trump-zelensky

quattro chiacchiere al petrus-bar
Visualizzazione post con etichetta grieg. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta grieg. Mostra tutti i post

13 aprile, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.19

Il 40enne Sesto Quatrini (tuttora operante nella decentrata Lituania) ha fatto il suo esordio sul podio dell’Auditorium per dirigervi il settimanale concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Il cui titolo (Serate romane) fa ovviamente riferimento diretto al terzo brano in programma (i Pini di Respighi) ma indirettamente anche al primo, il Concerto in LA minore di Edvard Grieg, il compositore nordico che con l’Italia e Roma in particolare ebbe più di un contatto, compreso l’incontro con Ibsen che portò poi alla composizione delle musiche per il Peer Gynt.

Per interpretare il Concerto torna qui, dopo due anni e mezzo, un pianista 35enne - purtroppo per lui cieco dalla nascita - che allora avevamo avuto modo di apprezzare nell’Op. 35 di Shostakovich: Nobuyuki Tsujii. [Paradossalmente l’assenza del primo senso può addirittura aiutare l’esecutore ad approfondire la conoscenza di ciò che deve suonare, essendo egli costretto a decifrare con il tatto (sul supporto Braille) ogni singolo particolare della scrittura, anche quelli che – a prima vista – potrebbero essere trascurati.

Il lavoro di Grieg, oltre alla tonalità, si rifà scopertamente a quello di Schumann, già a partire dall’esordio, uno schianto orchestrale seguito da una poderosa serie discendente di accordi del pianoforte:

Poi naturalmente Grieg ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi. Un’opera interessante, rimasta (praticamente) unica del genere nel catalogo del compositore norvegeseche mise in cantiere un secondo concerto, mai però portato a termine.

Nobuyuki (eccolo qui nel 2018 a Liverpool con Vasily Petrenko, da 23’20”) ha sciorinato una prestazione a dir poco strepitosa, tanto che il pubblico non ne voleva sapere di lasciarlo andare, costringendolo, si può dire, a regalarci non uno, ma ben tre bis! (con Grieg, Kapustin e ancora Grieg).
___
Dopo l’intervallo ecco una prima assoluta: si tratta di Maggese, composizione commissionata dalla Fondazione milanese e dalla Toscanini di Parma all’ex-assessore alla cultura del Comune di Milano, Filippo Del Corno. Ispirata alla vecchia consuetudine contadina di dare respiro alla terra, fra una coltivazione e l’altra, in modo da permetterle di rigenerarsi invece che inaridirsi.

Ci si può vedere un implicito riferimento ai problemi ecologici che assillano oggi il nostro bistrattato Pianeta. O, più in generale, alla necessità di prenderci qualche pausa per combattere (come recitava un vecchio spot pubblicitario) il logorio della vita moderna!

In realtà per il compositore si è trattato della ripresa dell’attività creativa dopo ben 8 anni trascorsi a Palazzo Marino ad occuparsi di ogni aspetto della cultura della città.

Come spiega l’Autore sul programma di sala, il brano origina da una semplice cellula - un seme, di fatto - dalla quale poi si sviluppa l’intero corpo del brano quadripartito, quante sono le arature del maggese (ogni 45 giorni da marzo ad agosto). Un’alternanza di movimenti animato-lento, in cui si susseguono (come nelle 4 stagioni?): agitarsi di forze cupe e minacciose seguite da oasi di calma; soffocate grida lontane e scrosci sonori che finalmente si placano; temporali e calma di vento.

Un’opera tutto sommato godibile, con molto diatonismo, il che non guasta, diciamolo francamente. E così deve evidentemente aver pensato anche il pubblico, a giudicare dalla calorosa accoglienza all’esecuzione e all’Autore salito sul palco a ringraziare Orchestra e Direttore.  
___
Ha chiuso in bellezza la serata Pini di Roma, secondo poema sinfonico della cosiddetta Trilogia romana di Ottorino Respighi. (Qui alcune mie note riassuntive dell’intero trittico.)

Orchestra come sempre impeccabile e meritato successo per tutti, a cominciare dal Direttore, che ha mostrato grande autorevolezza e sobrietà di gesto.

26 febbraio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 18

Il 55enne Andrey Boreyko torna sul podio dell’Auditorium (dopo l’esordio in streaming di circa un anno fa) per proporci un programma russo-norvegese, di musiche non proprio di quotidiano ascolto.

La prima opera in programma per la verità non è precisamente una primizia per l’orchestra, che l’ha già eseguita parecchie volte in passato, anche in forza dell’antica consuetudine con il compianto Rudolf Barshai, che è l’autore di questa Sinfonia da Camera, trascrizione di un famoso e controverso quartetto di Shostakovich (delle cui caratteristiche e della cui trascrizione scrissi qualcosa 8 anni orsono).

A proposito di Russia, siamo tornati in piena guerra fredda (e pure calda) e leggo che all’orso Gergiev viene posto un ultimatum: o condanni Putin, oppure con noi hai chiuso, per la Dama di Ciajkovski e per sempre. Beh, per coerenza allora dovremmo, prima che Gergiev, bandire dai nostri teatri e sale da concerto proprio l'invasore Ciajkovski, che nella Piccola Russia (leggi=Ukraina) passava le estati (c/o i ricchissimi latifondi della russa vonMeck) a comporre le sue opere (inclusa appunto la Seconda Sinfonia, Piccola Russia).  

Ieri sera invece si è fatto ciò che ha un senso fare in queste circostanze: una testimonianza. Già qualcosa si era intuito all’accordatura dell’orchestra: la presenza dei fiati (che in Shostakovich mancano). Poi si è capito il perchè: mentre sui due schermi ai lati del palco comparivano le bandiere ucraina e italiana, il russo Boreyko è salito sul podio, dopo aver fatto alzare in piedi il pubblico, per dirigere l’inno dell’Ukraina!

E il destino ha voluto che ad aprire il concerto fosse proprio quello Shostakovich che in fondo impersona tutte le contraddizioni di un uomo di cultura e di arte alle prese con un regime oppressivo. 

Boreyko ha fatto suonare l’Orchestra proprio come fosse un Quartetto, mettendo in risalto tutta la sofferenza, il dubbio, l’impotenza di un artista evocati dalle note del grande Dmitri. 
___ 
La parte norvegese del programma ha la paternità di Edvard Grieg. Del quale chiunque saprebbe citare il Peer Gynt (no, veramente solo Il Mattino) e poi il Concerto per pianoforte. Pochi (o nessuno) sanno invece di una sua Sinfonia in Do minore, in programma qui in Auditorium. Un po’ anche per colpa sua: avendola composta a soli 20 anni, ne fu insoddisfatto fin quasi a vergognarsene, anche se non ne diede alle fiamme la partitura, limitandosi ad apporvi una scritta che ne proibiva l’esecuzione. Così più di un secolo più tardi, nel 1980, la sinfonia ha potuto essere portata nelle sale da concerto.

