XIV

da prevosto a leone
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08 aprile, 2019

Xerxes a Modena


Al Pavarotti di Modena è andata in scena ieri la seconda recita del Serse di Händel, già collaudato a ReggioE. la scorsa settimana e in procinto di approdare a Piacenza la prossima e a Ravenna in futuro.

Queste 15 battute, che introducono l’arioso di Serse (Ombra mai fu...) sono con tutta probabilità - insieme alle 38 batture che seguono (appunto l’arioso) - fra le più conosciute di tutta la storia della musica. Ma la loro notorietà è pari soltanto alla totale ignoranza che il vasto pubblico ha dell’Opera in quanto tale, finita per due secoli nel dimenticatoio, dopo le rappresentazioni del 1738, ed ancor oggi di rara riproposizione.

Per di più, questo famoso ed orecchiabile brano viene suonato e cantato proprio all’inizio dell’Opera, col che fa l’effetto (scusate se scendo ai bassi livelli) di un’eiaculatio-precox (in latino suona meno volgare) dopo la quale seguono due ore e mezza di... noia.

No, effettivamente stavo un filino esagerando, e devo dire che i quasi 50 numeri che seguono (salvo tagli di prammatica) non sono certo da buttare alle ortiche: si tratta pur sempre di Händel, in fin dei conti! 

Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!) 

Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato: 


Serse
Arsamene
Romilda
Amastre
Atalanta
Serse


concupisce
promesso a

Arsamene


ama

concupito da
Romilda
concupita da
ama



Amastre
promessa a




Atalanta

concupisce




Le due coppie di celle colorate rappresentano la stabilizzazione finale dei rapporti interpersonali: come si nota, in questa particolare versione del gioco dei quattro-cantoni, è la povera Atalanta a restarci in mezzo, mentre quelle che si formano alla fine (Serse-Amastre e Arsamene-Romilda) sono le due coppie già di fatto destinate ad unirsi fin dall’inizio. In mezzo, la trama dell’opera presenta le azioni destabilizzanti di Serse e Atalanta e le mille peripezie - intrighi, falsi ideologici, calunnie, tentati suicidi e molte altre nefandezze, con qualche rara buona azione - che portano alla normalizzante conclusione. 
___ 
La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:


aria
arietta
arioso
duetto
recitativo
coro
tot
tot
Serse
2-2-2
1-0-0
1-1-0
0-2-0
1-0-0

5-5-2
12
Romilda
1-3-1
2-0-0
1-0-0
0-1-1
0-1-0

4-5-2
11
Arsamene
2-2-1

0-1-0
0-0-1


2-3-2
7
Atalanta
2-3-0
0-0-1
0-1-0



2-4-1
7
Amastre
1-2-0
0-0-1
1-1-0
0-1-0


2-4-1
7
Elviro

1-2-0
0-1-0



1-3-0
4
Ariodate  
1-0-1





1-0-1
2
Coro





1-1-2
1-1-2
4
tot
9-12-5
4-2-2
3-5-0
0-2-1
1-1-0
1-1-2
18-23-10
51
tot
26
8
8
3
2
4
51


La colonna dal titolo recitativo riporta soltanto il numero di recitativi accompagnati. Ma l’opera include anche una gran massa di recitativi secchi: 14, 15 e 8 rispettivamente, nei tre atti.

Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.

Le voci. In assenza dei castrati, che spopolavano ai tempi di Händel, già dall’800 (vedi le edizioni critiche di Friedrich Chrysander) i ruoli dei fratelli Serse e Arsamene furono assegnati a voci femminili (soprani e/o mezzosoprani) en-travesti. E così avviene anche in questa produzione.

Lo specialista Ottavio Dantone (che - more solito - ha anche smanettato al clavicembalo, dirigendo spesso con le... spalle) ha sforbiciato non poco, a cominciare da un certo numero di recitativi secchi; poi, non avendo in cast il coro, ha eliminato 3 dei 4 brani ad esso assegnati, per fortuna recuperando l’ultimo (e anche il più corposo, che oltretutto sigilla il lieto-fine) affidato assai intelligentemente alle 7 voci soliste. Quanto ad arie e consimili ha effettuato i seguenti sconti ai cantanti: nel primo atto la seconda strofa e la ripresa dell’aria di Serse Più che penso; nel secondo un breve arioso di Atalanta (A piangere ogn’ora); poi ha soppresso la seconda strofa e il conseguente da-capo dell’aria di Atalanta Dirà che non m’amò; quindi l’arioso di Arsamene (Per dar fine alla mia pena) e la successiva aria (con da-capo) Sì la voglio; infine l’aria con da-capo che chiude l’atto (Chi cede al furore, di Romilda); nel terz’atto la seconda strofa e il da-capo dell’aria di Serse (Per rendermi beato).

