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03 febbraio, 2024

Tante penne, tanti Boccanegra

Rapida carrellata di pareri sul Simone del 1° febbraio.

Stefano Jacini:

Suoni: lodi incondizionate per Viotti; Salsi OK per il canto, meno per la gestualità; Buratto e Castronovo di buon livello e disinvolti; Anger meno convincente.

Regìa: stanco déjà-vu; movimenti di scena non troppo riusciti; belli i costumi.

Ugo Malasoma:

Suoni: Viotti apprezzabile, più nei particolari che nell’insieme; Coro efficace; Salsi eccellente; Anger vociferante e si perde per strada il personaggio; Buratto tecnicamente OK, ma acuti spinti, note calanti e bassi con poco volume; Castronovo piuttosto deludente, acuti sforzati e mezze voci opache; DeCandia bravissimo.    

Regìa: per apparire essenziale non esprime granchè; spettacolo triste, scene brutte, personaggi e masse in movimento caotico. Perché non recuperare Strehler?

Fabio Vittorini:

Suoni: Viotti apprezzabile, riscatta la prova opaca del Roméo et Juliette; Salsi dal fraseggio sempre vario e tecnica solidissima; Anger parte bene, ma poi si appanna progressivamente; Buratto con vocalità corposa, troppo spinta negli acuti, efficace l’interpretazione; Castronovo bene negli acuti, per il resto opaco e sforzato; DeCandia insolitamente sonoro.   

Regìa: vuoto sgomentante, complementi scenici insignificanti; scarsissimo lavoro sugli attori, abbandonati a se stessi.

Elvio Giudici:

Suoni: Viotti ancora troppo immaturo; agogica di lentezza mortale, dinamica catatonica, concertazione assente, tensione questa sconosciuta; Coro superlativo; Salsi è l’unica ragione per assistere allo spettacolo: la sua è la voce di Verdi, che commuove anche le pietre; Anger di indecenza inammissibile; Buratto delude, debole sotto, sforzata sopra, il personaggio non c’è; Castronovo né male né bene, nessuna accentazione; DeCandia rende piena giustizia al personaggio di Paolo.    

Regìa: spettacolo vituperevole, scene orrende, regìa ridicola.

Giancarlo Arnaboldi:

Suoni: Viotti non ha mantenuto le promesse del Roméo et Juliette: direzione carente di mistero, priva del caratteristico colore verdiano; concertazione carente, le voci vanno per conto loro; Coro e Orchestra al di sotto del normale livello; a Salsi sfugge il lato nobile di Simone, in difficoltà nei momenti più autoritari; Anger dal suono intubato, acuti laceranti, fraseggio incomprensibile; Buratto discreta dal lato interpretativo, ma voce con acuti spesso forzati; Castronovo offre il momento più emozionante della serata; DeCandia con grande professionalità.

Regìa: scolastica e banale, deprimente e piena di luoghi comuni.
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Insomma: abbiamo capito che l’altra sera alla Scala c'erano contemporaneamente in scena almeno due o tre Boccanegra (e relativi cast) che in comune avevano solo una regìa inesistente, se non proprio obbrobriosa.   
 

02 febbraio, 2024

Un nuovo doge alla Scala

Simon Boccanegra: opera di vecchi, per vecchi? Certo persino un adulto (non dico poi un adolescente) può faticare ad emozionarsi per le vicissitudini di un padre e di un nonno! Roba giurassica. E per di più quando i due sono genero e suocero!

Ah, Verdi aveva 44 anni quando compose la prima versione del Simone, e sulle spalle portava già da tempo i pesanti segni delle sventure che la vita (magari più prima che poi, come nel suo caso) immancabilmente riserva a tutti.

E quindi la tinta (Verdi’s copyright) dell’opera è ammantata di cupezza e pessimismo, se ai problemi personali e privati dei protagonisti si aggiungono anche gli intrighi di palazzo e le smanie di potere in un ambiente ancora medievale e oscurantista.