Non che l’autocritica di Grieg non avesse fondamento: trattasi effettivamente di un lavoro piuttosto acerbo - anche se contiene spunti interessanti - e piuttosto rivolto al passato che non al futuro. La forma è quella classica, addirittura pre-beethoveniana (pensiamo alla posizione dello Scherzo) con un primo movimento in canonica forma-sonata, poi un Adagio, quindi l’Allegro energico dell’Intermezzo (uno Scherzo innovativo solo nella denominazione) e un Finale che al massimo si avvicina a Schumann.

Possiamo schematicamente tracciarne le linee principali ascoltando il venerabile Neeme Järvi dirigerla con i Göteborgs Symfoniker.
___

Ecco il primo movimento, nella più ortodossa e scolastica applicazione della forma-sonata. Dopo una gagliarda Introduzione di 10 battute in Allegro molto, attacca (19”) l’Esposizione, con il primo tema, di carattere maschio e determinato. Un ponte modulante porta (1’25”) all’ingresso del secondo tema, tradizionalmente femminile ed elegiaco, nella relativa del DO minore di impianto, MIb maggiore. Una languida melodia cadenzante (2’22”) ci porta alla chiusura dell’esposizione. Che viene ripetuta pari-pari da 3’15” (primo tema) e ripropone (4’20”) il secondo e poi (5’17”) la sezione cadenzante. Lo Sviluppo inizia a 6’02” e classicamente ripropone i due temi messi in rapporto ora dialettico, ora cooperativo. La Ricapitolazione parte a 8’38” con il primo tema in DO minore e procede (9’47”) con il secondo, adeguatosi come da sacri canoni alla tonalità del primo (DO, ma ovviamente mantenendo il modo maggiore). La sezione cadenzante (10’46”) chiude la Ripresa e introduce una Coda (11’35”) sfociante a sua volta (11’49”) in una stretta che chiude il movimento sul DO minore, con enfasi e fracasso quanto basta.

Il secondo movimento (Adagio espressivo) scende sul circolo delle quinte dai tre bemolli del DO minore (=MIb maggiore) ai quattro del LAb maggiore. È in pratica monotematico, con il motivo - esposto subito (12’31”) dai primi violini imitati dai fagotti - che poi innerva l’intero movimento, ritornando ogni volta o in tonalità diverse o in diverse sezioni dell’orchestra. Dopo una sua riesposizione (13’31”) in LAb si arriva (14’18”) ad un’ardita modulazione a FA maggiore per dar luogo ad un breve intermezzo, seguito dal ritorno del tema (15’09”) ripreso ora nella dominante in MIb dai celli. Ancora una transizione con un breve crescendo e poi (17’12”) torna il tema ripreso in LAb dal flauto; poi (18’04”) sono i primi violini ad esporlo largamente per l’ultima volta, prima di una cadenza che chiude languidamente il movimento.

Ecco poi l’Intermezzo (in effetti è lo Scherzo di classica memoria, Allegro energico). Siamo tornati a... casa, al DO minore di impianto della Sinfonia. Ecco la prima sezione (19’42”) dall’incedere piuttosto pesante, subito ripetuta. La seconda (20’16) inizia con meno impeto, poi torna a riproporre motivo e portamento della prima. A 21’07” ecco ciò che si può chiamare Trio, in DO maggiore, la cui prima sezione viene ripetuta. La seconda (22’10”) prepara pian piano un crescendo che porta (22’31”) alla ripresa dello Scherzo (DO minore); dopo aver sviluppato le sue potenzialità, essa cede il posto (23’37”) ad una severa coda che chiude il movimento in modo secco e sbrigativo.

Chiude la Sinfonia il Finale (Allegro molto vivace) che, nel più prevedibile degli scenari (per aspera ad astra, dall’Inferno al Paradiso, dalla polvere agli altari, dalla morte alla resurrezione, dalle tenebre alla luce e... si aggiunga qualunque altro percorso ascensionale) risuona nel limpido e solare DO maggiore. Come il primo, anche questo è in (un’assai più libera) forma-sonata. 24’10” Sono i primi violini ad esporre il primo tema spigliato, il cui incipit è una semplice cellula di 5 note. Tema presto reiterato e sviluppato fino a 24’52”, dove subentra un secondo motivo, meno mosso, con andamento ascensionale, nella relativa LA minore, poi modulante al SOL maggiore. A 25’16” ecco un motivo in flauti e poi violini, in SI minore che sfocia in un ponte che chiude l’esposizione, introducendo (25’56”) il complesso sviluppo. Vi ritroviamo soprattutto il primo tema, sottoposto a diverse variazioni che portano sorprendentemente (27’30”) ad un corale in LAb maggiore, poi FA maggiore, che conduce alla ripresa (28’45”). Dopo il primo tema in DO, ecco (29’26”) il secondo, ora in RE minore. A 30’24” ecco una particolare coda, col secondo tema, in FA minore che introduce il progressivo ritorno a DO maggiore per la finale perorazione.
___
Beh, va riconosciuta a questo giovane Grieg molta buona volontà ed anche un certo equilibrio accompagnato dalla rinuncia a trovare facili effetti o retorica a buon mercato. Si racconta che la decisione di proibire l’esecuzione della sua Sinfonia fosse maturata in Grieg dopo l’ascolto della Prima del quasi coetaneo Johan Svendsen: mah, forse il nostro si lasciò troppo suggestionare dalla sovrabbondanza di quel lavoro, che (almeno alle mie orecchie) pare assai più velleitario di quello di Grieg (e mi sembra che la storia abbia poi fatto... giustizia).

Ascoltata poi dal vivo, la Sinfonia acquisisce ancor più spessore e qualità. Boreyko l'ha diretta con gesto sobrio, essenziale, ma fermo ed efficace. E l’Orchestra, pur al primo incontro con quest’opera, ha mostrato di averla perfettamente introiettata, restituendocela in tutta la sua pur acerba freschezza.

27 settembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°2

Il quasi-47enne lusitano Nuno Côrte-Real fa il suo esordio con laVerdi dirigendo un programma piuttosto variegato, i cui tre pezzi sono labilmente collegati dall’evocare terre lontane (magari non per noi, ma per... Ibsen, Gauguin e Dvořák): Africa, Tahiti e America. Le date del concerto sono state anticipate rispetto allo standard poichè l’Orchestra parte ora per una tournée proprio in Portogallo, dove Côrte-Real ne terrà a battesimo l’esordio.