Ecco perchè le circa 2h50’ nette di un’esecuzione integrale qui si riducono a 2h40’ includendo anche i 20 minuti dell’intervallo, il che significa almeno mezz’ora di musica lasciata per strada. Ma tanto avevo cominciato col dire che, dopo l’Ombra era tutta una noia, giusto? Ovviamente no, scherzavo e devo dire che questi tagli sono sempre dolorosi, anche se (e proprio perchè) ciò che si è suonato, cantato e ascoltato merita largo apprezzamento e giustifica ampiamente (almeno per le mie tasche) il costo di ingresso e trasferta.

La durata ridotta dello spettacolo ha suggerito ovviamente di dividerlo in due anzichè in tre parti: così l’unico intervallo si ha a circa metà del second’atto, dopo l’aria di Romilda (É gelosia). Al termine del primo atto solo una breve sosta, più che altro per consentire ai bravissimi strumentisti dell’Accademia Bizantina di rimettere a punto l’accordatura degli archi (che su strumenti d’epoca è sempre problematica).

Fra le voci metto su tutti la bravissima Monica Piccinini, una convincente Romilda, e con lei l’autorevole Serse di Arianna Vendittelli e il fratellino Arsamene di Marina De Liso. Ma bene han fatto anche gli altri quattro: efficaci i due bassi Luigi De Donato (Ariodate) e Biagio Pizzuti (che come Elviro fa anche il buffo...); discrete l’Atalanta di Francesca Aspromonte e l’Amastre di Delphine Galou (cui alzerei il voto se lei alzasse di più la... voce!)
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Gabriele Vacis firma la regìa, coadiuvato da Roberto Tarasco per scene, costumi e luci, e dal suo aiuto Danilo Rubeca. Contrariamente ad altre opere di barocco-magico, qui nel Serse c’è poca o nulla azione e nessun mirabolante avvenimento, se si esclude il crollo del famigerato ponte, di cui si fatica a giustificare la presenza (e infatti in questa produzione è convenientemente cassato).

Per di più la ridotta presenza (qui poi annullata del tutto) di cori priva il regista del classico strumento utile a movimentare la scena. Così la regìa diventa un’impresa non da poco, e Vacis ricorre ad una soluzione di fatto semi-scenica: orchestra sollevata quasi al livello del proscenio, dove sono schierati i cantanti che - invece di entrare e uscire dalle quinte come si fa di solito in caso di rappresentazioni in forma concertante - restano lì in bella vista, ma accomodati quasi fossero nei loro camerini, davanti a toilettes e specchiere.

La mancanza di azione viene affrontata facendo intervenire, ad un livello assai più alto (almeno 2 metri) rispetto al palcoscenico, dei ragazzi figuranti che riempiono lo spazio con movimenti e spostamenti di oggetti più o meno (soprattutto meno, direi) relazionati con ciò che i protagonisti si stanno raccontando in musica. Di tanto in tanto lo schermo che separa i cantanti da ciò che li sovrasta serve a proiettarvi immagini suggestive, come quella del gigantesco platano che Vacis ha scovato a Torino e che pare abbia precisamente la stessa età del Serse! 

Insomma, trovate se non altro poco invasive e disturbanti per ravvivare la scena. I simpatici costumi e l’efficace l’impiego delle luci hanno contribuito a rendere più che godibile lo spettacolo, accolto alla fine dai convinti applausi del pubblico che affollava il Pavarotti in ogni ordine di posti.

28 aprile, 2012

Rinaldo torna in campo a Reggio Emilia


Dopo le recite di Ravenna e prima di quelle di Ferrara, ecco la ripresa al Teatro Valli del Rinaldo in una produzione firmata PierLuigi Pizzi. Figlia di quella che proprio al Valli riportò l’opera in Italia nel 1985, e poi presentata anche alla Scala-Arcimboldi nel 2005. E come là, è sempre Ottavio Dantone a dirigere questo classico esemplare di opera del barocco magico, ma qui con la sua Accademia Bizantina. Opera che lo scorso dicembre avevamo ascoltato – in forma concertante – eseguita da laVerdi barocca all’Auditorium di Largo Mahler. 

Opera somma, figlia del recitar-cantando, mamma del bel-canto e nonna di Wagner! Di cui la messinscena di Pizzi ci restituisce tutta la freschezza, la nobiltà e la raffinatezza. Dove anche i personaggi e le scene più truci sono trattati e presentati – precisamente nello spirito dell’originale - con grande senso estetico, grande misura e soprattutto grande poesia. Sappiamo che in queste opere la trama – per quanto paludata (da Tasso, nella fattispecie) – non è che un mero supporto per musica e canto (si racconta che i testi delle opere di Händel venissero scritti sulla musica già composta, e non viceversa! e come il Rinaldo in particolare sia infarcito di imprestiti da altre composizioni) e quindi è sacrosanto che siano musica e canto ad essere messi al centro dell’attenzione.

