Ieri pomeriggio La Fenice (con ampi spazi deserti nei palchi, ma pure in platea) ha
ospitato la seconda recita del Richard III di Giorgio Battistelli, opera che arriva in
Italia dopo più di 13 anni dalla sua comparsa sulle scene fiamminghe e dopo
aver compiuto altre tappe europee. (Non è dato sapere perchè nel frattempo non
si sia pubblicato un DVD, che dico, un CD dell’opera, quasi fossimo tornati
all’800, dove però gli organetti di strada supplivano alla mancanza di
registrazioni, diffondendo per le piazze le arie e i duetti più famosi. Certo,
se si diffondessero oggi con quei mezzi le arie di Battistelli, la gente
passerebbe a vie di fatto con gli imprudenti organettari...)
Artefice dello spettacolo il trio Battistelli-Burton-Carsen, che tre anni
orsono si è (recidivamente) ripetuto alla Scala con la produzione di CO2. Direttore e concertatore Tito Ceccherini, specializzato in musica
contemporanea, che non dev’essere per nulla facile da dirigere ma che -
rispetto a Beethoven, Brahms, Mahler e Wagner, dove il vasto pubblico è pronto
ad osannare o stroncare l’interprete, ritenendosi preparato sull’autore - mette
il direttore al riparo da critiche, dato che il pubblico medio, per scarsa
conoscenza dell’autore, fatica a distinguere l’interpretazione del Ceccherini
da quella di un Carneade di passaggio. Orchestra che occupava, oltre alla buca
a lei destinata, anche i sei palchetti di proscenio (tanto ne restavano vuoti
altri 20-30, quindi poco male) per far posto a percussioni, xilofoni, celesta,
batteria e sampler (generatore di
suoni artificiali, come non bastassero quelli naturali...)
E sulla componente strettamente musicale
dell’opera devo in effetti manifestare ampie perplessità: lungi da me
richiamare qui i giudizi sommari di tale Fantozzi, dico francamente che essa
non è tale (almeno al primo ascolto) da suscitarmi particolari entusiasmi. Certo,
quando il soggetto è quanto di più repellente si possa immaginare, allora la
musica fatta di atroci dissonanze, fracassi gratuiti e rumori che sostituiscono
i suoni sembra apparentemente la più adatta a supportarlo: ma se il teatro
musicale degrada a crudo reportage di
cronaca nera, credo che abdichi alla sua stessa natura. Nella fattispecie, non
bastano (alle mie orecchie) alcuni corali o un finale strappalacrime a riscattare
la mediocrità estetica della musica che supporta questo Richard III.
Battistelli, come suo solito, impiega di tutto e di più, ma la quantità di
mezzi e trovate nella forma spesso maschera la mancanza di profondità dei
contenuti.
Invece lo spettacolo non è per nulla da buttare,
anzi... grazie a Burton (in realtà Shakespeare) e a Carsen, che sa come
presentare il testo di Burton-Shakespeare da par suo. La struttura del dramma è
ben articolata, con i tre momenti delle incoronazioni e il ciclico ritorno
della Boar-Hunt, all’interno dei
quali momenti si accavallano le atrocità del protagonista, i piagnistei delle
donne che lo condannano (ma pure lo esaltano) le pavide reazioni di nobilastri
imbelli e quelle sempre cieche e telecomandate del popolino. Siamo ancora,
lassù in Albione, in pieno medio-evo
e sarà proprio l’avvento dei Tudor a
far sbocciare anche là un rinascimento,
con almeno un paio di secoli di ritardo rispetto a... Firenze.
Carsen, coadiuvato per scene e costumi
da Radu e Miruna Boruzescu, ci porta
in un ambiente fisso (mosso soltanto dalle luci che vi penetrano da ogni lato)
in cui trova spazio una tribuna-anfiteatro sulla quale prendono di volta in
volta posto i notabili o il popolo, o gli opposti eserciti delle due rose. In
basso, sabbia rossa: insomma, ecco uno spazio adatto a questa particolare
versione di sangue-e-arena, la cui
cupezza è completata dagli abiti (e occasionalmente dagli ombrelli)
rigorosamente neri e perfettamente uguali di tutti coloro che si muovono in
scena. Ecco, siamo appunto ancora nei secoli-bui!
Passando agli interpreti, grazie a
Carsen la recitazione di tutti, singoli e masse, è di grande efficacia e di
sicuro impatto, nulla da eccepire. Sulle qualità vocali dei numerosi personaggi
(e meno male che Shakespeare è stato abbondantemente tagliato!) il mio giudizio
è più che positivo solo per il Richard di Gidon
Saks, il cui vocione potentissimo e perfettamente impostato ha riempito con
grande drammaticità lo spazio della Fenice. (Al proposito farò una battuta
davvero dissacrante: ma non sarebbe stato più audace, da parte del compositore,
affidare questa parte, invece che ad un basso-baritono che è perfetto per Hagen
o Hunding, o magari per Jago, ad un castrato o - visto che oggi non ne
circolano più - ad un controtenore o falsettista? Chissà se non avrebbe
scolpito meglio, vocalmente, la personalità di questo individuo le cui
propensioni animalesche dovevano nascondere preoccupanti segni di instabilità...)
Degli altri, note positive per il
Buckingham di Urban Malmberg, il
Clarence-Tyrrel di Christopher Lemmings
e la Anne di Annalena Persson. Assai
meno per il Richmond di Paolo Antognetti,
vocina piccola e poco udibile. Tutti gli altri su standard accettabili. Bene il
coro di Claudio Marino Moretti, sia
negli arcani interventi da fuori campo che nelle presenze in scena.
In definitiva, uno spettacolo
coinvolgente ma - ripeto, questo è il mio personale giudizio - che ha il suo
punto debole proprio nell’ingrediente che dovrebbe maggiormente
caratterizzarlo: la musica...
Nessun commento:
Posta un commento