XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta elisabetta fava. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta elisabetta fava. Mostra tutti i post

30 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (4)


L’ultimo atto del Ring scaligero – introdotto come gli altri dalla sempre interessante presentazione di Elisabetta Fava – vedeva all’opera due nuovi interpreti, rispetto a quelli della recentissima rappresentazione nella stagione 2012-13 (che aveva anche registrato la defezione di Barenboim alle prime recite). Precisamente un nuovo Siegfried (Andreas Schager a rimpiazzare Ryan) e (in questo secondo ciclo) una nuova Waltraute+Norna2 (Marina Prudenskaya, al posto della Meier).

Dirò che mentre la seconda si è discretamente difesa, mostrando una voce solida e un passabile portamento, il primo è riuscito a far rimpiangere il pur non eccelso Ryan: vibrato sgradevole e difficoltà di intonazione, con calate evidenti, che sono progressivamente emerse con l’andar del tempo, fino al silenzio (almeno alle mie orecchie) sul LA dell’ultimo verso del suo racconto (der schönen Brünnhilde Arm!)

Dagli altri interpreti solo conferme positive: in particolare la Theorin, che ha retto bene, senza ricorrere ad urli, ma anche Grochowski e, nella limitatezza della parte, Kränzle. Pure Petrenko e Samuil, che certo stanno un gradino sotto, non hanno del tutto demeritato, così come la Nekrasova (più una regina-vittoria che una Norna, smile!) e le tre ninfe acquatiche.

Orchestra forse un poco stanca, soprattutto nella sezione critica (ottoni) dove in mezzo a splendide ondate sonore sono emersi qua e là fastidiosi spernacchiamenti. Il coro di Casoni (i maschi ovviamente) ha fatto la dovuta caciara in quel second’atto che è una chiara parodia del GrandOpéra.

Barenboim non ci ha risparmiato qualche elastico nei tempi e qualche eccessivo fracasso a danno delle voci, ma la sua consuetudine con la… materia garantisce sempre prestazioni di rilievo.

Alla fine (pur essendo passata mezzanotte) un interminabile trionfo, non solo alla serata singola ma, credo proprio, a tutto il ciclo. 
___
A proposito di bilanci, lascio ora agli esperti di prassi  interpretativa di spiegarci come e quantunque Barenboim abbia seguito un approccio tradizionalista o moderno, se abbia fatto riferimento piuttosto a Knappertsbusch che a Boulez, se abbia cercato di germanizzare il suono degli scaligeri o di italianizzare Wagner; e se questo Ring nel suo complesso sia da incorniciare fra le reliquie più sacre o da archiviare in solaio con altre suppellettili dismesse… Personalmente ascoltare l’intero ciclo in tempi adeguati – anche a dispetto di regìe insignificanti e di cast non più che dignitosi – mi ha gratificato a sufficienza; perciò, almeno una-tantum, dirò: grazie Scala!

28 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (3)


Un gran temporale (più adatto per la verità allo scenario della Walküre…) scatenatosi su Milano a metà pomeriggio – proprio durante la consueta ed efficace presentazione di Elisabetta Fava - ha introdotto la seconda giornata del Ring scaligero.

Essendo stato dato lo scorso novembre, nel quadro della quadriennale programmazione, del Siegfried si aveva un ricordo ancora abbastanza a fuoco e la presenza dello stesso cast di allora (Uccellino escluso) ha anche permesso di fare qualche confronto a distanza.

Ovviamente le bizzarrìe della regìa sono rimaste tutte al loro posto e non mette conto rigirare il coltello nella piaga. Meglio – a mio personale giudizio – le cose sono andate sul fronte della musica, pur con qualche evidente scompenso.

Barenboim ha un filino esagerato con i tempi, estremizzando lentezze e vivacità: già nella scena della riforgiatura di Nothung e soprattutto poi nel viaggio di Siegfried attraverso il fuoco, dove il tempo era proprio quello di uno che corre all’impazzata per non… scottarsi (smile!) L’orchestra ha avuto qualche sbandamento, come ad esempio nel Preludio del terzo atto, dove per un po’ la voce di tube e fagotti è sembrata scomparire. Poi mi chiedo come mai il corno di Siegfried (parlo del momento topico del second’atto) fosse dislocato al Cordusio invece che in prossimità della scena: si vedeva Siegfried soffiare poderosamente nel suo strumento al proscenio, mentre il suono pareva arrivare dall’aldilà… Come già nella precedente edizione (sarà colpa di Cassiers o di Barenboim?) l’interprete dell’Uccellino, invece che in alto (che so, in uno dei palchi, oppure appesa a qualche trespolo) era dislocata in buca, ottenendo l’effetto comico di un volatile che canta in un pozzo… Alla conclusione del primo atto manca del tutto l’effetto-sorpresa della Nothung che infrange l’incudine: qui per responsabilità soprattutto del regista, ma forse un po’ anche del maestro, che scatena le trombe e poi tutta l’orchestra, coprendo del tutto il RE dello Schwert di Siegfried. Ma anche poco prima lo straordinario effetto delle linee di Siegfried e Mime era stato rovinato dall’assurda postura richiesta al nano, fatto appendere braccia e gambe ad una sbarra orizzontale: la sua voce proprio non si sentiva.