Dopodichè Verdi non sarebbe stato Verdi se non fosse mirabilmente riuscito a nobilitare questo scenario con le sue note!
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Ebbene, ieri abbiamo incontrato un poco più che ragazzo (ancora non ha compiuto 34 anni) che ha stupito per la profondità con la quale ha illustrato questa musica: Lorenzo Viotti!

Certo, i suoni poi li devono materialmente emettere gli strumenti cui danno anima gli strumentisti… e l’Orchestra scaligera ha magnificamente assolto il suo compito con una prestazione impeccabile. Faccio un unico esempio per tutti: la grande cavata in FA maggiore dei violini che accompagna l’epilogo del duetto Simone-Amelia del primo atto. Una cosa a dir poco sbudellante… [A proposito, Meyer in apertura ha voluto ringraziare gli strumentisti in buca e pure quelli non presenti ieri per il premio ricevuto nei giorni scorsi: la miglior orchestra d’opera oggi sul pianeta!]

Dato poi a Malazzi ciò che è… suo (il Coro in grande quanto solito spolvero) vengo alle voci.

Luca Salsi è ormai quasi stabilmente il baritono di riferimento per la Scala: qui vi ha portato il ruolo di Simone, non nuovo per lui, nel quale si è destreggiato con la consueta maestria. Nella tragicità del suo animo tormentato, come negli slanci di amor paterno e nelle colossali perorazioni pubbliche: insomma, un Simone più che positivo… ma forse non il Simone di riferimento.  

Ain Anger è stato un (non aspirante, nel libretto, ma alla fine convinto) suocero per me non disprezzabile (salvo qualche acuto vociferante). Però ha preso esclusivamente su di sé le rimostranze di qualche purista che lo ha sonoramente buato alla fine.    

L’Amelia-Maria di Eleonora Buratto ha ben meritato, calandosi alla perfezione nella parte di questa bistrattata orfanella: brava nel passare dall’ingenuità e timorosità della ragazza cresciuta senza una famiglia, al coraggio di rivendicare il suo amore fino a diventare il catalizzatore della finale e generale riconciliazione. Il tutto supportato dalla sua voce pura sì come angelo, si potrebbe dire... 

Adorno è Charles Castronovo, figlio di emigrati italiani in USA, già interprete del ruolo a Salzbug (2018) insieme a Salsi e sotto la bacchetta di Gergiev: definirei la sua un’interpretazione più che dignitosa, ecco, ma… non molto di più, almeno sul piano strettamente vocale (la voce è squillante, ma negli acuti si ingola pericolosamente). Bene invece ha fatto come attore, interprete di questo ruolo per nulla semplice, perchè caratterizzato da slanci amorosi e da furenti rancori.

Buone notizie da Roberto De Candia, che ci restituisce efficacemente lo sbifido Paolo Albiani, assatanato per il potere e per il possesso (della… gnocca!) Da ricordare i suoi ripetuti sfoghi contro Simone.

Su standard onorevoli il Pietro di Andrea Pellegrini e gli altri due comprimari: Laura Lolita Perešivana (ancella di Amelia) e Haiyang Guo (Capitano dei balestrieri).
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Daniele Abbado. Mi è parso che – magari come ricordo del padre – abbia preso come riferimento Giorgio Strehler, che con Claudio firmò la splendida produzione degli anni ’70. Ambientazione cupa e buia, con pochi e luminosi squarci… nautici (scene e costumi però impoveriti delle preziosità che oggi non sono più di moda).

Ma anche piccoli dettagli, fra i quali ne segnalo uno: l’avvelenamento. Come in Strehler, anche qui Paolo versa il veleno nella tazza di Simone facendosi… aiutare da un inserviente (là femmina, qui maschio) che gliela reca su un vassoio…

Efficace mi è parsa la recitazione suggerita ai personaggi. Complessivamente una regìa onesta e corretta, senza invenzioni ardite o discutibili ri-ambientazioni. Alla fine lui e il suo team (Angelo Linzalata per le scene, Nanà Cecci ai costumi, Alessandro Carletti alle luci e Simona Bucci per la coreografia delle sommosse) sono stati accolti da moderati consensi.

