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02 luglio, 2018

Battistelli porta Shakespeare alla Fenice


Ieri pomeriggio La Fenice (con ampi spazi deserti nei palchi, ma pure in platea) ha ospitato la seconda recita del Richard III di Giorgio Battistelli, opera che arriva in Italia dopo più di 13 anni dalla sua comparsa sulle scene fiamminghe e dopo aver compiuto altre tappe europee. (Non è dato sapere perchè nel frattempo non si sia pubblicato un DVD, che dico, un CD dell’opera, quasi fossimo tornati all’800, dove però gli organetti di strada supplivano alla mancanza di registrazioni, diffondendo per le piazze le arie e i duetti più famosi. Certo, se si diffondessero oggi con quei mezzi le arie di Battistelli, la gente passerebbe a vie di fatto con gli imprudenti organettari...)

Artefice dello spettacolo il trio Battistelli-Burton-Carsen, che tre anni orsono si è (recidivamente) ripetuto alla Scala con la produzione di CO2. Direttore e concertatore Tito Ceccherini, specializzato in musica contemporanea, che non dev’essere per nulla facile da dirigere ma che - rispetto a Beethoven, Brahms, Mahler e Wagner, dove il vasto pubblico è pronto ad osannare o stroncare l’interprete, ritenendosi preparato sull’autore - mette il direttore al riparo da critiche, dato che il pubblico medio, per scarsa conoscenza dell’autore, fatica a distinguere l’interpretazione del Ceccherini da quella di un Carneade di passaggio. Orchestra che occupava, oltre alla buca a lei destinata, anche i sei palchetti di proscenio (tanto ne restavano vuoti altri 20-30, quindi poco male) per far posto a percussioni, xilofoni, celesta, batteria e sampler (generatore di suoni artificiali, come non bastassero quelli naturali...)

E sulla componente strettamente musicale dell’opera devo in effetti manifestare ampie perplessità: lungi da me richiamare qui i giudizi sommari di tale Fantozzi, dico francamente che essa non è tale (almeno al primo ascolto) da suscitarmi particolari entusiasmi. Certo, quando il soggetto è quanto di più repellente si possa immaginare, allora la musica fatta di atroci dissonanze, fracassi gratuiti e rumori che sostituiscono i suoni sembra apparentemente la più adatta a supportarlo: ma se il teatro musicale degrada a crudo reportage di cronaca nera, credo che abdichi alla sua stessa natura. Nella fattispecie, non bastano (alle mie orecchie) alcuni corali o un finale strappalacrime a riscattare la mediocrità estetica della musica che supporta questo Richard III. Battistelli, come suo solito, impiega di tutto e di più, ma la quantità di mezzi e trovate nella forma spesso maschera la mancanza di profondità dei contenuti.

Invece lo spettacolo non è per nulla da buttare, anzi... grazie a Burton (in realtà Shakespeare) e a Carsen, che sa come presentare il testo di Burton-Shakespeare da par suo. La struttura del dramma è ben articolata, con i tre momenti delle incoronazioni e il ciclico ritorno della Boar-Hunt, all’interno dei quali momenti si accavallano le atrocità del protagonista, i piagnistei delle donne che lo condannano (ma pure lo esaltano) le pavide reazioni di nobilastri imbelli e quelle sempre cieche e telecomandate del popolino. Siamo ancora, lassù in Albione, in pieno medio-evo e sarà proprio l’avvento dei Tudor a far sbocciare anche là un rinascimento, con almeno un paio di secoli di ritardo rispetto a... Firenze.

Carsen, coadiuvato per scene e costumi da Radu e Miruna Boruzescu, ci porta in un ambiente fisso (mosso soltanto dalle luci che vi penetrano da ogni lato) in cui trova spazio una tribuna-anfiteatro sulla quale prendono di volta in volta posto i notabili o il popolo, o gli opposti eserciti delle due rose. In basso, sabbia rossa: insomma, ecco uno spazio adatto a questa particolare versione di sangue-e-arena, la cui cupezza è completata dagli abiti (e occasionalmente dagli ombrelli) rigorosamente neri e perfettamente uguali di tutti coloro che si muovono in scena. Ecco, siamo appunto ancora nei secoli-bui!

Passando agli interpreti, grazie a Carsen la recitazione di tutti, singoli e masse, è di grande efficacia e di sicuro impatto, nulla da eccepire. Sulle qualità vocali dei numerosi personaggi (e meno male che Shakespeare è stato abbondantemente tagliato!) il mio giudizio è più che positivo solo per il Richard di Gidon Saks, il cui vocione potentissimo e perfettamente impostato ha riempito con grande drammaticità lo spazio della Fenice. (Al proposito farò una battuta davvero dissacrante: ma non sarebbe stato più audace, da parte del compositore, affidare questa parte, invece che ad un basso-baritono che è perfetto per Hagen o Hunding, o magari per Jago, ad un castrato o - visto che oggi non ne circolano più - ad un controtenore o falsettista? Chissà se non avrebbe scolpito meglio, vocalmente, la personalità di questo individuo le cui propensioni animalesche dovevano nascondere preoccupanti segni di instabilità...)