Per il resto buone notizie: Ryan – a parte un paio di calate – ha confermato la sua capacità di tenuta fino in fondo (forse ha dato tutto sapendo che nella Götterdämmerung verrà sostituito!); la Theorin è decisamente più in palla di quanto non fosse al suo debutto lo scorso novembre (lo si era già notato fin dal recente Crepuscolo, oltre che dalla recentissima Walküre); anche la Larsson è stata un’Erda più accettabile, anche se non indimenticabile, rispetto a 7 mesi fa. Note assolutamente positive per Kränzle, credo il migliore nel complesso (e di certo non mi aspetto di essere smentito domani) ma anche per il solido veterano Stensvold, di sicuro il più convincente (tutto è relativo…) dei tre Wotan passati di qui in altrettante serate. Così dicasi di Bronder, un Mime efficace nel canto e nella recitazione (a dispetto di… Cassiers). Senza infamia, ma con poca lode Tsymbalyuk, un Fafner che non fa paura (smile!) Mari Eriksmoen ha fatto bene la sua parte ornitologica, e non è certo colpa sua se doveva cantare da una fossa invece che da una fronda.     

In definitiva, che dire? Personalmente l’emozione che provo ascoltando musica come questa potrebbe essere rovinata solo da interpretazioni davvero sciagurate; in questo caso Wagner è stato messo in condizione di fare in pieno il suo dovere!


Oggi riposo – per gli addetti – e maratona cinematografica per i… paganti.

26 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (2)


Dopo l’Allegro maestoso del Rheingold, eccoci al secondo movimento della Ring-Sinfonie: l’Andante mosso della Walküre (i paralleli sono del compianto Teodoro Celli).

Prima dello spettacolo, la presentazione dei contenuti condotta da Elisabetta Fava presso la Fondazione Cariplo: un bigino dell’opera fatto però con intelligenza e soprattutto mettendo sempre in risalto i contenuti più profondi delle vicende (pseudo)mitologiche che ne sono alla base, e la loro declinazione in termini musicali.
___  
L’apertura di Barenboim è drammatica davvero, anche se le folate dei secondi violini e delle viole (tremolo in corda doppia) sembrano coprire un po’ troppo le semiminime staccate dei violoncelli che evocano la corsa a balzelloni di Siegmund in mezzo alla tempesta.  

Simon O’Neill ha (guarda caso) sempre la stessa voce di due anni fa e gli manca la laurea di Heldentenor: però il suo Siegmund parrebbe migliorato, almeno quanto ad accuratezza di esposizione. La sua cassa toracica è sufficientemente ampia da permettergli un’apnea di 10 secondi sul SOL di Wälse senza scoppiare, né risentirne per il resto dell’opera (ok, ok, muore alla fine del second’atto…) Le sue due arie (Wagner non si offenderà…) non sono propriamente un modello di riferimento, ma l’importante è che trasmettano all’ascoltatore le dovute emozioni.

Waltraud Meier, che ormai veleggia verso i 60, è ancora e sempre una Sieglinde di tutto rispetto, anche se la voce si assottiglia e giù in basso fatica a passare. In ogni caso il duetto d’amore che i due ci propongono resta (certo, grazie al mago Wagner) una delle cose più emozionanti che si vivano a teatro; e Barenboim lo chiude da par suo con un autentico orgasmo orchestrale, prima dello schianto sul LA-SOL che mescola insieme passione e schiavitù.

Nel primo atto compare ovviamente anche lo sbifido Hunding, del quale per la verità Mikhail Petrenko non dà un’interpretazione indimenticabile, avendo una voce non abbastanza truce (in senso estetico, dico). Cosa del resto già emersa (e che fatalmente tornerà) con Hagen.

Irene Theorin si presenta subito con i suoi Hojotohò piuttosto, ehm, selvaggi (smile!) ma in fin dei conti appropriati alle caratteristiche del personaggio, ancora abbastanza goliardiche, prima della drammatica esperienza di vita che la rivolterà come un calzino.

Arriva anche il Wotan di René Pape (che sapremo più tardi essere in condizioni non perfette): fatta salva la sua maestrìa e professionalità, la voce non è proprio quella che ci si aspetterebbe.