A parte il malcapitato Anger, per tutti applausi calorosi (ma non proprio un tifo da stadio, ecco). Personalmente la definirei nel complesso una proposta seria e onesta, meritevole di ampia sufficienza.

30 gennaio, 2024

Un nuovo doge alla Scala: ripasso

In attesa di apprezzare (speriamo!) la nuova produzione di Simon Boccanegra che la Scala ha affidato alla coppia Viotti-Abbado, ho dato una ripassata al plot dell’opera, che è di certo fra i più contorti e indigesti fra quelli che popolano la sterminato terreno del melodramma. Ovviamente rinfrescando la memoria con l’aiuto di autorevoli addetti-ai-lavori (ne cito uno fra tutti: Julian Budden).  

Sappiamo che il libretto della prima versione (1857) dell’opera (di Francesco Maria Piave poi rinforzato da Giuseppe Montanelli) fu derivato con sufficiente fedeltà dal dramma di Antonio García-Gutiérrez (1843) un autore che Verdi già aveva sfruttato per il suo Trovatore. Poi arrivò Arrigo Boito (versione 1881) che apportò svariate e non banali variazioni al libretto di Piave.

Come detto, Piave mantenne quasi inalterata la macro-struttura dell’originale: un Prologo ambientato nella Genova del 1338 e tre Atti (contro i quattro di Gutièrrez) sempre nei pressi di, o in Genova, nel 1362 (Aristotele: ciaone!) Al proposito, e detto di passaggio: con quale realismo può uno stesso baritono impersonare uno stesso individuo a distanza di 25 anni, passando da giovane eroe/corsaro/conquistatore-di-mari (e di… ragazze di buona famiglia) ad austero e magnanimo rappresentante del Popolo, e padre premuroso quanto attempato? Ridendoci paradossalmente sopra: uno come il Topone (!) che poteva tornare quasi tenore nel Prologo e poi contrabbandarsi baritono per il resto dell’opera…

Ovviamente Piave fu costretto a sfrondare l’originale di Gutièrrez di tanti orpelli (personaggi e vicende di contorno) perfettamente ammissibili in un’opera da teatro di prosa ma che sarebbero stati deleteri per un melodramma. In questa sintetica tabella ho riassunto, su tre colonne, le differenze principali fra i testi di Gutièrrez, Piave e Boito (ho usato per tutti i nomi italiani). Che ora commento con qualche dettaglio.

Innanzitutto balza all’occhio come la costruzione del libretto di Piave già avesse comportato la cassazione dell’intero second’atto originale. E con esso quella di un personaggio, Lorenzino Buchetto, che nell’opera compare solo nel primo atto, senza mai cantare e del quale si sente solo parlare e quasi di sfuggita, mentre nel dramma occupa buona parte di quell’atto espunto. [Curioso come a questo meschino personaggio di contorno vengano riservate ben tre diverse uscite di scena: in Gutierrez dopo il second’atto di lui non si ha più traccia: in Piave e Boito scompare già dopo il primo atto: esiliato da Boccanegra (Piave); trucidato da Gabriele (Boito).]

In effetti, dopo il Prologo, non intatto, ma sostanzialmente rispettato, la prima significativa deviazione del libretto rispetto al dramma si presenta proprio alla fine del primo atto. Nel dramma di Gutièrrez esso si conclude con il rapimento di Amelia, dopodichè l’intero second’atto è occupato dalla lunga (e un po’ dispersiva…) trattazione delle complicate macchinazioni di Andrea-Gabriele e Pietro-Paolo-Lorenzino contro il Doge e ai danni della povera Amelia. Sta di fatto che, dopo l’agnizione Boccanegra-Maria (si veda più sotto qualche dettaglio) la ragazza, da povera vittima, rapita e sballottata qua e là, diventa invece – con la protezione del Doge, che ha di fatto già smascherato i colpevoli - il motore dell’azione, che si chiude con la resa di Paolo, Andrea e Gabriele e con Lorenzino che scorta personalmente Amelia al palazzo ducale! Sappiamo invece come Piave inventi l’ultima scena del prim’atto, con l’improvviso arrivo a palazzo di Gabriele che denuncia il rapimento accusandone il Doge, e poi di Amelia stessa; e come Boito ancora la modifichi con il potentissimo appello finale di Boccanegra e l’umiliazione di Paolo.        

