È un
programma tutto nordico (EXPO a parte) quello
con cui Jader Bignamini ha aperto la
sessione autunnale della stagione 2015: si tratta di lavori collocati in un
arco di tempo di circa 50 anni, da 3/4 dell‘800 fino a 1/4 del ‘900.
In
apertura, per la serie dedicata alla Fiera, Nicola
Campogrande presenta il Brasile: che a noi – stando a
lui – farebbe una strana impressione, perché non vi troviamo tracce di samba o di bossanova. Ecco finalmente spiegato perché a me fa una stana impressione
l’Inno di Mameli: neanche la più
piccola reminiscenza di funiculìfuniculà!
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La parte seria (smile!) del concerto è aperta da Andrey Baranov, che ci delizia con il celebre Concerto per violino di Jean Sibelius. Del quale si è sempre –
come qui – eseguita la seconda, definitiva versione del 1905. Ma ovviamente ne
esisteva una prima (1902-4) malamente accolta dal pubblico perchè peggio ancora suonata dal solista: versione che l’Autore aveva immediatamente ritirato e severamente
proibito di eseguire, pur non distruggendone l’originale. Soltanto 25 anni orsono
gli eredi hanno deciso di consentirne una sola esecuzione e registrazione,
protagonista Leonidas Kavakos con la Lahty Symphony diretta
da Osmo Vanskä. Ascoltandola si può facilmente constatare la maggior
complessità, difficoltà ed ampollosità di questa prima versione, che spinse
evidentemente Sibelius alla decisione di alleggerirla assai, sia cassando
interi passaggi (una quarantina di battute nel solo primo movimento, quasi 10
minuti di musica nel complesso) sia prosciugando di parecchio l’orchestrazione,
così da non sommergere il suono del solista sotto quello dell’orchestra.
Preso
in mezzo tra tardo-romanticismo e prime avanguardie novecentesche, il buon Jean
cercò di uscire dall’angolo con qualche innocente strappo alle regole
classiche, che si materializza in specie nell’Allegro moderato, dove la forma-sonata viene alquanto strapazzata,
sia nella struttura che nella scelta delle tonalità. Ma siamo, appunto, ad
innocenti scappatelle, nulla di paragonabile a ciò che gli Schönberg a Vienna e i Debussy
a Parigi stavano combinando o tramando, col trarre conseguenze radicali dal
cromatismo del Tristan. Non parliamo dell’Adagio
centrale, che affonda abbondantemente le radici nell’800 (Bruch, Wieniawsky,
Lalo, per tacere di Mendelssohn); mentre un barlume di moderato modernismo
affiora nell’Allegro conclusivo, con le sue melodie appena-appena impertinenti.
Baranov si conferma interprete di valore, non solo dal punto
di vista della tecnica pura (cosa non ha saputo cavar fuori, nel primo bis, dall’ultimo Capriccio paganiniano!) ma anche e soprattutto da quello della
sensibilità e della cura dei particolari: emerse, tanto per fare un esempio,
dal diverso pathos con cui ha proposto
i ritorni del tema principale dell’Allegro
moderato.
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Il Peer
Gynt di Grieg ha avuto una
storia abbastanza strana: fu Ibsen in
persona a chiedere al musicista (di 15 anni più giovane) di comporre delle
musiche di scena per il suo omonimo dramma in versi del 1867, che lo stesso scrittore
aveva originariamente escluso dovesse/potesse essere mai rappresentato a
teatro. E così la musica di Grieg – che lo impegnò ben al di là delle sue
iniziali e ottimistiche previsioni – servì per tenere a battesimo, giovedi 24
febbraio 1876 a Christiania (oggi
Oslo) quel lavoro che poi divenne una pietra miliare della drammaturgia
europea.
