XIV

da prevosto a leone
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06 febbraio, 2025

La prima giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La marcia di avvicinamento al ciclo completo del Ring, affidato (per l’allestimento) a David McVicar, è iniziata lo scorso ottobre con la vigilia (Das Rheingold) e prosegue ora con la prima giornata (Die Walküre).

[Poi riprenderà con Siegfried (giugno) e Götterdämmerung (febbraio 2026) per approdare alla meta (due cicli completi nelle due prime settimane) a marzo 2026, con qualche mese di anticipo sulla (storica?) ricorrenza dei 150 anni dall’apertura del baraccone Festspielhaus di Bayreuth.]

Tutta (o quasi…) la produzione di Wagner è (o pretende di essere, nella immodesta concezione dell’Autore) portatrice di concetti estetici, ma anche etici, filosofici, politici e, soprattutto, psicologici. Ecco: Die Walküre è forse la punta di diamante di questa impostazione di fondo. E ciò spiega l’ingombrante presenza al suo interno di lunghi sproloqui infarciti di sofismi, di questioni a sfondo esistenziale o politico; di domande che tirano in ballo di volta in volta il libero arbitrio dell’Uomo, o i vincoli imposti dalle leggi allo stesso legislatore, e le contraddizioni in cui cade persino il potere costituito, macchiatosi di peccati originali che finiscono per minarne le fondamenta, con esiti addirittura autodistruttivi. E poi tirano in ballo questioni legate ai rapporti familiari: in particolare a quelli fra marito e moglie e fra padre e figlia. E all’evoluzione psicologica che ne deriva su tutti i principali personaggi della storia.

Purtroppo, il prezzo che lo spettatore deve pagare per apprezzare fino in fondo l’essenza di questi drammi (scongiurando rischi di reazioni di rigetto a fronte di un approccio passivo al loro fruimento) è lo sforzo necessario a sviscerarne, o almeno ad individuarne, il sostrato concettuale. La differenza fra i testi di questi, e in particolare di questo dramma wagneriano, e quelli di quasi tutti i libretti d’opera, anche i più raffinati, è che qui non basta leggerli e comprenderli, ma è necessario farci una preventiva esegesi approfondita (facendosi magari aiutare da che già l’ha compiuta…) e spesso collegandone i contenuti ad altri che sono venuti originariamente alla luce (anche musicalmente, tramite i cosiddetti Leit-Motive) addirittura in drammi precedenti!

In ciò sta, a seconda dell’approccio dello spettatore, la grandezza di queste opere o il loro limite più pesante: essere caratterizzate (per parafrasare una simpatica battuta di Rossini) da qualche sporadico momento di musica accattivante annegato in esasperanti mezz’ore di menata-di-torrone!

Capisaldi del dramma sono le parallele evoluzioni di Wotan e Brünnhilde: il primo passa dall’orgogliosa sicurezza (sul suo piano di consolidamento del potere) alla tragica realizzazione del suo fallimento. A beneficio di qualche regista, è curioso scoprire, in riferimento alla nostra attualità, come l’IA, tramite la sua ricerca profonda, risponda (in 56 secondi) alla domanda: Trump è come Wotan? Quanto alla figlia prediletta del dio supremo, assistiamo al suo passaggio dallo stato divino a quello umano, indotto proprio dall’incontro con i due umani che si ribellano al padre divino, provocandone la disfatta in forza dell’amore.

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David McVicar ha perseverato nel suo approccio, già palesatosi in Rheingold, di mantenersi su una posizione equidistante fra una frusta tradizione e una spinta modernità, sperando con ciò di accontentare tutti. Il risultato è stato quasi fallimentare, vista l’accoglienza ostile che ha accompagnato lui e il suo team all’uscita finale.

Scene quasi spoglie, con pochi oggetti simbolici: il frassino con la spada ivi conficcata; ambiente inospitale per i drammatici eventi del second’atto; un’enorme testa supina (di Wotan?) che alla fine si apre per mostrare una delle tre grandi mani già comparse all’inizio del Rheingold, sulla quale Wotan adagia la Valchiria addormentata.

Per il resto, qualche discutibile trovata: l’intera masnada di Hunding che irrompe nella di lui stamberga; i corvi di Wotan che svolazzano all’inizio del second’atto; gli arieti di Fricka, impersonati da due figuranti che trascinano faticosamente (in discesa!) la dea; Grane impersonato da un figurante che si muove a balzelloni su protesi agli arti inferiori (simili a quelle degli atleti paralimpici) così come gli otto cavalli delle Valchirie (un gruppo LGBTQ+, tutti maschi!); Hunding che dà un secondo colpo di grazia a un Siegmund che insiste a non morire sul primo colpo. Più plausibile il Wotan che, al momento di uscire di scena, si veste da Viandante, come lo vedremo… a giugno.