Torniamo sull’importante differenza riguardo all’agnizione Boccanegra-Maria: Gutièrrez la spalma su due scene addirittura di due atti diversi (1 e 2) e limitando il numero di indizi. Piave invece la concentra mirabilmente in una sola scena del prim’atto, e con un crescendo davvero emozionante (e proprio melodrammatico!) di ricordi, scoperte e indizi.

Molto sommariamente ciò che accade negli atti 3 e 4 di Gutièrrez viene ripreso (con differenze non trascurabili, peraltro) negli atti 2 e 3 di Piave-Boito. Partiamo dal veleno che uccide il Doge. Piave segue diligentemente Gutièrrez, che solo nell’atto conclusivo ce ne notifica (parole di Pietro) la somministrazione al Doge in modo assai criptico e misterioso (l’ampolla palestinese in cui solo il Doge beve nelle grandi occasioni) limitandosi ad un unico verso (Fa cor, tutto disposi) col quale Pietro informa della messa in opera della trappola mortale il sodale Paolo, che a sua volta ne informerà Fiesco (Veleno ardente…)

Qui invece è Boito che cambia radicalmente le carte (e l’assassino materiale) in tavola: non è Pietro (che esce definitivamente di scena) ma proprio Paolo che, nel second’atto, versa personalmente il veleno nella caraffa dalla quale Simone sorseggia acqua prima di coricarsi. Quanto alla sua fine, in Gutièrrez verrà punito da… Fiesco, in Piave scompare prima della scena finale; in Boito viene trascinato in carcere.

Tutto sommato si deve riconoscere ai due librettisti italiani di aver fatto un lavoro più che positivo, nel sostanziale rispetto del soggetto originale. Poi sarà il Peppino a suggellare da par suo (in due tempi!) un’impresa che non sfigura affatto rispetto a più blasonati capolavori.

21 febbraio, 2018

Un Simone di routine alla Scala (gentilonizzata)


Ieri sera: Piazza Scala transennata come neanche a SantAmbrogio. Poliziotti adibiti a maschere-aggiunte cui mostrare il tagliando d’ingresso per poter avvicinarsi al teatro. Ohibò, ci si chiedeva: timori di attentato dinamitardo dell’ISIS? Minacce nucleari dei nord-coreani contro il direttore sud-coreano? Ma no, tutto a posto: c’è solo Gentiloni che, essendo capitato per caso a Milano per sostenere la candidatura di tale Gori a Governatore longobardo, si è fatto invitare dal tenutario-pro-tempore del teatro (tale Sala) nel Palco Reale, così, tanto per vedere l’effetto che fa.

Per la verità il nostro PM è sempre schivo e modesto, e pochi si sono accorti del suo ingresso alla chetichella nel suddetto Palco Reale (ci mancava pure che Chung attaccasse, per par-condicio, Fratelli d’Italia!) Così qualche adepto zelante ha pensato bene di fargli uno spot-tino elettorale. Quando, verso la fine, la regìa di Tiezzi (copiando il DonGiovanni di Carsen) prevede di collocare in quel palco privilegiato il Capitano che declama le sue tre righe di testo, ecco che un occhio-di-bue illumina a giorno il Capitano e, con lui, il  Premier! Evabbè, tanto qui la par-condicio è comunque salva, dato che il nostro è ben visto da (quasi) tutto  l’arco inciucionale costituzionale...
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In questi ultimi anni il corsaro Boccanegra ha infestato veleggiato nel vasto mare del Piermarini con frequenza pari almeno a quella registrata negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso: ben quattro incursioni negli ultimi 8 anni (10-14-16-18). Si tratta della terza ripresa della produzione di Federico Tiezzi, che ha visto sul podio Barenboim, Ranzani e queste ultime due volte Chung. Quanto al protagonista, Domingo si è baritonizzato per le prime tre edizioni, Nucci ha cantato di sua natura nelle ultime tre. 