Ekaterina Gubanova è la pedante (ma, purtroppo per Wotan, con tutte le ragioni di questo mondo) Fricka. Il loro colloquio-scontro nella prima scena è musicalmente porto in modo eccellente. L’unica critica che mi sento di fare (ma credo sia da indirizzare a Cassiers) è nella piattezza esteriore con cui i personaggi esternano i rispettivi stati d’animo che dovrebbero, per così dire, incrociarsi; all’inizio un Wotan spavaldo e sorridente e una Fricka infuriata; alla fine, Wotan disperato e Fricka trionfante. E in mezzo il progressivo trasmutare degli stati d’animo dei due coniugi. Invece qui assistiamo ad una scena monocorde, dove Wotan sembra già corrucciato fin dall’inizio e Fricka sembra ancora di cattivo umore alla fine, dopo aver cantato quella cosa straordinaria che comincia con Deiner ew’gen Gattin heilige Ehre…        

Da incorniciare invece (voce di Pape a parte, che non ha potuto esplodere come si deve il suo cruccio) la seconda scena, che purtroppo si presta ad essere considerata (soprattutto dallo spettatore superficiale) come un insopportabile mattone: ieri ne è uscito qualcosa di veramente emozionante, grazie anche a Barenboim e alla meticolosità con cui ha fatto emergere di volta in volta dall’orchestra i motivi che accompagnano il drammatico racconto di Wotan e ne evocano mirabilmente lo stato d’animo dissociato.

Dopo la movimentata terza scena, dove la Meier interpreta egregiamente i sensi di colpa di Sieglinde e le sue funeste previsioni, ecco l’incontro di Brünnhilde con Siegmund, un’altra delle pietre miliari dell’opera, culminante nel prodigioso mutamento di registro nella mente della Valchiria. Barenboim qui fa uscire dai violini tutta l’inebriante carica di entusiasmo, ebbrezza, amore e sollecitudine che ha invaso corpo e anima di Brünnhilde, musica che lascia sempre senza fiato e ti fa salire un groppo in gola.

Purtroppo la regìa rovina abbastanza la scena della morte di Siegmund, con quella stupida esagerazione del colpo di grazia che Hunding assesta ad uno che è già morto… Per fortuna salva tutto la musica: straordinario, all’inizio, l’intervento dei violoncelli ad esporre il tema della Primavera, prima dell’udirsi dei corni di Hunding.

La cavalcata che apre l’atto conclusivo è sempre un kolossal, ma forse ieri lo è stato un po’ meno del dovuto, chissà: mi è parso che le sezioni più pesanti (tromboni e tuba) fossero appunto meno pesanti del dovuto. Non strabilianti nemmeno le otto sorelline di Brünnhilde, piuttosto vocianti che cantanti.

Ma in fondo le preziosità vengono dopo, a cominciare dal momento dell’annunciazione che Brünnhilde fa a Sieglinde della prossima maternità, dove Theorin e Meier si sono superate, sull’apparire del tema di Siegfried e di quello della (cosiddetta quanto millantata) Redenzione.

E poi con la lunghissima scena conclusiva, costellata da momenti di musica uno più sbudellante dell’altro. Pape, di cui nel secondo intervallo era stata annunciata un’indisposizione, ha probabilmente tenuto tirato il freno per evitare guai (efficace il triplice Leb’wohl, un poco meno il colossale Wer meines Speeres Spitze fürchtet) tuttavia il suo mestiere gli ha consentito di portare fino in fondo e in modo più che onorevole il suo compito, ben assecondato da Barenboim che ha illuminato l’Incantesimo del fuoco con fantasmagorici bagliori (magari fin troppo accesi, nei due ottavini).

Un interminabile tripudio ha salutato la (prima!) giornata: certo dovuto anche all’eccezionalità dell’avvenimento (di Ring-come-a-Bayreuth la Scala ne fa uno al secolo…) ma credo anche all’obiettiva qualità – non ineguagliabile, sia chiaro – della performance.  
___ 

Adesso una pausa (come a Bayreuth…) con Luchino Visconti e il suo memorabile Ludwig.
  

25 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (1)


Dopo il primo, andato in scena dal 17 al 22, ecco al via il secondo ciclo del Ring scaligero.

Nell’ambito delle varie iniziative collaterali e di supporto all’offerta teatrale, le quattro giornate sono precedute da conferenze introduttive, ospitate nella prestigiosa sala dell’Auditorium Giacomo Manzù presso il Centro Congressi Fondazione Cariplo, a due passi dal teatro. A tenerle, accompagnandosi al pianoforte, è Elisabetta Fava, che ieri in meno di un’ora ha percorso le quattro scene del Rheingold con grande chiarezza ed efficacia: un’iniziativa davvero lodevole.

In teatro (il Piermarini presentava qualche posto vuoto) le cose sono andate discretamente bene: non certo per merito della regìa di Cassiers, di cui si sapeva e si era visto tutto, quindi al riguardo nessuna sorpresa, solo la persistente considerazione: la classica montagna (di quattrini!) che partorisce un topolino.   

