allibratori all'opera

bianca o nera?
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07 febbraio, 2020

Il Trovatore del lettone


Ovviamente da leggersi lèttone! Ieri il Trovatore museale ha avuto il suo battesimo in un Piermarini abbastanza affollato e pure... cattivello. Che fa rima con... Trovatello (!?!) Ma andiamo con ordine, cominciando con la compagnia di canto.

Il protagonista Francesco Meli è stato il vincitore (non trionfatore, chè nessuno ha trionfato) della serata. Lui ormai garantisce un livello sempre assai alto di prestazione, grazie alla sua professionalità e alla sua preparazione. Date le sue caratteristiche... somatiche (parlo della voce, ovviamente) oserei quasi dire un’apparente bestemmia, cioè che lui sia forse il più verdiano dei Manrichi, nel senso che non si adegua (non ne avrebbe le risorse naturali) ai tenori di tradizione, quelli di approccio eroico e dal do-di-petto facile, che non è detto fossero proprio l’ideale del compositore. Però, per coerenza, consiglierei a Meli di ignorare quanto quei tenori di tradizione hanno inventato, ad esempio eseguendo la Pira senza gli acuti apocrifi (tanto più se sono SI e non DO). Prova ne sia che il suo Ah sì, ben mio è stato accolto con grandissimo calore, mentre il successivo All’armi ha suscitato non poche perplessità.

Liudmyla Monastyrska ha dignitosamente impersonato Leonora, mostrando in particolare grandi doti di portamento e di nobiltà nel canto a fior di labbra (apprezzatissimo il suo D’amor sull’ali rosee) mentre gli acuti a piena voce mostrano purtroppo qualche stimbratura e i centri non sono propriamente al meglio. Tuttavia il pubblico, cui mi associo in pieno, l’ha gratificata di un buon successo.

Il terzo vertice del triangolo (Massimo Cavalletti come Luna) è il vertice di un triangolo con la base in alto (!) Cioè l’unico (fra gli addetti ai suoni) a ricevere robusti buh all’uscita finale. E in effetti lui troppo spesso più che cantare vocifera, e ciò non si può giustificare col fatto che il personaggio da interpretare sia il cattivo di turno, chè anzi il cattivo - nell’opera lirica - è tanto più apprezzato quanto meglio canta (vedi Iago, Alberich, Mefistofele e compagnia).

Fuori dal triangolo (amanti vs rompipalle) c’è il personaggio più robusto, anche musicalmente, dell’opera: la sbifida Azucena. Violeta Urmana la canta da una vita e anche solo per questo fa sempre un figurone. Certo, oggi anche per lei gli anni (quasi 60) cominciano a pesare, ma insomma... avercene.

Chi mi ha fatto ottima impressione è Gianluca Buratto, un Ferrando autorevole e sicuro (non fosse altro che per la responsabilità che si ritrova a dover rompere il ghiaccio). Ampia sufficienza per gli accademici Caterina Piva (Ines), Taras Pryziashniuk (Ruiz) e Giorgi Lomiseli (Zingaro) e per l’ex-accademico Hun Kim (messaggero).

Mario Casoni ha come sempre garantito una prestazione di buon livello del coro, che peraltro in un paio di frangenti mi è parso in... asincronia con Luisotti, chissà per colpa di chi.

Ed ecco appunto il Direttore. Ho colto alcuni chiari mugugni dal loggione, dopo il primo atto, che non erano immeritati, ma allora perchè poi perdonarlo alla fine? Visto che (mi pare) nei tre atti successivi non ha fatto ne’ peggio nè meglio. La sua è una direzione che definirei approssimativa, con qualche eccesso di fracasso gratuito, più di una gigionata sui tempi e con più di uno scollamento con il palcoscenico, anche se non arriverei a parlare di disastro. L’Orchestra ha evidentemente seguito (ed eseguito...) l’approssimazione del Kapellmeister. Di solito sono cose che succedono se si ha provato poco, chissà se nelle prossime recite le cose andranno meglio.
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Disfatta clamorosa invece per il team di Alvis Hermanis, letteralmente subissato di improperi all’uscita finale. Devo dire che non mi sono associato agli improperanti, per un paio di ragioni.

La prima è che al legista lettone va dato atto di non aver inventato le solite stupidaggini, tipo ambientare la vicenda fra cosche mafiose o bande di ragazzacci del Bronx, nè di proporre strindberghiane crisi della società borghese: la sua trovata di far raccontare la storia ad addetti di un museo in cui ambientarla sarà certo della serie famola strana, ma appunto fa pochi danni.