A parte Nucci, nel cast il decano di queste quattro programmazioni è Ernesto Panariello (Pietro) sempre sul pezzo dal 2010; lo segue Fabio Sartori (Adorno) che torna dopo il 2010 e il 2014; con lui i due accademici Luigi Albani (Capitano) e Barbara Lavarian (Ancella) già in pista nel 2014 e 2016; infine Krassimira Stoyanova (Amelia) e Dmitri Belosselskiy (Fiesco) tornano dopo il 2016. Esordiente il Paolo di Dalibor Jenis. Insomma, una squadra, almeno sulla carta, sufficientemente rodata. 

E ieri sera, alla quinta delle otto recite della stagione, l’affiatamento fra tutti (coro di Casoni e orchestra inclusi) ha prodotto un dignitoso risultato, che un pubblico non oceanico ha accolto con unanimi, pur non esagitati, applausi.

17 novembre, 2014

Ancora Simonacido alla Scala

 

Ieri penultima recita alla Scala del Boccanegra targato Barenboim-Domingo. Quest’anno, a differenza della prima edizione di qualche anno fa, la coppia è relegata (almeno dal punto di vista dei tempi di programmazione) a secondo cast (?!)

Teatro con il solito e un po’ deprimente colpo d’occhio dei palchi occupati forse al 50%, cosa cui andrebbe posto rimedio (a meno che non ci sia un sacco di gente che butta quattrini in abbonamenti e biglietti che poi non utilizza… mah).

Di questo Simone si sapeva ovviamente tutto, fin dal 2010, e poco di nuovo è emerso oggi. Bravo per me Barenboim, che con questo Verdi evidentemente si sente a suo agio, bravi con lui gli strumentisti e bravissimi i coristi di Casoni.

Fra gli interpreti Fabio Sartori è quello che ha convinto di più (per lui l’unico applauso a scena aperta della serata) ma questo già la dice lunga sulla mediocrità del resto. Anastassov ha una voce adatta a salette per pochi intimi (Barenboim lo ha inesorabilmente coperto, specie nella scena finale, e forse questo è l’unico appunto da muovere al Kapellmeister); per lui gli unici buh alla fine. La Serjan direi senza infamia e senza lode, una voce certo adatta al personaggio di Amelia-Maria - né soprano drammatico, né leggero - ma ieri piuttosto opaca e in certi momenti calante. Un filino meglio Rucinski, voce proprio baritonale (!) anche se nell’ottava bassa tende a… sparire. Panariello, Albani e Lavarian come da minimo sindacale (ma a questi ruoli non si chiede di più).

Eccomi quindi al Topone: che può cercare di ingrossare la voce quanto vuole, ma resta sempre un… Gabriele Adorno! Nobbuono davvero, perché a cantare le note giuste sarebbe capace anche… Sartori! E così, col protagonista cantato dal cantante sbagliato, addio Simone. 

Tiezzi non inventa concetti arditi, si lascia andare solo nelle ultime battute, quando ci mostra il popolo in abiti… verdiani e poi il solito specchione che cala dall’alto e si inclina, facendo vedere al pubblico l’orchestra a 45 gradi! (sempre meglio che a… 90, smile!)  

21 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Noseda a Torino

 

Prendendo direttamente il testimone da quello di Parma, il Regio di Torino ha inaugurato la stagione con Simon Boccanegra.


Già la prima di mercoledi 9 trasmessa da Radio3 aveva lasciato (perlomeno a me) una buona impressione, che si è confermata ieri dopo l’ascolto dal vivo della penultima delle otto rappresentazioni.

Spettacolo originale di Bussotti del 1979 (!) ripreso da Vittorio Borrelli: un esempio di come si possa coniugare il rispetto quasi maniacale per il libretto con la modernità di presentazione e di interpretazione. Modernità che nulla ha a che fare con trasposizioni spazio-temporali cervellotiche, né con la ricerca (che spesso è invenzione bella-e-buona) nell’originale di chissà quali reconditi significati filosofico-politico-psicologico-esistenziali.