Accettabile nella media la prestazione musicale: sopra la media Barenboim (cui magari avrei chiesto più… fretta) e l’orchestra, cui l’allenamento intensivo pare abbia giovato assai, e la coppia Johannes Martin Kränzle (Alberich) e Stephan Rügamer (Loge). Nella media il Wotan di Michael Volle (dopo una falsa-partenza…) la Fricka di Ekaterina Gubanova e il Fasolt di Iain Paterson. Un po’ sotto tutti/e gli/le altri/e.
___

Dovendo rivedere (o meglio… risentire) il film di questa vigilia, citerei la cupa immobilità dell’attacco dei contrabbassi prima dell’arrivo delle ondate degli otto corni, che sono tanto mirabilmente vergate in partitura, quanto sempre difficili da rendere al meglio: dopo le prime due esposizioni disgiunte del tema (corni 8 e 7) abbiamo l’accavallarsi (a canone) delle onde, con quattro corni (da 8 a 5) che espongono le quattro battute del motivo (i primi 7 armonici naturali, tutte note della triade fondamentale di MIb, dalla tonica alla mediante due ottave sopra) sfalsati fra loro di due battute; quindi gli altri quattro corni (da 4 a 1) che cominciano ad entrare una battuta e mezza dopo il corno 5 e sfalsati fra loro di una sola battuta; infine la mutazione del tema (con la salita alla dominante superiore) per prima nel corno 8 (poi nel 4, nel 6, poi 3, 7, quindi 2, 5 e 1) e la successiva discesa. Ecco, essendo otto linee a canone, ma tutte costituite dalle note della triade, è persino difficile percepire – con tutto il rispetto per gli strumentisti! – se le successive entrate vengano eseguite precisamente come scritte… e anche ieri sera l’orecchio (il mio, quanto meno) non ne è rimasto pienamente appagato.    

Da incorniciare invece tutta la prima scena, con punte di grande emozione nella serenata di Flosshilde (Wie deine Anmuth mein Aug’ erfreut…) e nella blasfema quanto drammatica esternazione di Alberich (Erzwäng’ ich nicht Liebe…) fino all’impressionante So verfluch’ ich die Liebe! che segna la fine all’Eden e l’inizio della tragedia dell’umanità.

Qualche disagio all’entrata di Wotan (Vollendet das ewige Werk) chiusa da un affrettato e stentato hehrer herrlicher Bau! E anche Fricka non (mi) ha emozionato più di tanto, in quella perla che è herrliche Wohnung, wonniger Hausrath. I due si sono ripresi nel seguito, in specie Wotan, che ha acquisito più… autorevolezza (smile!)

Impressionante invece l’entrata dei giganti, dove timpani e tuba hanno letteralmente fatto tremare il teatro! Ben esposte le ansie amorose di Fasolt, un po’ meno le brutali maniere di Fafner.

Fantastica, proprio da sbudellamento, l’introduzione degli archi al racconto di Loge (So weit Leben und Weben) ed altrettanto mirabile la chiusa, con il fiorire di Freia e la stupefacente cadenza dell’oboe.

Dopo una parte finale non proprio brillantissima della seconda scena, efficace la transizione verso Nibelheim, dove abbiamo ritrovato un Alberich davvero convincente e un Mime piuttosto insipido. Efficacissimi i ritorni del trionfo di Alberich e musicalmente riuscite le sue due trasmutazioni, fino alla cattura, con il tema dell’anello che si avvita su se stesso…

La scena conclusiva ha – per sua natura – qualche momento di… caduta di tensione, dopo la liquidazione di Alberich e la sua drammatica (e splendidamente resa) maledizione. Da incorniciare però il meraviglioso ritorno – a canone – del tema delle Goldnen Äpfel che introduce l’aria (per così dire) di Froh, Wie liebliche Luft, che personalmente avrei gradito un po’ meno… letargica (smile!)

Sempre emozionante il momento dell’apparizione di Erda (qui era meglio chiudere gli occhi, causa Cassiers, che la trasforma in uno spaventapasseri…); un po’ tirato via l’Hedà-Hedò di Donner (fra l’altro non mi è parso di udire il singolo colpo di martello che lo chiude) e un filino coperto dagli ottoni lo sfavillare delle sei arpe che accompagnano la vista del ponte-arcobaleno.

Grandiosa l’entrata della tromba sulla Spada e strappalacrime il lamento finale delle Figlie del Reno. Un pochino in ombra la tubette nella poderosa cadenza finale, sovrastate dal peso degli altri ottoni.    
___

In definitiva: un promettente primo movimento di questa colossale sinfonia che va sotto il nome di Ring.

Pubblico generosissimo di applausi e bravi! per tutti.