Sulla genesi delle musiche composte da Edvard Grieg per il Peer Gynt mi sono già dilungato all’interno di questo commento ad un’esecuzione di Bignamini di tre anni giusti-giusti orsono, quindi non aggiungo altro. Dirò invece dell’esecuzione di ieri, che mi è parsa rivelare (ma lo confermerà il brano successivo) la natura romantica del Direttore, che ha proposto questa pagina con grande leggerezza, ma senza quelle sdolcinature che troppo spesso ne caratterizzano l’esecuzione. Il pubblico, tutt’altro che oceanico a dir il vero, ha mostrato di apprezzare, stabilendo subito un rapporto di simpatia con questo portoghese dall’atteggiamento schivo e quasi timido, che dirige con gesto poco appariscente ma preciso ed efficace.
___
E queste qualità sono emerse poi nel secondo brano in programma, che è - nientemeno - una prima assoluta! Si tratta di una sua composizione intitolata Noa-Noa e battezzata dall’Autore come Sinfonia (in cinque movimenti). È in realtà la versione orchestrata e assai ampliata (Op.62) di una breve composizione di musica elettroacustica del 1995, Noa-Noa, homenagem a Gauguin (Op.3) con la quale Côrte-Real vinse nel 2000 il Concorso Musica Viva a Lisbona. Ecco come l’Autore in persona ci presenta questo lavoro:

La Sinfonia Noa-Noa (‘profumo’, ndr) è stata ispirata dal libro omonimo di Paul Gauguin, scritto dal pittore dopo il suo primo soggiorno a Tahiti. È interessante notare come questa composizione (suddivisa in cinque movimenti, ciascuno dei quali ha lo stesso titolo dei quadri dipinti da Gauguin nelle isole del Pacifico) si riveli selvaggia e dirompente - proprio come è stata l’esperienza del pittore parigino - rispetto agli stili e alle convenzioni esistenti; la durezza, l’aridità e le dissonanze tipiche della musica contemporanea sono in essa totalmente estranee.

Un’attenzione particolare va riservata all’ultimo movimento intitolato Matamoe, che in tahitiano significa ‘Morte’, ma che nella visione di Gauguin ha un significato diverso: quello della morte della società borghese che non lo ha capito e la risurrezione in un nuovo, puro e genuino paradiso terrestre, libero da interessi e criminalità.

E queste note pubblicate sul programma di sala sono state integrate da Côrte-Real subito prima dell’esecuzione, con un breve intervento dove il Direttore ha spiegato il suo rapporto con la musica (e qui è emerso il suo carattere romantico) con la quale il compositore cerca di simboleggiare la sua visione del mondo, precisamente come fece Gauguin con le sue tele tahitiane. All’ascoltatore è riservato il compito di... decifrare la visione del rapsodo! O semplicemente di abbandonarsi ai suoi suoni.

1 D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?


Atmosfera sognante, esotica, un tappeto sonoro (à la Debussy...) da cui emergono via via richiami ora cupi, ora sereni; un cammino che parte dal REb iniziale e si chiude sul SI conclusivo: risposte alle tre fatidiche domande?

2 Contes Barbares


Paesaggio crudo, aspro e minaccioso, sordi richiami del trombone sui colpi secchi delle percussioni; atmosfera da tregenda.

3 Idylle à Tahiti


Romanza per archi: un breve, classico intermezzo languido (SOL e DO maggiore!)

4 Le cheval blanc


Le percussioni sembrano effettivamente ritmare uno scalpitìo... contrappuntando il corno inglese che canta una mesta melopea, chiusa da una cadenza DO-SI.

5 Matamoe


Un insistente martellamento di tamburi lascia poco spazio al dispiegarsi di frasi musicali di senso compiuto, poi chiude bruscamente sulla cadenza RE-SI dell’orchestra. Evidentemente, la resurrezione deve ancora aspettare! 
___ 
Accoglienza non meno che trionfale quella che il pubblico ha riservato a quest’opera, richiamando più e più volte sulla scena il musicista lusitano, che ha a sua volta ringraziato l’Orchestra, quasi schermendosi per un successo così pieno. Beh, abbiamo avuto un’altra piaceevole dimostrazione della preveggenza di Lenny Bernstein, che nel pieno della temperie serial-dodecafonica di 60 anni fa pronosticava un futuro per la musica... tonale!
___ 
Chiude il concerto l’inflazionata Sinfonia dal nuovo mondo, che l’Orchestra nel corso dei 25 anni della sua storia aveva già messo in programma per ben 14 volte (l’ultima quasi 3 anni orsono). E Côrte-Real si affida a questa pluri-decennale esperienza per garantirsi il prevedibile successo. Cito un nome solo per glorificare tutti i ragazzi: il corno inglese di Paola Scotti.

18 settembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 51


È un programma tutto nordico (EXPO a parte) quello con cui Jader Bignamini ha aperto la sessione autunnale della stagione 2015: si tratta di lavori collocati in un arco di tempo di circa 50 anni, da 3/4 dell‘800 fino a 1/4 del ‘900.

In apertura, per la serie dedicata alla Fiera, Nicola Campogrande presenta il Brasile: che a noi – stando a lui – farebbe una strana impressione, perché non vi troviamo tracce di samba o di bossanova. Ecco finalmente spiegato perché a me fa una stana impressione l’Inno di Mameli: neanche la più piccola reminiscenza di funiculìfuniculà!
___
La parte seria (smile!) del concerto è aperta da Andrey Baranov, che ci delizia con il celebre Concerto per violino di Jean Sibelius. Del quale si è sempre – come qui – eseguita la seconda, definitiva versione del 1905. Ma ovviamente ne esisteva una prima (1902-4) malamente accolta dal pubblico perchè peggio ancora suonata dal solista: versione che l’Autore aveva immediatamente ritirato e severamente proibito di eseguire, pur non distruggendone l’originale. Soltanto 25 anni orsono gli eredi hanno deciso di consentirne una sola esecuzione e registrazione, protagonista Leonidas Kavakos con la Lahty Symphony diretta da Osmo Vanskä. Ascoltandola si può facilmente constatare la maggior complessità, difficoltà ed ampollosità di questa prima versione, che spinse evidentemente Sibelius alla decisione di alleggerirla assai, sia cassando interi passaggi (una quarantina di battute nel solo primo movimento, quasi 10 minuti di musica nel complesso) sia prosciugando di parecchio l’orchestrazione, così da non sommergere il suono del solista sotto quello dell’orchestra.

Preso in mezzo tra tardo-romanticismo e prime avanguardie novecentesche, il buon Jean cercò di uscire dall’angolo con qualche innocente strappo alle regole classiche, che si materializza in specie nell’Allegro moderato, dove la forma-sonata viene alquanto strapazzata, sia nella struttura che nella scelta delle tonalità. Ma siamo, appunto, ad innocenti scappatelle, nulla di paragonabile a ciò che gli Schönberg a Vienna e i Debussy a Parigi stavano combinando o tramando, col trarre conseguenze radicali dal cromatismo del Tristan. Non parliamo dell’Adagio centrale, che affonda abbondantemente le radici nell’800 (Bruch, Wieniawsky, Lalo, per tacere di Mendelssohn); mentre un barlume di moderato modernismo affiora nell’Allegro conclusivo, con le sue melodie appena-appena impertinenti.

Baranov si conferma interprete di valore, non solo dal punto di vista della tecnica pura (cosa non ha saputo cavar fuori, nel primo bis, dall’ultimo Capriccio paganiniano!) ma anche e soprattutto da quello della sensibilità e della cura dei particolari: emerse, tanto per fare un esempio, dal diverso pathos con cui ha proposto i ritorni del tema principale dell’Allegro moderato.