Degli altri, note positive per il Buckingham di Urban Malmberg, il Clarence-Tyrrel di Christopher Lemmings e la Anne di Annalena Persson. Assai meno per il Richmond di Paolo Antognetti, vocina piccola e poco udibile. Tutti gli altri su standard accettabili. Bene il coro di Claudio Marino Moretti, sia negli arcani interventi da fuori campo che nelle presenze in scena.

In definitiva, uno spettacolo coinvolgente ma - ripeto, questo è il mio personale giudizio - che ha il suo punto debole proprio nell’ingrediente che dovrebbe maggiormente caratterizzarlo: la musica...

20 maggio, 2015

CO2: miracolosamente illesi

  

Signori miei, con l’anidride carbonica non si scherza: la mia maestra elementare (tale Ortensia, anni ’50 dello scorso secolo!) mi e ci aveva ammonito che restare in un ambiente saturo di CO2 significa la morte certa, non perché CO2 sia un veleno, ma perché si mangia l’ossigeno dell’aria. Per contro, vuoi mettere il piacere che ti dà una dose di anidride carbonica iniettata in una bottiglia d’acqua (o di Coca, o di qualsivoglia altra bibita gasata)?

La buona notizia di oggi è che lo spettatore che in questi giorni si avventura incoscientemente (o con epico sprezzo del pericolo) dentro le vetuste mura del Piermarini ha ottime possibilità di uscirne illeso (o al massimo con sopportabili conseguenze, nulla di irreparabile, ecco…) soprattutto se sta in loggione o nelle file alte dei palchi. Qualche maggior pericolo lo si corre stando in platea (si sa che la CO2 pesa più dell’aria e si addensa in basso): però se riescono ad uscirne vivi anche gli strumentisti (che stanno ancor più giù) significa che ci si può fidare…    

Insomma, il massimo pericolo che si corre è di sbottare come il mitico Fantozzi alla proiezione della mitica Potemkin… ed è ciò che alcuni del pubblico hanno fatto ieri sera alla seconda, pur mantenendo le imprecazioni a livello di confuso borbottìo e senza ricorrere a plateali vaffa. La maggioranza degli spettatori ha invece applaudito calorosamente tutti, autori e interpreti, probabilmente convinta di aver così dato un decisivo contributo alla lotta contro il surriscaldamento del pianeta. (Però poi tutti via a bordo di mastodontici SUV, tanto si è capito che la Gaia è una mamma di manica larga.)

Sì, perchè questa è un’opera-manifesto, o un’opera-denuncia come la si voglia definire. Io però comincerei con il contestarne proprio il genere, poichè opera mi pare un termine un filino impegnativo: per il solo fatto di essere rappresentata in Scala, non è che qualunque pièce si meriti quel riconoscimento, altrimenti dovremo chiamare opera anche la presentazione della stagione 15-16 che un famoso attore (smile!) farà il prossimo 27/5, ore 17. Quindi d’ora in poi, e per mero e doveroso rispetto per le attività di chi lo ha pensato e soprattutto realizzato, lo chiamerò lavoro.

Personalmente sono convinto che l’ecologia e i problemi connessi con la difesa dell’ambiente siano materia troppo importante e seria per essere trattati in questo modo. Già si deve purtroppo diffidare anche degli esperti veri, che spesso e volentieri prendono clamorose cantonate, figuriamoci se dobbiamo dar retta a librettisti, compositori e registi che giocano a fare gli ecologisti!

Che si tratti di un’operazione di pura facciata se ne rende conto chiunque prenda fra le mani il programma di sala, dove si è toccato il livello record di ipocrisia, facendolo per l’occasione stampare - invece che sulla consueta preziosissima e costosissima carta patinata - su carta (simil-?) riciclata!  

Va dato però atto a tutti gli autori di questo lavoro di aver fatto le cose proprio da – come dicono ad Oxford – paraculi! Ian Burton ha collazionato per il libretto una montagna di dotte citazioni, da Al Gore a James Lovelock, passando per testi più o meno sacri delle più svariate lingue e provenienze; Carsen, che di solito va a nozze quando può de-strutturare i DonGiovanni, le Tosche, le Alcine e le Salome, qui pare quasi sprecato, però ci ha messo il suo genio (e le straordinarie foto del suo amico Edward Burtynsky) per rendere accattivanti le diverse scene del lavoro, soprattutto quelle di massa. E infine il più paraculo di tutti (anche per origine geografica!) è il compositore Battistelli, che ci ha propinato una musica sempre addomesticabile, anche se non strettamente diatonica, senza comunque mai superare il confine oltre il quale lo spettatore medio comincerebbe ad innervosirsi.

