interventi del clarinetto in MIb (tipico delle bande). Insomma, un minestrone, ma di quelli proprio saporiti!

Segue il Menuetto: sembrerebbe una presa in giro, dato che siamo a cavallo fra '800 e '900! Ma poi si sviluppa con grande libertà (tempi di 3/8 e 2/4) e anche con momenti di fracasso, certo assai lontani dall'imparruccato Haydn!

Il terzo movimento è introdotto da un tema preso da un lied del Wunderhorn. Al trio compare la cornetta da postiglione (dislocata dietro le quinte, dovendosi udire da lontano) che intona una melodia che in certi tratti richiama (in tempo lento e ritmo languido) una Jota Aragonesa:








A un certo punto la trombetta in orchestra emette uno squillo che sembra ricordarci quello famoso del secondo atto del Fidelio, poi il movimento chiude con un crescendo di tutta l'orchestra.

Nel quarto movimento arriva il contralto a cantare versi del nietzschiano Zarathustra, ma a un certo momento, nei violini, sentiamo comparire nientemeno (!) che La Paloma:









Poi è la volta dei piccoli e del coro femminile a cimentarsi con i versi di un altro lied del Wunderhorn. Il contralto interloquisce con incisi di cui ci si dovrà ricordare nel Das Himmlische Leben che chiuderà la quarta sinfonia, e che in origine pare dovesse fare da finale a questa (ma sarebbe stato davvero troppo…)

L'incipit dell'ultimo movimento espone un tema parsifaliano, o magari cita (quasi alla lettera) l'Op.135 di Beethoven:












Questo Adagio anticipa in qualche modo quello della futura nona sinfonia: certo qui siamo ancora dei giovani di belle speranze, la vita – posizione, famiglia, opere – è ancora (quasi) tutta davanti… là invece vi si sentirà la fine vicina e vi si accumuleranno ricordi di cose grandi e di grandi disfatte. Ma insomma, il Mahler che troviamo qui è già (e sempre, potremmo dire) lui. Anche quando cita esplicitamente un inciso dell'Otello (prima scena, la tempesta):











Effettivamente, in questa sinfonia c'è ampia materia probatoria per tutti coloro che denigrano Mahler, riconoscendogli come unico merito quello di essere un gran scopiazzatore; insomma, di scrivere della Kapellmeister-Musik, musica che un direttore d'orchestra compone assemblando idee, motivi, temi, ritmi e quant'altro (altrui) gli rimane in testa di tutto ciò che interpreta ogni giorno salendo sul podio.

Personalmente tendo ad assolvere il nostro, soprattutto quando – ed è il caso di Bologna – la sua musica ci viene propinata più che dignitosamente. Del resto, nessuno ha inventato mai nulla (salvo Adamo, smile!) e lo stesso Wagner (tanto per dire) ha fatto ampia man-bassa di suoi predecessori – dal vituperato, perché ebreo, Mendelssohn, al più vituperato ancora, perché ebreo e in più non abbastanza compiacente, Meyerbeer!

Asher Fisch (guarda caso, un ebreo!) deve avere invece un'affinità elettiva con Mahler (anche se qui l'ebreo Mahler sta abbracciando il cristianesimo) un po' come Bernstein, ma anche come il filo-nazista Mengelberg (guarda un po' come va il mondo…) Il direttore israeliano rispetta la partitura al millimetro e l'orchestra lo asseconda alla grande. Ottoni strepitosi (salvo qualche piccola défaillance dei corni, solo nei movimenti interni) - compreso il solista alla cornetta, che non ha mancato una virgola - legni impeccabili e archi (viole messe in prima fila, violoncelli arretrati) sempre precisi e convincenti. Solista e cori hanno un compito non proprio improbo (come nell'ottava, per dire) ma se la cavano benissimo: la Simeoni porge il suo Nietzsche con grande nobiltà e una bella voce calda e poi accompagna i cori di Paolo Vero e Silvia Rossi che scandiscono i bimm-bamm delle campane.

Alla fine applausi convinti (inquinati da un paio di ululati di disapprovazione? ma per che cosa o chi?) e simpatica passerella dei ragazzi, ragazzini e piccoli della Rossi che scendono in platea a ricevere il meritato riconoscimento. Ancora diverse chiamate per Fisch e ulteriori ovazioni per tutti.

Brava Bologna a darci di queste emozioni!