È proprio ciò che fa Pizzi con la sua messinscena: gli interpreti addirittura non si muovono (meglio: vengono mossi come pedine su una scacchiera, appollaiati su alti trespoli, o su giganteschi cavalli, o dentro a navicelle, quasi a mostrarsi nella loro ieraticità immateriale) nè si toccano, ma si limitano, appunto, a cantare le stupende arie (i recitativi secchi sono ridotti al minimo in questo allestimento). Anche tutto l’armamentario magico, che era funzionale ai gusti e alle aspettative dell’epoca, non viene certo riproposto oggi in modo pedestre (il che non avrebbe senso) ma con un misto di sorriso e di garbata ironia e soprattutto con grande buon gusto.

Insomma, un modo intelligente e assolutamente moderno di presentare opere come questa, senza bisogno di snaturarne i contenuti o di distrarre lo spettatore con invenzioni gratuite. Non per nulla Pizzi è stato – con Dantone - il più osannato alla fine dello spettacolo, che dopo 27 anni di onorata carriera ancora mostra di essere pienamente vivo e vegeto (domanda tendenziosa: quanti degli allestimenti intelligenti dei registi di avanguardia saranno ancora riproposti e osannati in questo modo nel 2039?)   

Sul fronte musicale, i tagli e gli aggiustamenti ci sono, non sono pochi né indolori (purtroppo!) ma l’approccio della coppia Pizzi-Dantone è tutto sommato simile a quello della coppia originale Hill-Händel, che ad ogni recita modificavano, tagliavano o aggiungevano qualcosa a seconda dello scenario di interpreti, pubblico e teatro.

Sparisce così addirittura Eustazio, che non sarebbe propriamente un personaggio minore, godendo di ben 5 arie (2+2+1 nei 3 Atti)! Però almeno una delle sue arie (Siam prossimi al porto) viene trasferita al fratello Goffredo, così non si butta e… rimane comunque in famiglia (smile!) Per il resto, le principali manipolazioni sono: espunte quattro arie del suddetto Eustazio, tre di Goffredo, due di Rinaldo e una di Argante. Poi spostata dal primo al second’atto Cara sposa (Rinaldo), anticipata Abbruggio, svampo e fremo (Rinaldo) prima dell’aria di Almirena (Lascia, ch’io pianga) e posticipato il duetto Armida-Argante del finale a dopo l’aria di Almirena (Bel piacere e godere).

Così l’intera opera – suddivisa in due blocchi, atto I e poi II-III – non supera di molto le due ore di durata netta, contro le almeno 2h 45’ di un’edizione standard. Peccato perché si perde davvero della grande musica…

Quanto al sesso, gli interpreti - in penuria di castrati (smile!) - sono quasi tutti al loro posto, tranne il Rinaldo en-travesti e il Goffredo, en-travesti al quadrato(!)

Proprio all’ultimo momento viene meno il-la protagonista: Marina De Liso deve dare forfait e viene sostituita da Delphine Galou. La quale fa evidentemente del suo meglio, date le circostanze, ma certo non può inventarsi una voce che non ha (parlo soprattutto dell’ottava bassa, poco udibile anche dalle prime file). Per lei applausi di stima per l’abnegazione. L’Armida di Roberta Invernizzi ha mostrato più le doti di temperamento da vera maga, che quelle canore (smile!) dove ha invece lasciato a desiderare con urlacchiate poco… händeliane. Bene invece Maria Grazia Schiavo nei panni di Almirena. Su un livello (per me) più che accettabile Krystian Adam (Goffredo), Riccardo Novaro (Argante) e Antonio Vincenzo Serra (Mago). Completano dignitosamente  il cast William Corrò (Araldo) e Lavinia Bini (Donna e Sirena in un colpo solo!)

Di alto livello la prestazione dell’ensemble di Dantone, composto da autentici virtuosi e guidato in modo impeccabile dal Direttore.

Encomiabili infine le prove dei non-addetti-al-canto: le furie-sirene Cristina di Paolo e Adriana Ilardi e la squadra di bravissimi movimentatori dei trespoli che reggono protagonisti e mostri assortiti.  

Insomma, un bellissimo spettacolo e una bella serata, che il pubblico del Valli (qualche buco qua e là…) ha accolto con minuti e minuti di ovazioni.