La struttura del lavoro è un’altra paraculata: pur non essendolo nella realtà (di fatto è una specie di documentario, avendo un oggetto e non un soggetto) non vi manca nulla degli ingredienti dell’opera di teatro musicale come la conosciamo e la intendiamo da più di 4 secoli: presentando arie, concertati, cori, declamati, semplici parlati, intermezzi strumentali e – immancabile, nemmeno si fosse all’Opéra (o a Broadway?) - il balletto!

Insomma, si tratta di una raffinata mistificazione, e come capita per molte mistificazioni, può pure darsi che abbia un futuro: certo non sul piano, diciamo così, politico-maieutico, poiché scorre e scorrerà come acqua fresca su un cristallo; ma magari su quello teatrale sì, essendo spettacolo che sa catturare l’attenzione e le simpatie del pubblico.  

Sul piano dell’esecuzione musicale, finchè uno non ha accesso alla partitura non può nemmeno dire se direttore, orchestra e cantanti abbiano interpretato a dovere ciò che il compositore ha voluto trasmetterci: si può soltanto immaginare e sperare che in un’occasione come questa (presenza in loco dell’autore) le cose siano state fatte con il massimo della cura. Per il resto mi limito a riconoscere a tutti (i cori di Casoni, in primis) di aver contribuito – come detto – a rendere lo spettacolo piacevole e digeribile.

Ancora un commento di carattere generale: la Scala sarà pure (o vorrebbe essere) un teatro di livello internazionale e cosmopolita; poi c’è l’EXPO e quindi il tasso di turisti stranieri presenti in sala aumenta ulteriormente… però qui si rappresenta la prima mondiale di un lavoro commissionato dalla Scala ad un compositore italiano. Recitarlo nella nostra lingua, no? Poi fatene pure una versione inglese o tedesca o francese o russa o cinese o burkina-fasonica quando e se qualcuno deciderà di rappresentarlo in Paesi diversi. Purtroppo questo è un brutto vizio: Quartett di Francesconi (2011) ispirato da un testo tedesco a sua volta ricavato da uno francese, fu scritto (dall’autore italiano) in inglese; peggio successe per Cuore di cane (2013) scritto in italiano da un italiano e presentato in traduzione… russa! Allora diciamo: abbasso lo sciovinismo, evviva il masochismo!

Chiudo con una battutaccia: siamo sotto elezioni, e il prode Battistelli si è candidato a sindaco del suo paesello, Albano laziale. Speriamo che venga eletto, così trasformerà finalmente in zona pedonale anche la SS7 (alias: la gloriosa via Appia, una delle più trafficate e inquinate superstrade fin dai tempi dell’antica Roma) ma soprattutto non gli resterà più tempo per la composizione (tera-smile!)

16 maggio, 2015

Anidride carbonica al Piermarini

 

Radio3 ha trasmesso questa sera la prima della nuova opera di Giorgio Battistelli, CO2, ispirata dal libro di Al Gore sui problemi ecologici che assillano questa povera Terra.

In assenza di (e in attesa di vedere le) immagini - che… immagino siano una componente determinante dello spettacolo di Carsen - che dire dei suoni?

Intanto, l’opera è un moderno Singspiel, dato che include corpose sezioni di puro parlato, principalmente affidate al protagonista David Adamson (un nome… un programma!)

Poi ognuna delle 9 scene (più prologo ed epilogo) ha una sua precisa ambientazione sonora: i tabla nel prologo, il tremolo degli archi nella frustrante scena all’aeroporto, una specie di marcia in quella degli uragani, del contrappunto disordinato in quella al supermercato, lo scolastico tritono (LA-RE#) a sottolineare i disastri da tsunami, e così via.

Le parti cantate impegnano particolarmente i cori (adulti e piccoli) e alcuni interpreti cui sono affidate vere e proprie arie (ma mica certo… casta diva!) come quelle di Adamson e della madre-terra (Gaia) o terzetti (Adamo ed Eva col serpente nell’Eden) o quartetti (di arcangeli e scienziati).

Insomma, l’ascolto radiofonico mi ha messo una certa curiosità, anche se, della musica arrivata via etere, non saprei proprio cosa fischiettare domani mattina sotto la doccia (stra-smile!)   


17 febbraio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 20



Il Direttore principale de laVerdi, John Axelrod, fa il suo ritorno sul podio dell'Auditorium per proporre un concerto (quasi) tutto mozartiano.