Credo che pochi spettatori non si siano commossi fino alle lacrime nella scena dell’agnizione Simone-Maria o in quella che chiude l’opera. Naturalmente il merito preponderante è di tale Giuseppe Verdi, basta affidarsi a lui (come ha fatto Bussotti) senza pretendere di migliorarlo per rendercelo più appetibile…

Strepitosa la prestazione delle masse strumentali e corali del Regio: un Noseda che ha tenuto in pugno buca e palco con l’autorità di sempre (ormai il mio concittadino sestese staziona di diritto nell’Olimpo dei Kapellmeister) e un Fenoglio che ha preparato nel miglior modo i suoi coristi. Credo che il Teatro torinese abbia oggi pochi rivali (in Italia, quanto meno) in fatto di standard qualitativi.

Quanto alle voci, note essenzialmente positive, ovviamente con alti e… meno alti.

Su tutti il Fiesco di Michele Pertusi, vocalmente e scenicamente impeccabile. Come quasi impeccabile è stato Ambrogio Maestri, cui purtroppo mancano, come dire, i connotati somatici per interpretare al meglio ruoli che non siano Dulcamara o Falstaff: intendiamoci, la voce c’è e come, è il portamento e persino il suo ghigno naturale che lo rendono poco plausibile in ruoli drammatici, come questo di Simone o come Amonasro, per citarne solo un altro… Anche per lui comunque, come per Pertusi, un grande successo.

Bella sorpresa (ma già in radio si era apprezzata) da parte di María José Siri, voce per me molto adatta al ruolo di Amelia-Maria, ossia abbastanza pesante (in senso positivo): dopo un avvio con qualche incertezza (in Come in quest’ora bruna) non ha fatto altro che crescere, meritandosi applausi a scena aperta e ovazioni finali.

Roberto De Biasio è stato un Adorno appena sulla sufficienza (per me, ovviamente): è giovane e deve sicuramente migliorare; tutto sta a vedere se la strada migliore per farlo siano questi impegni con l’asticella troppo alta

Convincente il Paolo di Devid Cecconi, che non per nulla fa anche Rigoletto nell’attuale produzione del Regio. Un onesto Pietro è Fabrizio Beggi.

I due ruoli decisamente minori erano interpretati da Dario Prola (Capitano) e dalla brava soprano del Coro del Regio Eugenia Braynova (Ancella) che all’ultimo momento ha sostituito la collega Sabrina Boscarato.

Senza voler avanzare paragoni (che sarebbero improponibili date le due diversissime realtà) fra l’edizione di Parma e questa di Torino, mi sento di dire che la scelta parallela dei due teatri ha meritoriamente consentito di riportare in evidenza quest’opera forse ancora troppo poco valorizzata. 

09 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Bignamini a Parma

 

Ieri, nell’ambito dell’annuale Festival Verdi, penultima recita del Simone, in un Regio affollato (ma non proprio esaurito) di un pubblico cosmopolita (tedesco e francese le lingue più diffuse nel foyer).


Si sa che il Simone è opera ostica, cupa, difficile da digerire; persino i pochi momenti di relativa serenità sono velati da inquietudine, presagi oscuri e minacce incombenti. La versione ultima del 1881 poi perde anche quell’unico squarcio di allegria, di giubilo, di festa che animava la parte finale del primo atto, sostituita da quella scena vergata da Boito e stupendamente musicata da Verdi che è un autentico capolavoro, ma che non fa se non aggiungere angoscia ad un dramma di per sé già buio, a dispetto del secolo in cui è ambientato, che vedeva ormai l’avvicinarsi del Rinascimento, evocato proprio nella nuova scena boitiana dal riferimento (involontariamente?) comico al Petrarca.