Il poema originale (a sua volta partorito… a
rate, fra Roma, Ischia e Sorrento) consta di 5 atti per complessive 38 scene
(3-8-4-13-10) ed è un costrutto a prima vista bizzarro, che manda a quel paese
Aristotele e le sue unità, e dove il realismo più prosaico si mescola con
elementi surreali, fantastici, grotteschi, filosofici e tragici. C’è dentro un
po’ di Faust (Ibsen mette in bocca a Peer, storpiato, il famoso Das Ewig-Weibliche ziehet uns hinan!),
di Don Quixote, di Rodomonte e persino di… Barone di Münchausen, ecco. Va da sé
che l’intendimento di Ibsen fosse (anche) di mettere alla berlina stereotipi,
comportamenti, pregiudizi e stupidità del mondo a lui contemporaneo. Ed è
indubitabile che il lavoro sia una spregiudicata e corrosiva radiografia
dell’individuo e insieme della società ottocentesca, non solo scandinava: tutto
il quarto atto ne è una grottesca parodia, che prende di mira il colonialismo,
quello spregevole degli schiavisti ma anche quello culturale degli esploratori
tedeschi (la Sfinge che parla crucco… che poi è il direttore del manicomio!)
Chissà se possiamo anche trovare una morale
in tutto ciò, visto che il protagonista, dopo mille avventure, una più fallimentare
dell’altra, troverà pace solo immergendo il capo nel… ventre della caritatevole
Solveig, madre e sposa!
Quanto a Grieg, la sua colonna sonora (Op.23)
come pubblicata da Peters (ma ne
esistono diverse varianti, dato che venne rivista nel 1891) contiene 24 numeri
(3-7-3-6-5) e comporta anche parti cantate da solisti e dal coro. Grieg
estrapolò a distanza di qualche anno le due Suite
(op. 46 e 55) eseguite qui in Auditorium, che raggruppano in totale 8 dei 24
numeri, per una durata complessiva di circa 35 minuti, proprio un terzo di
quella delle musiche di scena complete. Lo specchietto sottostante presenta in
grandissima sintesi i contenuti del dramma di Ibsen e quelli delle tre
partiture di Grieg.
Come si noterà, le due suite (soprattutto la
prima) presentano sequenze di brani abbastanza avulse da quella delle scene del
dramma. E il famoso mattino, che apre
la prima suite (e che chiunque fischietta sotto la doccia) evoca non già
un’aurora boreale, ma… tropicale!
Con decisione saggia, Bignamini ha separato le
due esecuzioni con l’intervallo e con il concerto di Nielsen, scongiurando così
il pericolo di… saturazione che una musica pur così piacevole si porta dietro. Impeccabile
come sempre l’Orchestra, in tutte le sezioni.
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Fra le due
suite di Grieg il flautista Andrea
Griminelli ci ha proposto il quasi sconosciuto Concerto di Carl Nielsen, datato 1926. Nielsen fu
coetaneo di Sibelius (che però gli sopravviverà di più di 25 anni…) e cercò
assai più del finlandese di affrancarsi dal tardo-romanticismo, pur non
abbracciando le moderne (a quei tempi) innovazioni provenienti da Vienna e
dintorni. Il Concerto eseguito qui ne è testimonianza abbastanza chiara: pur
rimanendo sostanzialmente ancorato ai canoni della tonalità, Nielsen si sforza
di trovare soluzioni originali sia nella forma – il concerto ha due soli movimenti - che nei timbri orchestrali.
Come dimostra
subito la stridente dissonanza che caratterizza l’Introduzione, fra la linea
melodica (in RE minore) di legni e archi alti che si appoggia su un protervo
MIb di archi bassi, corni e fagotti:
E si noti allo
stesso tempo come il MIb e il LA ci sbattano in faccia il diabolico tritono: ecco, non è propriamente un attacco classico!
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L’Allegro moderato, a parte il motivo
introduttivo dell’orchestra, si articola su tre principali temi:
La
forma è piuttosto libera e i tre temi vengono presentati in sequenza, con
sviluppi contestuali; verranno poi citati nella lunga cadenza solistica che
precede la coda conclusiva.
6” Introduzione orchestrale; a 17”
entra il flauto solista che ripropone il tema introduttivo, variato. Senza
soluzione di continuità ecco (33”) l’esposizione dell’impertinente
tema (A) in MIb minore, subito
riproposto (47”) una quinta sopra (SIb minore) dopo un fugace intervento
orchestrale. Altra riproposizione di (A)
dal DO# (55”) ed un’altra ancora (1’08”) dal LA.