Così il trionfo è stato enorme e i bis sono diventati due, al tellurico Paganini succedendo il severo Bach della Sarabanda dalla seconda Partita, in RE minore. 
___
Il Peer Gynt di Grieg ha avuto una storia abbastanza strana: fu Ibsen in persona a chiedere al musicista (di 15 anni più giovane) di comporre delle musiche di scena per il suo omonimo dramma in versi del 1867, che lo stesso scrittore aveva originariamente escluso dovesse/potesse essere mai rappresentato a teatro. E così la musica di Grieg – che lo impegnò ben al di là delle sue iniziali e ottimistiche previsioni – servì per tenere a battesimo, giovedi 24 febbraio 1876 a Christiania (oggi Oslo) quel lavoro che poi divenne una pietra miliare della drammaturgia europea.

Il poema originale (a sua volta partorito… a rate, fra Roma, Ischia e Sorrento) consta di 5 atti per complessive 38 scene (3-8-4-13-10) ed è un costrutto a prima vista bizzarro, che manda a quel paese Aristotele e le sue unità, e dove il realismo più prosaico si mescola con elementi surreali, fantastici, grotteschi, filosofici e tragici. C’è dentro un po’ di Faust (Ibsen mette in bocca a Peer, storpiato, il famoso Das Ewig-Weibliche ziehet uns hinan!), di Don Quixote, di Rodomonte e persino di… Barone di Münchausen, ecco. Va da sé che l’intendimento di Ibsen fosse (anche) di mettere alla berlina stereotipi, comportamenti, pregiudizi e stupidità del mondo a lui contemporaneo. Ed è indubitabile che il lavoro sia una spregiudicata e corrosiva radiografia dell’individuo e insieme della società ottocentesca, non solo scandinava: tutto il quarto atto ne è una grottesca parodia, che prende di mira il colonialismo, quello spregevole degli schiavisti ma anche quello culturale degli esploratori tedeschi (la Sfinge che parla crucco… che poi è il direttore del manicomio!) Chissà se possiamo anche trovare una morale in tutto ciò, visto che il protagonista, dopo mille avventure, una più fallimentare dell’altra, troverà pace solo immergendo il capo nel… ventre della caritatevole Solveig, madre e sposa!

Quanto a Grieg, la sua colonna sonora (Op.23) come pubblicata da Peters (ma ne esistono diverse varianti, dato che venne rivista nel 1891) contiene 24 numeri (3-7-3-6-5) e comporta anche parti cantate da solisti e dal coro. Grieg estrapolò a distanza di qualche anno le due Suite (op. 46 e 55) eseguite qui in Auditorium, che raggruppano in totale 8 dei 24 numeri, per una durata complessiva di circa 35 minuti, proprio un terzo di quella delle musiche di scena complete. Lo specchietto sottostante presenta in grandissima sintesi i contenuti del dramma di Ibsen e quelli delle tre partiture di Grieg.


Come si noterà, le due suite (soprattutto la prima) presentano sequenze di brani abbastanza avulse da quella delle scene del dramma. E il famoso mattino, che apre la prima suite (e che chiunque fischietta sotto la doccia) evoca non già un’aurora boreale, ma… tropicale!


Con decisione saggia, Bignamini ha separato le due esecuzioni con l’intervallo e con il concerto di Nielsen, scongiurando così il pericolo di… saturazione che una musica pur così piacevole si porta dietro. Impeccabile come sempre l’Orchestra, in tutte le sezioni.
___
Fra le due suite di Grieg il flautista Andrea Griminelli ci ha proposto il quasi sconosciuto Concerto di Carl Nielsen, datato 1926. Nielsen fu coetaneo di Sibelius (che però gli sopravviverà di più di 25 anni…) e cercò assai più del finlandese di affrancarsi dal tardo-romanticismo, pur non abbracciando le moderne (a quei tempi) innovazioni provenienti da Vienna e dintorni. Il Concerto eseguito qui ne è testimonianza abbastanza chiara: pur rimanendo sostanzialmente ancorato ai canoni della tonalità, Nielsen si sforza di trovare soluzioni originali sia nella forma – il concerto ha due soli movimenti - che nei timbri orchestrali.

Come dimostra subito la stridente dissonanza che caratterizza l’Introduzione, fra la linea melodica (in RE minore) di legni e archi alti che si appoggia su un protervo MIb di archi bassi, corni e fagotti:


E si noti allo stesso tempo come il MIb e il LA ci sbattano in faccia il diabolico tritono: ecco, non è propriamente un attacco classico!
Seguiamo l’esecuzione del grande Jean-Pierre Rampal, che di Griminelli è stato maestro e mentore.
___
L’Allegro moderato, a parte il motivo introduttivo dell’orchestra, si articola su tre principali temi:


La forma è piuttosto libera e i tre temi vengono presentati in sequenza, con sviluppi contestuali; verranno poi citati nella lunga cadenza solistica che precede la coda conclusiva.

6” Introduzione orchestrale; a 17” entra il flauto solista che ripropone il tema introduttivo, variato. Senza soluzione di continuità ecco (33”) l’esposizione dell’impertinente tema (A) in MIb minore, subito riproposto (47”) una quinta sopra (SIb minore) dopo un fugace intervento orchestrale. Altra riproposizione di (A) dal DO# (55”) ed un’altra ancora (1’08”) dal LA.

Dopo un rallentando del solista che chiude sul FA, a 1’26” ecco l’orchestra (violini e legni) proporre, in FA maggiore, il tema (B) assai più elegiaco del precedente: sarà lui a monopolizzare la prossima sezione. Ben presto il flauto (1’35”) si fa carico del tema, portandolo a SIb maggiore, quindi tornando, dopo breve divagazione (2’10”) al FA maggiore di partenza. A 2’17” inizia un dialogo stretto fra solista e oboe, che si scambiano un breve inciso, che a 2’29” è ripreso dal clarinetto: è lui che ora dialoga in modo assai fitto con il flauto, attraverso una serie di rimpalli a base di terzine di semicrome, una specie di cadenza a due, si potrebbe definire.

Si arriva così (3’09”) alla ripresa del tema (B) nei violini, tonalità DO maggiore; tema poi rinforzato pesantemente (3’22”) dall’intervento di corni, fagotti e bassi. A 3’38” ecco un episodio aperto bruscamente dai timpani, protagonista il trombone basso, che aizza il flauto a ripetuti singhiozzi che introducono una transizione veloce verso il ritorno (4’05”) del tema (A) sul LA. Ancora un serrato dialogo flauto-trombone basso che porta (4’17”) il tema (A) all’oboe e ai violini-viole (sul SI) raggiunti ancora pesantemente da corni e trombone basso.