In più si tratta di un’opera dove l’azione scarseggia, mentre vi tengono banco le più diverse pulsioni dell’animo umano, personali o collettive che siano; e dove persino la trama è ostica e difficile a decifrarsi anche a chi abbia studiato con cura il libretto… Insomma, un’opera di Verdi da approcciarsi quasi fosse il Wozzeck!

La regìa – non nuova - di Hugo de Ana è assolutamente in linea con lo spirito e la lettera del libretto: scene austere e cupe, recanti su un verso bassorilievi di una opprimente monotonia e sull’altro nudi interni di stiva di vascello, dove anche le rare aperture verso il mare creano più disagio che serenità; per il resto, quasi assenza di suppellettili, sostituite da semplici blocchi squadrati; costumi più o meno d’epoca, sufficientemente differenziati fra patrizi e popolani; movimenti di personaggi e masse ridotti al minimo indispensabile.

Inutile dire che con opere come questa il successo o il fallimento della recita dipendono quasi esclusivamente dalle qualità degli addetti ai suoni, a partire dal Concertatore. E devo dire che Jader Bignamini non ha tradito le (mie) aspettative, confermando quanto di buono si vede (e soprattutto si sente) di lui nelle frequenti apparizioni sul podio della sua Orchestra Verdi (a proposito, domani sera ci tornerà per una serata verdiana…) Azzeccate le scelte sui tempi e sull’agogica, precisi gli attacchi e sicura la guida di buca e palco; fracassi solo quanto basta e quando si deve, per il resto un approccio conservativo e senza gigionerìe. Bravo davvero. E bravi i ragazzi della Toscanini, un’altra giovane e bella realtà del panorama musicale padano.

Fra le voci, note positive  per i due grandi vecchi: Roberto Frontali è un Simone convincente, che sa tirar fuori tutta la sofferta personalità del protagonista, nei momenti di appello alla pace e all’amore, come in quelli di spaventevole imposizione d’autorità. Giacomo Prestia è un Fiesco sufficientemente altero e duro, figura scenicamente imponente e vocalmente ancora robusta.

Gabriele è il giovane sudamericano Diego Torre: voce da heldentenor, ancora forse da rodare al meglio, ma ci si sentono già qualità più che promettenti.
  
Ahilei, Carmela Remigio non è un’Amelia convincente: a cominciare dalle caratteristiche della sua voce: il personaggio non sarà proprio da soprano drammatico, ma nemmeno da… Zerlina! E lei invece ha proprio una vocina pigolante e metallica in alto. Già le caratteristiche, per così dire, anagrafiche del personaggio - Amelia-Maria ha passato da parecchio la trentina, che per una donna di fine medioevo significava essere matura assai, se non quasi vecchia (!) – sono tali da escludere una voce e movenze da ragazzina adolescente e ingenua, come purtroppo ci è apparsa la cantante pescarese.

Discreta l’interpretazione di Paolo da parte di Marco Caria, voce potente e ben impostata. Su uno standard più che accettabile anche i tre comprimari: Seung Pil Choi come Pietro, Antonio Corianò (capitano) e Lorelay Solis (ancella).

Sicura ed efficace la prestazione del Coro del Regio di Martino Faggiani.

In definitiva, uno spettacolo che merita ampiamente il caloroso consenso che il pubblico gli ha tributato con ripetute chiamate alla ribalta.

E proprio questa sera parte, a mo' di staffetta, il Boccanegra torinese

04 maggio, 2010

Niente Boccanegra alla Scala

Essendo saltata la recita di questa sera ed esauriti da tempo i posti per l'ultima, invece della mia modesta cronaca farò un paio di considerazioni, come dire, ambientali.

La prima è francamente di costume, e riguarda le contestazioni, a chiunque rivolte. Dalle numerose reazioni che si possono leggere sui vari blog, si deduce che i buuh emessi da chi scrive – chiunque egli/ella sia - sono sempre giustificati, ineccepibili, meritati, doverosi, spontanei e disinteressati: stavolta son toccati a Barenboim, peggio per lui, se li è voluti. Invece i buuh emessi – in altre occasioni, vedi al Gatti di SantAmbrogio-08 - da altri spettatori, sono sempre e matematicamente dovuti a prevenzione, pregiudizio, complotto, sabotaggio e malafede. Ecco, allo stadio e al bar-sport tale Aristotele è molto, ma molto più di casa!