Dopo
un rallentando del solista che chiude
sul FA, a 1’26” ecco l’orchestra (violini e legni) proporre, in FA
maggiore, il tema (B) assai più
elegiaco del precedente: sarà lui a monopolizzare la prossima sezione. Ben
presto il flauto (1’35”) si fa carico del tema, portandolo a SIb maggiore, quindi
tornando, dopo breve divagazione (2’10”) al FA maggiore di partenza. A
2’17”
inizia un dialogo stretto fra solista e oboe, che si scambiano un breve
inciso, che a 2’29” è ripreso dal clarinetto: è lui che ora dialoga in modo
assai fitto con il flauto, attraverso una serie di rimpalli a base di terzine
di semicrome, una specie di cadenza a due, si potrebbe definire.
Si
arriva così (3’09”) alla ripresa del tema (B) nei violini, tonalità DO maggiore; tema poi rinforzato
pesantemente (3’22”) dall’intervento di corni, fagotti e bassi. A 3’38”
ecco un episodio aperto bruscamente dai timpani, protagonista il trombone
basso, che aizza il flauto a ripetuti singhiozzi che introducono una
transizione veloce verso il ritorno (4’05”) del tema (A) sul LA. Ancora un serrato dialogo flauto-trombone basso che porta
(4’17”)
il tema (A) all’oboe e ai
violini-viole (sul SI) raggiunti ancora pesantemente da corni e trombone basso.
Finchè,
improvvisamente (4’27”) ecco fare irruzione il maestoso tema (C) in MI maggiore, in legni e corni;
tema poi (4’47”) trasferito al solista che lo sviluppa in modo elegiaco
finchè (5’36”) non viene, da oboi e fagotti, richiamato… all’ordine,
cioè al tema (A) che il flauto porta
gradatamente a spegnersi (6’11”) su un LA. Qui abbiamo una
breve cadenza solistica, bruscamente
interrotta (6’36”) da ottoni e timpani che conducono ad una transizione
orchestrale in cui fa capolino ancora il tema (A) prima che il flauto solista (6’58”) con perentori
trilli chieda… la parola: sta per iniziare infatti (7’09”) la lunga e
articolata cadenza principale.
La
quale è caratterizzata dal fatto che lo strumento solista è sempre accompagnato
da (almeno) un altro: inizialmente dal timpano, che fa da sfondo a veloci
sestine culminanti nella proposizione (7’40”) del tema (A) dal LA, ribadito subito dopo dal SOL. A 8’04” subentra il tema (B) mentre il timpano tace, lasciando
il ruolo di compagnia al clarinetto, che ancora ingaggia con il solista un
botta-e-risposta a base di biscrome, e successivamente (8’22”) si alterna con lui
nell’esporre il tema (C)
contrappuntato da biscrome sincopate. Intervengono alla fine anche il fagotti,
prima che il solista (8’43”) porti la cadenza a
conclusione.
A
9’02”
si passa a SOLb maggiore con corni, fagotti e clarinetti che riespongono, con
grande calma e per terze (un po’ à la Brahms) il tema (B). A 9’25” ancora il solista ripropone il tema (C) con una divagazione variata (9’39”) al tema (A) seguito da un’impennata (9’53”)
fino al SI sovracuto, da cui discende poi per terzine, fino d adagiarsi sul SOLb,
dove (10’17”) i violini ancora ricordano il tema (B), ripreso (10’31”) dal solista che si incarica
quindi di chiudere sommessamente, sul SOLb maggiore.
Come
si vede, una brano dalla struttura assai libera, che lascia spazio alla
fantasia e quasi all’improvvisazione: interessante e gradevole, senza aver
pretese di imporsi come capolavoro.
Veniamo
ora all’Allegretto, un poco (sic). Dopo
una corposa revisione della sezione finale, con la quale Nielsen pose rimedio
all’affrettata versione originale della stessa (licenziata solo per non mancare
l’appuntamento con la prima
esecuzione) la struttura del movimento si presenta come uno spurio rondo: A-B-C-A’-B’-C’-D, dove D in
realtà non è un tema autonomo, ma è una vera e propria sezione, basata sul
ritorno reiterato del tema (A) ma dove
ricompare, variato, nel trombone basso, anche il tema (C) del primo movimento. La tonalità principale è SOL maggiore, ma
la chiusa sarà in MI maggiore.