Finchè, improvvisamente (4’27”) ecco fare irruzione il maestoso tema (C) in MI maggiore, in legni e corni; tema poi (4’47”) trasferito al solista che lo sviluppa in modo elegiaco finchè (5’36”) non viene, da oboi e fagotti, richiamato… all’ordine, cioè al tema (A) che il flauto porta gradatamente a spegnersi (6’11”) su un LA. Qui abbiamo una breve cadenza solistica, bruscamente interrotta (6’36”) da ottoni e timpani che conducono ad una transizione orchestrale in cui fa capolino ancora il tema (A) prima che il flauto solista (6’58”) con perentori trilli chieda… la parola: sta per iniziare infatti (7’09”) la lunga e articolata cadenza principale.

La quale è caratterizzata dal fatto che lo strumento solista è sempre accompagnato da (almeno) un altro: inizialmente dal timpano, che fa da sfondo a veloci sestine culminanti nella proposizione (7’40”) del tema (A) dal LA, ribadito subito dopo dal SOL. A 8’04” subentra il tema (B) mentre il timpano tace, lasciando il ruolo di compagnia al clarinetto, che ancora ingaggia con il solista un botta-e-risposta a base di biscrome, e successivamente (8’22”) si alterna con lui nell’esporre il tema (C) contrappuntato da biscrome sincopate. Intervengono alla fine anche il fagotti, prima che il solista (8’43”) porti la cadenza a conclusione.

A 9’02” si passa a SOLb maggiore con corni, fagotti e clarinetti che riespongono, con grande calma e per terze (un po’ à la Brahms) il tema (B). A 9’25” ancora il solista ripropone il tema (C) con una divagazione variata (9’39”) al tema (A) seguito da un’impennata (9’53”) fino al SI sovracuto, da cui discende poi per terzine, fino d adagiarsi sul SOLb, dove (10’17”) i violini ancora ricordano il tema (B), ripreso (10’31”) dal solista che si incarica quindi di chiudere sommessamente, sul SOLb maggiore.

Come si vede, una brano dalla struttura assai libera, che lascia spazio alla fantasia e quasi all’improvvisazione: interessante e gradevole, senza aver pretese di imporsi come capolavoro.

Veniamo ora all’Allegretto, un poco (sic). Dopo una corposa revisione della sezione finale, con la quale Nielsen pose rimedio all’affrettata versione originale della stessa (licenziata solo per non mancare l’appuntamento con la prima esecuzione) la struttura del movimento si presenta come uno spurio rondo: A-B-C-A’-B’-C’-D, dove D in realtà non è un tema autonomo, ma è una vera e propria sezione, basata sul ritorno reiterato del tema (A) ma dove ricompare, variato, nel trombone basso, anche il tema (C) del primo movimento. La tonalità principale è SOL maggiore, ma la chiusa sarà in MI maggiore.


Ecco, a 11’29” i soli archi, cui poco dopo si aggiunge un pedale del corno, introdurre il movimento, con secche semicrome scandite sul primo e terzo ottavo della battuta (2/4). A 11’43” il solista espone lo sbarazzino tema (A) in SOL maggiore, ripreso subito come in parodia dal fagotto, che prosegue il suo dialogo con il flauto. Flauto che poi procede ad una transizione (con intervento del corno) che porta, dopo un breve rallentando (12’21”) al secondo tema (B) nella (fugace) tonalità di SI maggiore.
                                                 
Il tema è ripreso (12’28”) dai violini che innescano una corposa transizione orchestrale, dove il solista si limita a brevi incisi; transizione che chiude con un progressivo rallentando e diminuendo, che conducono ad un bizzarro cambiamento di tempo (12’56): Adagio ma non troppo, sul quale il solista espone il tema (C) assai languido e praticamente atonale, che si muove per lo più su gradi contigui. Il flauto lo sviluppa tornando (13’48”) dopo un inciso del corno, a SOL maggiore, poi procede fino ad esaurirne la spinta, con un ulteriore rallentamento. A 14’55” un poderoso tremolo degli archi, accompagnati in fortissimo dai fiati porta alla riproposizione variata del tema (C) bruscamente contrappuntata da tre interventi in staccato dell’orchestra.

Una cadenza del clarinetto ci riporta (15’30”) in Allegretto, con la riesposizione del tema (A) ancora in SOL maggiore. Questa ricomparsa del tema appare però piuttosto offuscata, scurita, insomma quasi intristita, tanto che la melodia del flauto è costantemente calante come pure l’accompagnamento del violino solo. A 15’59” l’orchestra propone una breve transizione, che porta (16’09”) alla riesposizione (in DO) del tema (B). Mentre gli archi (16’18”) ripropongono i sussulti dell’introduzione, il solista insiste sul SOL acuto, poi (LA-SOL) sembra esplodere in un lamento; quindi un perentorio rullo del timpano ci riporta al tempo Poco Adagio.   

Qui (16’32”) un altro poderoso tremolo dei violini introduce la ripetizione del tema (C) negli archi bassi e viole, subito ripreso dal solista in forma variata e portato praticamente a… morire.

Qui (17’04”) ha inizio la corposa sezione conclusiva del concerto. Siamo ora passati in Tempo di marcia (6/8) e sono i clarinetti, supportati dai fagotti, a proporre, per terze, una variante del tema (A) ancora (per poco) in SOL maggiore. Sì, perché a 17’18” il flauto solista riprende il tema modulando a MI maggiore e ingaggiando quindi un botta-e-risposta con l’orchestra, che (17’45”) propone negli archi un nuovo motivo per terzine, presto ripreso (17’52”) dal solista, quindi ancora dagli archi.

A 18’03” ecco l’entrata del trombone basso, che sosterrà un ruolo da protagonista: dapprima ribadendo il tema (A), poi mentre il solista si libra in continui svolazzi e gli archi ribattono l’incipit del medesimo tema, riproponendo (18’09”) sempre in MI maggiore una forma allargata del tema (C) del primo movimento! Chiusa (18’23”) con un glissando dal pianissimo al fortissimo dopo il quale il flauto, con l’accompagnamento del timpano che ritma il tema (A) si imbarca in una cadenza sulla quale (18’35”) interviene ancora il trombone in glissando.

A 18’49” sono gli archi a riesporre un frammento del tema (A) cui segue una transizione dove orchestra e solista si confrontano; quindi (19’09”) ecco una specie di rincorsa dell’orchestra, che porta (19’18”) all’ultima cadenza solistica (sempre col timpano a tener bordone) finchè si arriva (19’26”) alle sei battute conclusive, rallentando e diminuendo.

Che dire: anche qui nulla di veramente straordinario, ma il prodotto di un sano artigianato musicale.
___
Griminelli non ha tradito le attese e la sua ormai consolidata fama internazionale, rendendoci gradevole questo brano che, soprattutto a chi lo ascolta per la prima volta, potrebbe risultare un filino indigesto. Per lui accoglienza calorosissima ricambiata con un bis forse dedicato al suo indimenticabile Maestro.

18 marzo, 2014

L’Orchestraverdi ancora alla Scala contro i tumori

 

Ieri sera laVerdi è stata ospite del Piermarini per un concerto a sostegno delle benemerite attività della LILT.