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Simone Young forse pensa di trovarsi ancora giù nell’Orchestergraben di Bayreuth, da dove i suoni faticano ad emergere fino alla sala: così tiene un volume mediamente più alto del dovuto, il che provoca qualche problema ai dettagli, e soprattutto rischia la copertura delle voci. Per lei, comunque, un’accoglienza tutto sommato positiva.

Come quella per l’intero cast delle voci. A partire dal navigato Michael Volle, che ci ha riproposto un solido Wotan, voce e presenza scenica autorevoli, grande efficacia nel proporci tutte le diverse, e opposte, sfaccettature della personalità del dio: una perla il suo Leb’wohl.  

Franco successo per Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace di emozionarci nella sua umanissima scoperta del valore e della vera natura dell’amore umano; e nel suo dignitoso porsi nei confronti del padre.  

Elza van den Heever è una solida Sieglinde, commovente nei suoi slanci amorosi, come nel senso di colpa e, infine, grande nel momento culminante di quell’O hehrstes Wunder, le cui note ritroveremo solo alla fine di Götterdämmerung!

Siegmund è Klaus Florian Vogt, non proprio un Heldentenor (anche se ormai si cimenta anche in Siegfried…) ma che come Siegmund non sfigura proprio, restituendoci, con la sua voce di tenore lirico, il personaggio del giovane che il padre costringe ad una vita assai grama, per poi addirittura condannarlo a morte!   

Okka von der Damerau  è una solida Fricka, cui il regista forse toglie un poco della moglie petulante e noiosa, mostrandocela come una gattina morta che vuol convincere il marito con qualche moina. Il suo momento più forte (Deiner ev’gen Gattin heilige Hehre) mi è parso poco efficace (la Young forse ha qualche colpa…)

Lo Hunding di Günther Groissböck ha ben meritato, forse gli è mancata un poco più di… cattiveria musicale (in quella scenica invece il regista ha persino esagerato).

Le otto Valchirie, che tengono banco con il loro parapiglia nella prima scena dell’atto finale, hanno svolto più che bene il loro non facile compito.

Che dire, in conclusione? Nulla di storico, ma uno spettacolo che merita ampia sufficienza, che il pubblico (non proprio da tutto-esaurito…) ha accolto (regista a parte) con unanimi ma contenuti consensi. Resta da chiedersi se la Scala possa fare di più.

 

29 ottobre, 2024

Das Rheingold alla Scala.

Ieri sera alla Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24 e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.

Abbiamo quindi vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà dello schizzinoso Christian?)

Ma insomma, la Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.

Orchestra in discreta forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da mettere a punto anche il grandioso finale.

Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.

A partire dai tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata, petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.

Degli altri, da promuovere il gineceo: la Freia di Olga Bezsmertna, la Erda di Christa Mayer (qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez, Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll, Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava da dietro le quinte.

Così-così gli altri maschietti: Ólafur Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine (forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).

I due dèi residuali, Froh (Siyabonga Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’ meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale, optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati (lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.

Sul sipario che separa le quattro scene compare un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello? Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché, appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di dubbia interpretazione.

Giù a Nibelheim campeggia un enorme teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe, indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.

La scena della consegna dell’oro ai giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una lontra ammazzata da Loge…

Altra idea portante della messinscena: figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono: l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi e filosofici racconti e concetti.

Insomma, tante idee che forse mascherano l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per uno)!

Per tutti gli altri, applausi più o meno convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.

Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è l’attenuante Thielemann, daccordo…) 

18 settembre, 2024

Chailly e i Gurre alla Scala

Ieri sera la Scala - affollata, ma non proprio esaurita - ha ospitato il terzo ed ultimo dei concerti dedicati da Riccardo Chailly alla riproposta dei monumentali Gurre-Lieder di Arnold Schönberg (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) che non risuonavano nel teatro da più di 10 lustri (Mehta, 1972 e 73). Da parte sua, Chailly ci ha lasciato una pregevole registrazione dell’opera, datata 1990 a Berlino.

Per l’occasione, al Coro della Scala (Alberto Malazzi) si è aggiunto quello – altrettanto prestigioso – della Radio Bavarese (Peter Dijkstra).

Le voci protagoniste erano Andreas Schager (Re Waldemar) e Camilla Nylund (Tove), affiancati da Okka von der Damerau (Waldtaube), Michael Volle (Bauer e Sprecher) e Norbert Ernst (Klaus Narr). Come si vede, un cast davvero di prim’ordine.
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È lo Schönberg che transita dal tardo-tardo-romanticismo (1900, stesura originaria della composizione) verso l’atonalità (1911, completamento della strumentazione).