Fa colpo l’impiego, in scene e costumi, di 100 varietà di rosso, che forse vogliono tradurre cromaticamente il concetto che il Trovatore è un’opera di morti. Quanto ai dipinti della pinacoteca, mi è parso di cogliere che ad Aliaferia e al chiostro siano a soggetto religioso, mentre a Castellor sono a soggetto laico: non so se per il regista sia questo un modo per distinguere le due forme di società che si contrappongono nell’opera. Alla fine i quadri di Castellor vengono accatastati per esser dati alle fiamme (altra vampa) ad Aliaferia, ma poi anche quelli di Aliaferia spariscono (sempre per via di... tutti morti?)

La seconda ragione di non-dissenso è la recitazione dei personaggi e la gestione dei movimenti delle masse: sui quali aspetti della regìa non solo non mi sentirei proprio di infierire, ma al contrario spenderei qualche meritato apprezzamento.

Il definitiva, una proposta accettabile della quale casomai mi vien da sospettare l’efficacia del cosiddetto price/performance, che temo (visto che paga pantalone) sia purtroppo esorbitante.

02 febbraio, 2020

Il Trovatore al museo della Scala


Arriverà fra poco a Milano da Salzburg (per disinteressata intercessione di Alex Pereira) il Trovatore reinventato nel 2014 dal visionario Alvis Hermanis (di lui qui al Piermarini ricordo un cervellotico Soldaten del 2015, un passabile Foscari e una discreta Butterfly del 2016) che ci porterà a visitare un museo milanese, che evidentemente impersona con grande fedeltà la Spagna di fine 1300 - inizio 1400 (evabbè...)

In attesa... qualche cazzeggio, visto che sull’opera si è scritto di tutto e di più. Segnalo quindi un paio di curiosità, cominciando dal libretto. Come si sa, Salvadore Cammarano lo scrisse ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora).

Ora, il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco prescrive la presenza in scena di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile che il baritono sia persona di potere (altrimenti verrebbe facilmente snobbato) mentre il tenore è di solito un tipo di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, per difendere il suo tenore e difendersi dal baritono.  

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e... prepotente; e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore. Il tenore mostra anche grande magnanimità, allorchè (consigliato da una specie di sesto-senso) risparmia la vita al baritono, ormai vinto in duello; mentre il suddetto baritono non esita in cambio a ferire il tenore, nella successiva battaglia. La sua protervia si manifesta poi nel modo con cui tratta il soprano: subito prima di cantarne le lodi in una grande aria (quella del... dardo, haha!) lui ha mostrato di considerarla una donna-oggetto, una cosa di sua proprietà (Leonora è mia!)

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia (poco o tanto) più anziano del fratello tenore. E infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Quindi: tutto a posto... ? Ma allora, dove sta la curiosità cui ho fatto cenno più sopra? Nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è precisamente invertita: è Manrique (Juan) il maggiore, mentre il Conte (Nuño) è più giovane di due anni! Racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Però nell’opera lirica sarà difficile che il baritono sia più giovane del tenore. Lì la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano. Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire un poco certe... ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte esterrefatto: él es... tu hermano, imbécil!
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E ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la struttura così (numero di battute): prima esposizione (38); tempo di mezzo (intervento di Leonora in DO minore, 11); pedestre riesposizione (38); coda con pertichini del coro (38); e chiusura strumentale (8).

La tonalità è DO (maggiore-minore) e la nota più alta toccata (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo...)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione e due volte un DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’intervento di Leonora e la ri-esposizione, spostando il DO4 alla prima.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI! Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:
Se il tenore, sul fi(-glio) invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all'orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Chi si vuol divertire (si fa per dire...) può andare su youtube (munito di tastiera, materiale o informatica) e cercare di quella pira... e troverà una quantità industriale di riferimenti, scoprendo ad esempio che tenori (DelMonaco, Pavarotti, Domingo, per far solo alcuni nomi illustri...) da giovani eseguivano i DO e da... maturi abbassavano al SI. O che Bonisolli, Corelli e DiStefano si sparavano i DO a gogò, e così via. Interessante il doppio-Licitra:  a SantAmbrogio 2000 (Muti imperante!) esegue il Verdi originale; poco dopo, alla ROH (con Rizzi) si fa anche i due DO4.