Il programma ricalcava in parte quello dell’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra, ed anche i protagonisti erano gli stessi: Wayne Marshall ed Emanuele Arciuli. La prima parte della serata era infatti occupata dal Concerto di Grieg. Le tre repliche all’Auditorium dei giorni immediatamente precedenti devono aver fatto bene a tutti, così ieri abbiamo assistito ad una performance di alto livello, sia dal lato solistico (ma qui Arciuli aveva poco da migliorare…) che da quello del ripieno orchestrale. Che mi è parso assai più equilibrato, quanto meno rispetto alla prima di giovedì scorso in Largo Mahler.

A meno che la differenza non l’abbia fatta l’enorme spazio del teatro, che tende ad ovattare i suoni, rispetto all’acustica fortemente amplificatrice dell’Auditorium. Fatto sta che mi è parso di udire un Grieg più nordico e… algido di quello di giovedi scorso. E chissà che quest’atmosfera più fredda non abbia contagiato anche il pubblico, che dopo il primo ritorno sul palco dei due protagonisti si è subito azzittito, al che Luca Santaniello non ha potuto far altro che alzarsi e salutare, privandoci di un possibile bis.  
___
Marshall ha poi proposto il suo amato Gershwin, ad iniziare dalla simpatica Ouverture da Of Thee I SingSono meno di 5 minuti di musica allegra e scanzonata, proprio come irridente è l’intero musical (del 1931) che satireggia il modo yankee di far politica, ma con una morale positiva (l’amore trionfa su ogni altro interesse e lobby). 
___
Ha chiuso degnamente la serata An American in Paris. Riporto qui alcune note di presentazione, scritte quasi 3 anni orsono, allorquando fu Zhang Xian ad eseguirlo in Auditorium.
___
Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza:

È il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all’insù e le orecchie tese. Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi:
Ora, stanco per la lunga camminata, l’americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo:


(Si noti la prescrizione di coprire la campana della trombetta con una guaina di feltro.?

Questo è il motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana:

Un’ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l’ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano.
___
Alla fine il pubblico si era evidentemente riscaldato e ha quasi preteso il bis: che è arrivato ed è stato poi ancora… bissato, protagonisti la tromba di Caruana e soprattutto il clarinetto di Ghiazza. Un bel regalo per uno come me che ha un quadrupede da custodire… Qui lo ascoltiamo dai PROMS e così scopriamo anche da dove è uscito fuori il nostro attuale PM (mega-smile!)

14 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°25

 

Riecco il simpatico Wayne Marshall sul podio dell’Auditorium per dirigervi un interessante programma (attenzione: interessante non significa automaticamente di alto livello…)       

Che si apre con una composizione giovanile di Richard Strauss: la Bläserserenade op.7 (per strumenti a fiato). Così la definì onestamente l’Autore nel 1909, 28 anni dopo averla composta: Null’altro se non il decoroso lavoro di uno studente di Conservatorio.  

Ma il sommo Quirino Principe non la pensa così. Ecco come analizza questo lavoro (da: Strauss – La musica nello specchio dell’eros):

Il piccolo prodigio venne alla luce 1'11 novembre 1881, quando Richard finì di comporre la Serenade in mi bemolle maggiore op. 7 (TFV 106) per 13 strumenti a fiato: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si bemolle, 4 corni (di cui il primo e il secondo in mi bemolle, il terzo e il quarto in si bemolle), 2 fagotti, controfagotto (o basso tuba). I corni in si bemolle sono bassi. In alternativa al controfagotto o al basso tuba, la partitura reca l'indicazione: Contrabaß . Per la prima volta, egli si cimentava in una composizione per insieme di fiati (legni e ottoni), e anche per questo l'autunno 1881 segna un momento inventivo di assoluta novità, anzi, apre un nuovo solco: in tutta la sua vita, Strauss ideò soltanto quattro lavori con un simile organico (altra cosa sono le cinque composizioni per ottoni e timpani), e, con ammirevole simmetria, due quasi al principio (1881 e 1884) e due quasi alla fine (1943 e 1944-1945). Che egli fosse stato preso da un imprevedibile interesse per il "guter Klang" di un insieme di fiati è testimoniato anche da una sua fatica inversa sotto l'aspetto tecnico, quasi contemporanea alla Serenade: la riduzione per pianoforte a 4 mani del Nonetto in fa maggiore di Franz Lachner (AV 183, TFV 108).
Non c'è dubbio: in senso strettamente tecnico, quella è la direzione che orienta lo sguardo del giovane compositore. È un suono nitidamente disegnato in lavori di buona fattura, alcuni autentici capolavori purché dotati di libertà visionaria. In quell'ambito esistono sicuri punti di riferimento, a Richard certo non ignoti: da prodotti abili e di modesta inventiva, come lo stesso Nonetto di Lachner o l'analogo Nonetto op. 139 di Rheinberger, a esiti più vibranti come la Serenata op. 44 di Dvorak, su su fino a un miracolo solare qual è la Serenata in re maggiore op. 11 di Brahms, nota agli ascoltatori tedeschi fin dal 1859. In particolare, il primo Minuetto della composizione brahmsiana si configura come una delle possibili premesse del nuovo suono straussiano e dell'invenzione tematica in tutta la sua leggiadra vitalità.
Il nuovo suono si presenta levigato, spoglio di eloquenza: nessun grande gesto. Servendoci del modello brahmsiano per vedere controluce le divergenze insieme con le affinità, leggiamo nella partitura della Serenade un primo segreto di fabbricazione della musica straussiana: l'assenza assoluta della cosiddetta "melodia popolare" o del cosiddetto stilema armonico popolare o di tutto ciò che popolare non è ma che abilmente, come spesso accade in Brahms, è tagliato nella sua morfologia come se lo fosse. La Serenade è bitematica, in un tempo solo (Andante) articolato in sezioni con sfumature di movimento che attenuano ogni contrasto: esposizione del primo tema (btt. 1-24), breve ponte modulante (btt. 25-30, dalla lettera A), secondo tema (più animato, btt. 31-60), una parte centrale che drammatizza elementi del secondo tema (btt. 61-118) e in cui un'ulteriore drammatizzazione comprende le battute 89-111 (dal più animato al Tempo I, in cui si ritorna alla serenità iniziale), e infine la ripresa (btt. 119-162) e la coda (btt, 163-173).
La prima esposizione è costruita quasi sul nulla, e arricchita da esigue differenze nell'uso e nella ricomparsa delle idee. Questo secondo carattere s'impone anche all'esposizione del secondo tema, che è invece plastica e di forte rilievo: anche in essa il discorso procede e si dialettizza secondo varianti minime. Una melodia discendente parte dalla mediante e si sofferma sulla dominante alla fine del primo inciso. La risposta è ascendente-discendente, e conclude la prima semifrase (primo quarto della bt. 4) con una triade di tonica nel secondo rivolto. Stranamente, questo accordo che dovrebbe rendere un senso di conclusiva stabilità è singolarmente teso ed elusivo, poiché in suo luogo ci saremmo aspettati un'anticipazione o un ritardo armonico. La seconda semifrase ha l'antecedente e il conseguente entrambi modellati sulla risposta della prima semifrase, cioè su una linea ascendente-discendente, ma con intervalli meno ampi, come a smussare le curve. Ne risulta una significativa relazione tra la prima e la seconda semifrase: nella prima, il rapporto di opposizione lineare tra antecedente e conseguente corrisponde, nella seconda, a un rapporto di attenuazione della stessa linearità.