Il soggetto, tripartito, basato su poemi del danese Jens Peter Jacobsen, presenta, dopo un’introduzione strumentale, un primo ciclo di 9 Lieder (regolarmente alternati per la voce maschile di Re Waldemar e quella femminile della piccola Tove, di cui il Re è follemente invaghito) che sembrano seguire il modello della grande scena d’amore Tristan-Isolde, e si chiudono con presentimenti di morte.

Dopo un nuovo interludio, ecco l’esplosione del dramma: una colomba (Waldtaube) annuncia – nel 10° Lied - la morte violenta di Tove per mano della gelosa regina Helwig.

La seconda parte, relativamente breve, consta di un unico Lied cantato da Re Waldemar, che impreca contro Dio per il tremendo dolore che gli è stato inflitto con la morte dell’amata.

La terza parte (La folle caccia) ha un sapore misterioso, onirico e (salvo un siparietto buffo) parecchio truce, per poi sfociare in un finale ottimistico. Waldemar (Lied 1) richiama dalla tomba i suoi guerrieri, per marciare su Gurre. Un Contadino (Lied 2) si prepara al peggio, paventando distruzioni da parte di quelle orde. I Guerrieri di Waldemar (Lied 3) si preparano alla caccia selvaggia. Re Waldemar (Lied 4) crede di vedere la povera Tove in ogni angolo: bosco, lago, stelle e nuvole. È il suo autentico delirio d’amore.

Klaus, il buffone (Lied 5) ricorda a sua volta il passato e si augura che nel giorno del giudizio il Creatore lo chiami lassù…  Re Waldemar (Lied 6) sfida ancora Dio a tenerlo separato dalla sua Tove: non accetterà che lei finisca in Paradiso, e lui all’Inferno! Al levar del giorno i guerrieri di Waldemar (Lied 7) si preparano a tornare nelle tombe.

Un lungo interludio evoca ora la folle caccia del vento estivo. Tutta la natura ne è sconvolta, come ci descrive il Recitante (Lied 8). Poi il giorno si fa largo, e i fiori tornano ad aprirsi!

La chiusura è riservata al Coro misto (Lied 9) e al suo inno al sole.     
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Schager e Nylund – non a caso apprezzati Tristan e Isolde nelle recenti recite della Handlung wagneriana sulla verde collina – hanno dato vita ad una prima parte assai coinvolgente, ricca di pathos, in piena integrazione spirituale (ed erotica, va detto…) con la natura circostante, romanticamente amica, complice e protettrice dei loro impulsi amorosi.

Molto efficace il Lied della von der Damerau, che ha drammaticamente evocato la devastante atmosfera seguita alla scoperta della morte di Tove.

Con lei ha sciorinato tutte le sue eccellenti qualità vocali ed espressive il grande Michael Volle, altrettanto convincente come Singer che come Sprecher. Norbert Ernst ha messo la sua chiara voce tenorile al servizio dello stralunato buffone Klaus.

Impeccabili i cori della Scala e della Radio bavarese, che hanno suggellato, nella terza parte, una prestazione complessivamente memorabile, grazie all'Orchestra e a Chailly, che ha guidato tutti con l’autorità e l’autorevolezza che ne contraddistinguono la consuetudine con questo repertorio.

Esito a dir poco trionfale!

15 gennaio, 2023

La tribolata Salome se la cava alla Scala.

Questa Salome già era nata sotto cattivi auspici, che si materializzarono in epoca-Covid, quando l’opera fu messa in scena (con un anno di ritardo e in… streaming) in un teatro vuoto, con platea occupata dall’orchestra. E con Chailly (non il designato Mehta) sul podio. Mehta che ha ancora dovuto dare forfait, sostituito dal volonteroso Axel Kober (per 4 recite) e dal meno conosciuto Michael Göttler per le 2 restanti.

Tuttavia mi sento di dire che il pericolo è scampato, ecco. Kober è ormai un vecchio marpione del tardo-ottocento wagneriano (è approdato a Bayreuth…) e l’Orchestra scaligera ne ha ben assecondato la lettura a fosche tinte.

Anche il cast si è ben difeso: su tutti Michael Volle, autorevolissimo Jochanaan (anche lui è stato presentato, come fanno quasi tutti i registi che applicano lo stereotipo del profeta nel deserto: età minimo 70 anni e aspetto cimiteriale, quando sappiamo che il nostro aveva al massimo 30 anni – coetaneo di Gesù – e viene descritto da Wilde-Strauss come molto giovane e con la carne d’avorio!)

Poi bene la protagonista, la bella lituana Vida Miknevičiūtė, che magari potrei criticare per insufficiente cattiveria – sul piano scenico – ma che su quello musicale mi è parsa davvero encomiabile.