La seconda riguarda nello specifico il Kapellmeister Daniel Barenboim. Si leggono al proposito sofismi di questo tipo. Datosi che:

a. Barenboim conosce solo Wagner e con costui si identifica… e che:

b. Verdi e Wagner sono separati da una distanza stellare… ne consegue automaticamente che:
c. Barenboim si trova a distanza stellare da Verdi, e quindi non può che dirigerlo in modo schifoso.

Peccato che i presupposti a. e b. siano – come minimo - assai difficilmente dimostrabili, quando non apertamente e palesemente falsi. Ergo non può che essere contestabile la conclusione c.

Personalmente io trovo invece che la dimestichezza di Barenboim con Wagner possa essere di grande utilità nell'affrontare questo Verdi. Che non per nulla fu da molti biasimato, ma da altri apprezzato, per aver cominciato a recepire taluni concetti e princìpi del musikdrama del crucco. A proposito del quale sarà il caso di ricordare che mise in pratica, in modo totale e insuperabile, proprio quel recitar cantando - di italica invenzione sul triangolo Firenze-Mantova-Venezia - che invece si era poi andato corrompendo e trasformando in scimmiottar gorgheggiando.

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Una nota anche sugli scioperi, conseguenti alla firma del Presidente, conseguente alla presentazione del Decreto Bondi.

Prima considerazione: abbiamo assistito ancora una volta ad una manfrina all'italiana. Eravamo abituati a quelle del SantAmbrogio scaligero: minaccia di scioperi, poi due finte pacche sulle spalle per mandare in onda la prima e quindi regolari scioperi alla seconda e alla terza, magari intervallati da un regolare concerto della "autonoma" Filarmonica.

Stavolta c'era di mezzo la prima del Maggio, con la Loren già scomodatasi, figuriamoci! E così il compaesano della diva si è prestato al giochetto: rimanda la firma di un paio di giorni, e il Maggio può aprire in gloria, per chiudere subito dopo e – pare – ad oltranza! Spiace davvero che il Presidente, quello buono, si sia abbassato a tanto.

Quanto al Decreto in sé, di certo non fa della beneficenza a nessuno. Parliamoci chiaro: come già per la riforma della scuola della neo-mammina Gelmini, questo è un provvedimento che serve principalmente ed immediatamente a tagliare, quindi non è tanto di responsabilità di Bondi, quanto di Tremonti, che deve avere una paura blu di far la fine della Grecia e – non potendo/volendo prendersela con i suoi amici evasori e mentre l'avanzo primario è diventato, grazie al Governo di cui fa parte, un bel ricordo - cerca tutti gli espedienti per raccattare qualche spicciolo, inventandosi scudi, tagli ed altre simili piacevolezze.

Seconda considerazione: se il Presidente ha francamente scherzato, dando ragione a Berlusconi quando parla di "analisi degli aggettivi" dei testi dei decreti, non da meno hanno fatto i Sindacati. Essendo evidente a tutti che le osservazioni di Napolitano erano una foglia di fico. Sappiamo bene che il Presidente può ottenere una radicale revisione di un decreto, o il suo accantonamento, soltanto se ne paventa la palese incostituzionalità o la palese mancanza di copertura finanziaria. Nulla di tutto ciò nelle osservazioni di Napolitano. E allora i Sindacati – fossero ancora una cosa seria – avrebbero dovuto o confermare tutti gli scioperi, incluso il blocco della prima del Maggio, oppure rimandarli tutti, aspettando i previsti incontri con il Governo. Pollice verso anche per loro, sorry!

26 ottobre, 2009

Placido diventa Simone


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Alla Scala lo vedremo in primavera.
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Sabato ha debuttato a Berlino (Unter den Linden).
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Ma Un tenore resta pur sempre un tenore titola l’autorevole die Welt.
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