La seconda frase mostra come sia possibile agire con forza su un delicato organismo mediante varianti che scalfiscono appena il rilievo. Il lieve mutare della linea melodica è bilanciato dall' alternarsi degli strumenti. Se in principio il primo tema era affidato al primo dei due oboi, nella battuta 9 esso è reintrodotto dal primo flauto, che gli dà una sostanza eterea, candida e sfumata, in luogo del disegno incisivo tracciato prima dall'oboe. Lo schema della melodia discendente è immutato: dalla mediante SOL alla dominante inferiore SI bemolle. La lieve variante si presenta in due sottovarianti nella
prima semifrase. Nell'antecedente, il ritmo puntato dell'incipit è sostituito da una serie di note di passaggio con lo sdoppiamento, nella battuta 9, del secondo ottavo in due sedicesimi. L'aggraziata, apollinea solennità delle battute 1-4 si trasforma in una semplicissima cantilena infantile. Nel conseguente della prima semifrase, un lievissimo
tocco di pollice, un'impercettibile deformazione plastica nella creta, e lo spirito muta stato d'animo: la scaletta discendente è immutata nella linea, ma le prime tre note diventano altrettanti sedicesimi preceduti da una pausa di uguale valore. Basta quella pausa iniziale a dare slancio e fervore, come se si volesse meditare per un attimo prima di abbandonarsi alla musica.

Subito dopo, sull'onda di una piccola fanfara di corni e fagotti, lo slancio e il fervore conducono all'impercettibile ascesa cromatica delle battute 13-14, con la sostituzione enarmonica del DO diesis al RE bemolle, e all'incantevole appoggiatura sull'accordo di settima di dominante nella battuta 15. Qui davvero l'apollineo si concede a chi lo sfiora senza sforzo, come il ramo d'oro del mito si staccava dalla pianta a chi lo toccava dolcemente senza strapparlo. La grazia mendelssohniana del ponte modulante prepara il terreno alla comparsa del secondo tema, della cui felicità siamo grati al giovane autore.
Tocca al primo clarinetto introdurlo, prima con deliziosa esitazione, quasi a piccoli passi interrotti da pause di un sedicesimo, poi con il supremo incanto con cui la prima scaletta discendente, invece di concludersi, come sarebbe da credere, sulla tonica SI bemolle (il secondo tema, in ossequio alle regole, è in tonalità di dominante rispetto al primo), è seguita da un'altra scaletta che ne è quasi l'ombra, collocata più in alto a intervallo di quinta.
Franz Dubitzky ricorda che Friedrich Wilhelm Meyer, cui la Serenade fu rispettosamente dedicata, non gradì il modo con cui l'allievo disegnò l'intero contorno del secondo tema, poiché nelle battute 35-36 esso gli parve una reminiscenza dello Spinnlied delle fanciulle filatrici nel II atto del Fliegender Holländer wagneriano ". Un pedante, Meyer, ma quale occhio!
La Bläserserenade op. 7 apre al linguaggio musicale di Strauss una porta verso il grande spazio dei suoni, e sviluppa in misura decisiva la sua conquista dei timbri strumentali.
Il Festmarsch op. 1 era la prima composizione di un ragazzo già in grado di concepire una scrittura orchestrale. Cinque anni dopo, l'aurea partitura per tredici fiati non è ancora la piena rivelazione dello stile che legherà al nome del suo autore connotazioni inconfondibili, identificandosi con lui, ma testimonia, per la prima volta, che per scoprire quello stile e farlo suo egli possiede ormai tutti i mezzi.

Forse Principe esagera un filino nei peana per questa composizione del 17enne bavarese, tuttavia i 13 fiati de laVerdi sono bravi a farcene apprezzare le qualità… promettenti. Piuttosto, come accaduto tempo fa al pacchetto degli archi (in altra Serenata, quella di Ciajkovski) avrebbero anche potuto essere esentati dalla presenza del Direttore (smile!)
___
Emanuele Arciuli arriva poi per presentarci il celebre Concerto di Edvard Grieg. Lui e Marshall hanno già fatto coppia qui quasi esattamente due anni orsono (allora per un grande affresco… ansioso).

In questo lavoro Grieg si rifà scopertamente a Schumann (stessa tonalità, analogo incipit) e anticipa di quasi 20 anni, sempre nell’apertura, un altro concerto in LA minore, il doppio di Brahms. Poi naturalmente ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi.

Se Arciuli pare non voler calcare la mano (smile!) il vulcanico Marshall sottolinea in modo quasi esagerato tutti i chiaroscuri, sia di suono che di tempo, dando al concerto un’impronta… Liszt-iana.

Grande successo per i due e per Arciuli in particolare, che ripropone il bis del suo amato Debussy. Ritroveremo tutti i protagonisti di ieri fra un paio di giorni, alla Scala, impegnati in opere di bene.
___
La serata è chiusa dall’esecuzione della Seconda sinfonia di Franz Schmidt, violoncellista prima ancora che compositore vissuto a Vienna dalla fine dell’800 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Dico francamente che lo scarso interesse che suscita questa sua opera (come le altre, del resto) mi pare proprio meritato: comporre nel 1911-13 una sinfonia scimmiottando modelli ormai superati (Bruckner, Brahms) mentre il suo vecchio – e non propriamente amato - Direttore alla Hofoper aveva appena composto, prima di andarsene da questa valle di lacrime, cosucce come Das Lied von der Erde, la nona e la decima sinfonia, ha davvero del velleitario e dell’anacronistico.

A proposito di Mahler, ecco come il grande boemo giudicò un’opera di Schmidt (Notre-Dame de Paris) che il violoncellista-compositore gli sottomise nel 1904 sperando di farla rappresentare alla Hofoper: Molto bella! Ma mi spiace dire che nella sua partitura mancano le grandi idee. Appunto…

Non stupisce quindi che Schmidt, da conservatore, si trasformasse in reazionario, plaudendo al nazismo e all’Anschluss, fino al punto da comporre Deutsche Auferstehung, la resurrezione tedesca, proprio all’indomani dell’annessione (di quella che peraltro era una sua patria putativa, essendo lui slovacco-magiaro di origine). 
___
La sinfonia è formalmente in tre tempi, ma in pratica è in quattro, dato che il secondo movimento (un tema con 10 variazioni, che occupa più di un terzo dell’intera durata) si suddivide chiaramente in due: tema + 8 variazioni e Scherzo con Trio costituito dalle ultime due.