Ecco,
a 11’29”
i soli archi, cui poco dopo si aggiunge un pedale del corno, introdurre il
movimento, con secche semicrome scandite sul primo e terzo ottavo della battuta
(2/4). A 11’43” il solista espone lo sbarazzino tema (A) in SOL maggiore, ripreso subito come
in parodia dal fagotto, che prosegue il suo dialogo con il flauto. Flauto che
poi procede ad una transizione (con intervento del corno) che porta, dopo un breve
rallentando (12’21”) al secondo tema (B)
nella (fugace) tonalità di SI maggiore.
Il
tema è ripreso (12’28”) dai violini che innescano una corposa transizione orchestrale, dove il solista si limita
a brevi incisi; transizione che chiude con un progressivo rallentando e diminuendo, che conducono ad un bizzarro cambiamento
di tempo (12’56”): Adagio ma non
troppo, sul quale il solista espone il tema (C) assai languido e praticamente atonale, che si muove per lo più
su gradi contigui. Il flauto lo sviluppa tornando (13’48”) dopo un inciso
del corno, a SOL maggiore, poi procede fino ad esaurirne la spinta, con un
ulteriore rallentamento. A 14’55” un poderoso tremolo degli
archi, accompagnati in fortissimo dai fiati porta alla riproposizione variata
del tema (C) bruscamente
contrappuntata da tre interventi in staccato
dell’orchestra.
Una
cadenza del clarinetto ci riporta (15’30”) in Allegretto, con la riesposizione del tema (A) ancora in SOL maggiore. Questa ricomparsa del tema appare però piuttosto
offuscata, scurita, insomma quasi intristita, tanto che la melodia del flauto è
costantemente calante come pure l’accompagnamento
del violino solo. A 15’59” l’orchestra propone una breve transizione, che porta (16’09”)
alla riesposizione (in DO) del tema (B).
Mentre gli archi (16’18”) ripropongono i sussulti dell’introduzione, il solista
insiste sul SOL acuto, poi (LA-SOL) sembra esplodere in un lamento; quindi un
perentorio rullo del timpano ci riporta al tempo Poco Adagio.
Qui
(16’32”)
un altro poderoso tremolo dei violini introduce la ripetizione del tema (C) negli archi bassi e viole, subito
ripreso dal solista in forma variata e portato praticamente a… morire.
Qui
(17’04”)
ha inizio la corposa sezione conclusiva del concerto. Siamo ora passati in Tempo di marcia (6/8) e sono i clarinetti,
supportati dai fagotti, a proporre, per terze,
una variante del tema (A) ancora
(per poco) in SOL maggiore. Sì, perché a 17’18” il flauto solista riprende il
tema modulando a MI maggiore e ingaggiando quindi un botta-e-risposta con l’orchestra,
che (17’45”)
propone negli archi un nuovo motivo per terzine, presto ripreso (17’52”)
dal solista, quindi ancora dagli archi.
A
18’03”
ecco l’entrata del trombone basso, che sosterrà un ruolo da protagonista:
dapprima ribadendo il tema (A), poi mentre
il solista si libra in continui svolazzi e gli archi ribattono l’incipit del
medesimo tema, riproponendo (18’09”) sempre in MI maggiore una forma
allargata del tema (C) del primo
movimento! Chiusa (18’23”) con un glissando
dal pianissimo al fortissimo dopo il quale il flauto, con
l’accompagnamento del timpano che ritma il tema (A) si imbarca in una cadenza sulla quale (18’35”) interviene ancora
il trombone in glissando.
A
18’49”
sono gli archi a riesporre un frammento del tema (A) cui segue una
transizione dove orchestra e solista si confrontano; quindi (19’09”)
ecco una specie di rincorsa dell’orchestra, che porta (19’18”) all’ultima
cadenza solistica (sempre col timpano a tener bordone) finchè si arriva (19’26”)
alle sei battute conclusive, rallentando
e diminuendo.
Che
dire: anche qui nulla di veramente straordinario, ma il prodotto di un sano
artigianato musicale.
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Griminelli non
ha tradito le attese e la sua ormai consolidata fama internazionale, rendendoci
gradevole questo brano che, soprattutto a chi lo ascolta per la prima volta,
potrebbe risultare un filino indigesto. Per lui accoglienza calorosissima ricambiata
con un bis forse dedicato al suo
indimenticabile Maestro.
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