Da apprezzare anche l’Erode di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, assai efficace nei suoi accorati quanto ingenui – e quindi infruttuosi – tentativi di pagare in banalità materiali il cruento debito inconsapevolmente contratto con la nipotina terribile.

Due veterane dei palcoscenici d’opera (la Herodias di Linda Watson e la travestita Lioba Braun, che il regista, bontà sua, degrada da giovin paggetto della prima a babbiona badante di casa) hanno fatto onestamente e con profitto la loro non impervia parte.  

Positiva menzione anche per il complessato Narraboth di Sebastian Kohlhepp, voce squillante e ben impostata.

Onesti tutti gli altri (in particolare i 5 ebrei) che completano il cast.

Per tutti alla fine applausi abbastanza nutriti da parte di un pubblico che francamente non mi aspettavo così folto (rispetto al Boris, per dire).
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La messinscena di Michieletto mi aveva lasciato fra l’indifferente e il deluso vista in streaming. Oggi non ha migliorato molto il suo voto: il regista non rinuncia mai a dare la sua interpretazione del soggetto inventandosi dei precedenti che non si trovano né in Strauss né in Wilde, e quindi possono poi giustificare ogni deviazione rispetto all’originale.

Per il resto invenzioni riciclate (lo sferone appeso al soffitto che ricorda Prova d’Orchestra) o pacchianate a buon mercato, come la testa di Jochanaan che sale dal pozzo come un grande cammeo incastonato in un gigantesco ostensorio da altare, mentre alla povera Salome tocca accarezzare e baciare un rinsecchito teschio amletico… Oppure l’infinite volte abusato trucco di presentare una controfigura della protagonista da bambinella che assiste all’ammazzamento del padre, per spiegare perché la bambinella medesima sia cresciuta con qualche freudiano problemino…

Ma tutto sommato Michieletto ne ha fatte anche di peggio, quindi accontentiamoci così.

08 novembre, 2018

Elektra è tornata in Scala


Ieri sera la Scala ha offerto la seconda delle sette recite della straussiana Elektra, una ripresa della produzione del 2014, l’ultima impresa registica del compianto Patrice Chéreau. Di quella produzione, a parte l’allestimento, è sopravvissuta la voce della venerabile Waltraud Meier, che già 4 anni orsono mostrava ampiamente la corda, quindi si può immaginare come sia oggidì (della serie: com’è difficile appendere la voce al chiodo...) 


Restando alle voci, una delle mie osservazioni critiche di allora (qui richiamate) riguardava i tagli apportati alla partitura (nulla di nuovo peraltro) che riguardano principalmente il soprano protagonista: la Herlitzius del 2014 (secondo me, date le sue strabordanti doti) avrebbe meritato che fossero riaperti. Ecco, la Ricarda Merbeth di oggi avrebbe invece bisogno di tagli almeno doppi, per non finire... arrosto! Il mio personale rapporto diretto con lei (oh, mantenuto ad almeno 20-30 metri di distanza, eh!) va da una promettente Leonore del 2011 ad una sufficiente Isolde del 2017, ad una nuova Leonore, ma in regresso, nel 2018, per arrivare a questa francamente anonima Elektra: ieri poi ha sfoggiato (in negativo, s‘intende) un vibrato davvero sgradevole.

Regine Hangler è invece una convincente Chrysothemis, ruolo non proibitivo ma non per questo da prender sottogamba: e lei ci si è evidentemente applicata con grande solerzia, mostrando bella impostazione e corposità di suono.

L’Orest di Michael Volle forse non raggiunge le vette del grande Sachs nei Cantori della scorsa stagione: certo il personaggio è per qualità e quantità assai più abbordabile e meno centrale di quello wagneriano...

Il figlio di migranti siculi Roberto Saccà (non ditelo a Salvini) fa la sua bella figura nei panni, peraltro succinti, causa subitaneo accoltellamento... di Egisth.

Tutti gli altri (e altre) su livelli dignitosi.

Christoph von Dohnányi è stato oggetto dell’ormai proverbiale annuncio di Pereira subito prima della recita: il quasi novantenne vegliardo non ha retto l’urto della prima di domenica e lo hanno dovuto trasferire in ospedale a Monaco di Baviera (ovvio, essendoci di mezzo Strauss...) per accertamenti. Così ier sera è salito sul podio uno che sta già qui a Milano per preparare la prima assoluta di Fin de partie di Kurtág, che va in scena dal prossimo 15 novembre: trattasi di Markus Stenz, che per la verità se l’è cavata da navigato routinier, fidandosi della preparazione dell’Orchestra, che mi pare abbia ben meritato. 

In sostanza, un evento per nulla memorabile, ma ascoltare questa musica ti fa sempre venire i brividi e sconvolge le budella, e così deve averla pensata anche il pubblico dei rari nantes approdati al Piermarini.