Serata che si apre però con una composizione contemporanea, Afterthought di Giorgio Battistelli. Il quale, meditando sugli attentati londinesi del 2005, ha creduto di trovarvi un ideale collegamento con le atrocità evocate dal Richard III - opera da lui appena musicata, a quel tempo, e felicemente rappresentata (grazie a Carsen) in diversi teatri europei (non italiani!) - e ci ha costruito una specie di fantasia sinfonica, impiegandone alcuni temi conduttori.

Fedele allo spirito e ai riferimenti letterari e d'attualità, il pezzo alterna durissime pagine di sonorità cupa (martellamenti e urla strazianti) ad altre di pace quasi straniata, di ebete contemplazione di una realtà (umana e materiale) in disfacimento o – forse – di speranza di intravedere una qualche improbabile luce alla fine del tunnel. (Ma queste sono sensazioni evocate dal titolo e dallo scenario che il compositore stesso ci indica… in assenza dei quali il brano potrebbe essere interpretato in mille altri modi diversi.)

Ora si passa a Mozart, con il solista della casa, Radovan Vlatkovic, che presenta il Terzo Concerto per Corno. Köchel aveva catalogato quattro concerti per questo strumento in un certo ordine (412, 417, 447, 495) che si è poi scoperto essere cronologicamente errato, la sequenza appropriata essendo 417, 495, 447 e 412 (frammento). Quindi il concerto presentato qui è l'unico a mantenere il suo numero (3) in entrambi gli scenari… Però diventa, cronologicamente, l'ultimo concerto per corno completato da Mozart, nel 1787, quindi circa un anno dopo del 495. (Del 412 Mozart compose successivamente, pochi mesi prima di morire, il solo primo movimento, cui l'allievo Franz Xaver Süssmayr aggiunse di suo pugno un Rondò).

Vlatkovic non ha certo bisogno di essere scoperto oggi: tecnica sopraffina, virtuosismo eccezionale (grande la sua cadenza alla fine dell'Allegro) ma anche sensibilità interpretativa e perfetto dosaggio delle sfumature del suono. Un solo peccato: non averci regalato uno dei suoi mitici bis

Ecco poi il pezzo forte della serata, il Requiem del sommo Teofilo, purtroppo restato a livello di torso e quindi - gioco-forza - completato da mani assai più rozze (con tutto il rispetto per l'onnipresente e volonteroso Süssmayr) e passato di mano in mano come una cambiale con cui saldare debiti e pendenze diverse (!)

Bruno Walter in questa singolare (addirittura sbudellante, alla fine) intervista di quasi 60 anni fa non lesina critiche all'allievo di Mozart per la pesantezza della sua strumentazione (ah, quei tromboni!) ma riconosce anche che certa sua musica (in particolare il Benedictus) è un'eccellente realizzazione delle intenzioni del maestro.

Ancora oggi c'è chi si ostina (magari con le migliori intenzioni) a proporre nuove edizioni dell'opera. L'ultimo - ma solo in attesa del… prossimo – è tale Clemens Kemme, che ha rilasciato negli anni scorsi una sua edizione del Requiem, ritoccata (soprattutto) nelle parti esclusivamente di Süssmayr, come il Sanctus e tutto ciò che segue. La si può ascoltare qui, per notare ad esempio l'espansione – tutt'altro che peregrina – proprio del Sanctus. Di certo, l'approfondimento di altre partiture mozartiane permette a qualcuno (o lo illude) di poter indurre come il genio salisburghese si sarebbe comportato, avesse avuto tempo e modo, nel completare il Requiem di suo pugno. Ma l'unica cosa certa è che nessuno mai ci potrà dare (né avvicinarsi a darci) ciò che sarebbe uscito dalla penna d'oca di Mozart. Quindi mettiamoci il cuore in pace e ascoltiamo con devozione quel che ci è arrivato da esattamente 220 anni…

La premiata coppia Axelrod-Gambarini ci ha proposto un approccio assai equilibrato: orchestra non sovraccarica, tromboni e timpani discreti e mai soverchianti (+ Mozart e – Süssmayr, si potrebbe dire) voci perfettamente dosate nei mille chiaroscuri che caratterizzano la partitura. I solisti – nessuno francamente eccezionale – han però fatto la loro parte: il basso Snell e il soprano Gheorghiu un filino meglio del mezzosoprano Shaham e del tenore Leon.

In complesso, una prestazione che non ha sfigurato per nulla (almeno alle mie orecchie) con quella memorabile – seguita in streaming - che ci ha offerto Pappano con la sua SantaCecilia meno di un mese fa.

Meritato quindi il trionfo per tutti quanti, in un Auditorium finalmente affollato, dopo alcuni appuntamenti abbastanza snobbati dal pubblico.

E il prossimo appuntamento sarà ancora con Axelrod, in un programma un po' meno… impegnato.
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