Il primo movimento (Lebhaft) è in forma-sonata con alcuna licenza (parafraso Ciajkovski…) Vi si possono distinguere le classiche componenti strutturali: esposizione di due temi (più transizione) sviluppo, ripresa e coda.

Le libertà che si prende Schmidt riguardano più che altro l’impianto tonale: primo tema in MIb maggiore, secondo (!) in SI maggiore; ripresa del primo tema (!) in SOL e SI maggiore. Per il resto, una buona dose di modulazioni, soprattutto nello sviluppo, e il rispetto delle regole nella ripresa del 2° tema, portato in MIb maggiore.  

In apertura, senza introduzione, viene esposto il primo tema, assai vivace e di carattere pastorale:


Il tema si sviluppa a piena (fin troppo!) orchestra, con soggetti secondari assai enfatici, poi il ritmo di tranquillizza, vira al minore lasciando spazio ad una transizione (pare l’Incantesimo del fuoco wagneriano…) che modula verso il SI maggiore in cui il pacchetto di 6 corni (degli 8) espone il secondo tema, più cantabile:


Anch’esso poi si anima per l’intervento di tutta l’orchestra (si odono qui atmosfere straussiane) e quindi sfuma lentamente perdendosi in lontani rintocchi dei timpani, col che si chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è canonicamente introdotto dal primo tema, in MIb, dopodiché si assiste a sue diverse modulazioni (SOL maggiore, DO minore, LAb maggiore); il secondo tema compare contrappuntando il primo sul LAb maggiore, poi modula a SI maggiore, da cui scende ancora al LAb, anzi alla sua relativa FA minore. Ci avviamo alla conclusione dello sviluppo, con una teatrale serie di pesanti accordi di corni e trombe, intercalati da sussulti di archi e legni, che sfociano in un RE maggiore, assai tranquillo, che chiude con fiati, timpani, piatti e tamtam, in pianissimo.  

La ripresa ripropone il primo tema in SOL maggiore alternato a DO e SI maggiore, la tonalità del secondo tema che viene poi esposto nel canonico MIb maggiore, sul cui sfumare dei timpani (come nell’esposizione) si passa alla conclusiva coda, che si costituisce come un nuovo mini-sviluppo dei due temi, e che chiude nella tonalità d’impianto dopo una serie di altre modulazioni.

Il secondo movimento è un Allegretto con variazioni, il cui tema in SIb, assai delicato ma anche piuttosto lezioso, è esposto da tutti e soli i legni:


Gli archi soli (contrabbassi esclusi) sono protagonisti della prima variazione, che si mantiene sul piano elegiaco del tema, esposto dai primi violini, semplicemente muovendolo con le semicrome dell’accompagnamento degli altri archi. La seconda variazione è ancora appannaggio dei soli fiati, i legni cui si aggiunge il primo corno: l’atmosfera bucolica non cambia.

La terza variazione, ancora esposta dai soli archi, imprime invece un nuovo ritmo, a partire dal tempo che, da ternario, diviene binario (2/4) oltre che dalla puntatura delle note. Una tecnica che pare mutuata dal Brahms delle variazioni op. 56. Dopo una lunga pausa ecco la quarta variazione, ancor più spedita nel tempo (Schnell, 4/4 alla breve) che comincia ad impegnare diverse sezioni dell’orchestra: mentre gli strumentini e i corni espongono il tema con note di lunghezza dilatata (semibrevi e minime) fagotti e violoncelli lo contrappuntano con svolazzi di semicrome, e i timpani e gli archi scandiscono un ritmo marziale. Si chiude con le veloci semicrome di archi, fagotti e clarinetto.

Nella quinta variazione il tempo si velocizza ulteriormente (Sehr schnell, 3/8) e muta anche la tonalità (REb maggiore, SIb minore): sono ancora i legni –divisi in due gruppi che si alternano (flauti-coboi-cornoinglese e clarinetti-clarinettobasso e fagotti - ad esporre la melodia, mentre gli archi l’accompagnano con un tappeto di tremolo, spalleggiati da timpani e piatti. La sesta variazione vede il tempo degradare ulteriormente (Langsam und ruhig) mentre la tonalità resta fra SIb e REb: un’oasi dall’atmosfera intimista ed elegiaca, cui segue la settima variazione, nuovamente veloce (Sehr schnell, 6/8, MIb minore-maggiore) e caratterizzata da una poliritmia ottenuta dalle crome (6 per battuta) dei fiati (ancora divisi in due gruppi) e le semicrome (8 per battuta) degli archi, pure divisi in due gruppi che spalleggiano il botta-e-risposta dei fiati.

L’ottava variazione è in agogica dolente (Sehr leidenschaftl, nicht zu schnell, 3/4). La tonalità di base è FA# maggiore, con una divagazione a LA. Qui l’atmosfera, dal sapore vagamente boemo, che ricorda Dvorak e Smetana, richiama forse le terre di origine del compositore.

Come detto, le ultime due variazioni si configurano come uno Scherzo con Trio. La nona, piuttosto vivace (Sehr lebhaft, 3/4) apre con 8 battute introduttive, di archi e legni (questi in corale) prima che gli archi attacchino il tema, subito inseguiti dal resto dell’orchestra. La tonalità prevalente è SIb, con digressioni al FA. Il ritmo è assai pesante e  marcato, spesso addirittura sgradevole, con eruzioni di corni, trombe e timpani piuttosto sgraziate. La decima variazione rappresenta il Trio, più lento (Sehr ruhig) prevalentemente in DO#, tempo 9/8, caratterizzato da un eccesso di strumentazione che non gli giova. Ci troviamo un po’ di Bruckner ed anche di Mahler, ma poca ispirazione. Lo Scherzo riprende (variazione 9) per concludere il movimento con una coda tanto affannosa quanto musicalmente modesta. 
  
Il Finale è un Adagio (Langsam, con qualche increspatura) che forse cerca di scimmiottare quelli di Mahler o di Bruckner: la buona volontà di sicuro c’è, ma i risultati sono assai meno… convincenti, ecco.

Anche qui c’è una prima sezione – a canone - suonata esclusivamente dai fiati, che poi cedono brevemente il posto agli archi, prima di riprendere il controllo esclusivo ed ancora lasciare poco spazio agli strumenti a corda. Poi ecco finalmente l’intera orchestra portare avanti il discorso fino alla fine, fra vaghe reminiscenze di Ciajkovski e Dvorak, e con qualche sussulto a turbare l’andamento pacato del brano.
___
Che dire? Vorrei, non posso? L’orchestrazione è mediamente di una notevole pesantezza: è raro che i temi emergano chiaramente e pulitamente da un marasma sonoro dove troppi strumenti suonano note di puro riempitivo, che finiscono per disorientare l’ascoltatore e tradiscono verosimilmente una notevole carenza di narrativa. Insomma, un pezzo che al massimo può suscitare curiosità, più che ammirazione. 

Ma che non dev’essere per nulla facile da suonare, per cui i ragazzi (e Marshall con loro) si meritano comunque una lode, e si sono meritati l’applauso del loro affezionato - anche se non proprio oceanico - pubblico.