Fra pochi giorni a Milano ci sarà Francesco Meli, cimentatosi da anni nella parte, che sempre (salvo prova contraria) ha cantato la cabaletta in SI: così fece a Salzburg nel 2014 e anche qui alla ROH (ripetendo peraltro l’esposizione). 

Staremo a vedere e - soprattutto - sentire!

11 dicembre, 2016

La Butterfly del 17/2/1904: piace, ma andrebbe fatta a febbraio

 

Per riempire di credibilità la proposta di fare la Butterfly originale, logica vorrebbe che la si fosse messa in scena a partire dal 17 febbraio. Così ci sarebbe stata maggior precisione riguardo alla ricorrenza storica, dato che il 17/2/2017 sarà un venerdi, tipico giorno foriero di disgrazie (smile!) come quel mercoledi del 1904. Il pubblico più, diciamo, preparato, avrebbe volentieri trattenuto la curiosità per un paio di mesi; quello meno preparato starà ancora chiedendosi se il fiorito asil sia stato espunto perchè il tenore aveva problemi a cantarlo...

Meno male che Chailly (che un certo pubblico preparato vorrebbe fosse licenziato in tronco insieme al suo mentore Pereira) ci abbia indorato la pillola in maniera egregia, e insieme con il regista Hermanis ci abbia consentito non solo di non infierire sull’opera, come fecero a suo tempo i nostri nonni e bisnonni, ma di apprezzarla comunque e di applaudirla. Il primo lo ha fatto con una direzione sobria e priva di velleitarismi da quattro soldi e con una raffinata concertazione che ha mascherato alcune (più o meno veniali) pecche della compagnia di canto; il secondo con un allestimento intelligente e rispettoso del testo scritto, suonato e cantato.

Dunque, grande prova del Direttore e dell’Orchestra (dentro la quale mi piace rivedere il bravo Max Crepaldi, storico primo flauto de laVERDI ed ora secondo di Marco Zoni alla Scala) che hanno valorizzato al meglio tutti i tesori di questa partitura, che Puccini dovette amare forse più di ogni altra, stando alle continue cure cui la sottopose durante i 20 anni che gli rimasero da vivere.

Maria Josè Siri è una Cio-cio-san praticamente perfetta sul piano attoriale: si è calata completamente nella psicologia del personaggio, di cui fa emergere tutta la poliedrica complessità, dall’infantile ingenuità fino, all’opposto, all’estrema inflessibilità delle sue convinzioni. La voce è bella, corposa, specie nel centro, e l’espressività (fondamentale in un ruolo come questo) assolutamente apprezzabile. Qualche incertezza mostrata alla prima (come perlomeno emergeva dalla trasmissione radio) è evidentemente stata superata di slancio.

Accanto a lei una convincente Annalisa Stroppa, 30-cum-laude per l’interpretazione e un meritato 27 per il canto: insomma, ha dato il suo fondamentale contributo alla produzione... lacrimogena!

Il presuntuoso imperialista yankee è impersonato da Bryan Hymel: la sguaiatezza psicologica c’è proprio tutta... peccato che non si limiti ai gesti esteriori, ma sconfini un po’ troppo anche nel canto. Tuttavia non mi sento proprio di dargli un’insufficienza: la voce non gli manca, va meglio gestita, evitando ingolature e suoni eccessivamente aperti; che dire, che può solo migliorare (!)

Carlos Álvarez, da vecchio (si fa per dire, a 50 anni...) marpione qual’è, ci propina uno Sharpless precisamente come da copione: un buon padre di famiglia (che questa versione originale priva però di una parte fondamentale del suo ruolo, trasferita a Kate) che non ha, musicalmente, da scalare montagne, e che quindi il baritono spagnolo riveste al meglio della sua voce calda e penetrante.

A proposito di Kate, che qui sottrae a Sharpless una parte di responsabilità, la Nicole Brandolino ha fatto onorevolmente il suo compitino (così fa pure rima): ampia sufficienza per lei, che evidentemente, per andare sul sicuro, parlava sempre rivolta a... Chailly!  

Di Carlo Bosi si conosce la voce squillante e penetrante, doti che contribuiscono a renderci al meglio il personaggio buffo e un po’ vanesio di quel bizzarro venditore di generi assortiti (dalle case alle... mogli) che risponde al nome di Goro.

Gli altri sono personaggi, come si dice in gergo, di contorno; il nobile riccastro Yamadori (un collezionista di mogli cui evidentemente mancava ancora una donna giapponese convertita al cattolicesimo... merce rara) è un dignitoso Costantino Finucci; Yakusidé, che qui ha una parte più corposa che nella versione tradizionale, è Leonardo Galeazzi che ce la propone con sufficiente efficacia. Meno convincente l’invasato zio Bonzo, al quale Abramo Rosalen presta una voce poco... invasata, ecco, di cui Chailly si è forse fidato un po’ troppo. Gli altri cinque (vedi locandina) come da contratto sindacale.

Il coro (di Casoni) deve principalmente (non solo, si capisce) mugugnare (in senso buono, s’intende) e lo fa con la consueta professionalità.
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Alvis Hermanis (alla terza comparsa qui dopo un – per me – lunatico Soldaten e un passabile Foscari) non ha rischiato quasi nulla (e infatti gli schizzinosi che vedono la tradizione come muffa puzzolente lo hanno bersagliato di insulti) e si è concesso poche libertà, tutto sommato non proprio fuori luogo. Ad esempio, la trasformazione della dimora di Butterfly, da tipicamente giapponese (primo atto) a scimmiottante americana (secondo atto) sarà pur assente nelle didascalie del libretto, ma è presente in modo addirittura smaccato nel testo: dalla presentazione di Butterfly (Mrs. Pinkerton, please!) al suo benvenuto al mio console (Sharpless) in una casa americana! Che nei tre anni di attesa la poverina abbia girato i rigattieri di mezza Nagasaki per procurarsi tutto ciò che di occidentale potesse scovare (immagine del Sacro Cuor di Gesù inclusa) è cosa perfettamente compatibile con la psicologia del personaggio, quindi buona l’idea del regista-scenografo.

Assolutamente centrata l’impostazione della recitazione, con punte di diamante le due protagoniste femminili. Belli ed appropriati i costumi (con una piccola caduta di stile per il bonzo, una eccessiva caricatura) e poetiche persino le piante finte con i petali finti (qui peraltro il vecchio Appia avrebbe dato in escandescenze!)

Se si esclude l’esagerata e un po’ disturbante presenza di figure metafisiche... materializzate nell’ultima scena, mi pare che l’impianto del regista sia da giudicarsi più che apprezzabile. Certo, i soliti incontentabili, a cui magari piace vedere la Butterfly trasformata in un crudo e impegnato reportage sul triste fenomeno del turismo sessuale, dove lo spettatore alle lacrime sostituisca l’indignazione, ovviamente parlano di banalità, odore di muffa e scarso coraggio del regista. D’altra parte Puccini era uso dire che il suo obiettivo scrivendo opere era di far piangere il pubblico, non certo di dargli dei pugni nello stomaco!  

Tirando le somme: a parte la scelta della data, mi sento di dire che trattasi di una proposta da promuovere a pieni voti, proprio come ha fatto il pubblico anche ieri notte!

13 marzo, 2016

I fratelli Foscari alla Scala

 

In barba alla storia, al dramma di Byron e al soggetto di Piave, I due Foscari in scena alla Scala (ieri la quinta delle nove recite) non sono padre e figlio, ma fratelli. Sì, proprio come un certo Boccanegra era fratello di Maria-Amelia e un tale Rigoletto era fratello di Gilda. Insomma, avete già capito: uno come il topone proprio nei panni di un vecchio padre non ci può entrare; e mica per la sua età (se è per quella, potrebbe benissimo fare anche il... nonno) ma per via di una voce che neanche a martellate riesce a rientrare nel minimo sindacale del baritono tout-court, non dico in quello del baritono verdiano, ecco.  

Paradossalmente, le grandi qualità attoriali di Domingo, emerse magnificamente anche in questa occasione, invece di costituire un argine all’estraneità della voce rispetto al ruolo, la mettono ancor più in risalto! Comunque proprio ieri l’equivoco si è risolto: per le quattro recite che restano arriverà infatti un baritono standard (no-Rolex). Certo che in fatto di deontologia professionale il simpatico topone lascia parecchio a desiderare; e con lui tutto l’entourage che gli permette di esibire (lucrandoci!) tale discutibile deontologia. E così di questo passo accetteremo che un soprano lirico un po’ invecchiato ma ben reclamizzato canti Azucena o – nello strumentale – che il concerto per violoncello di Dvorak lo suoni un violinista con l’accordatura a 256!

Peccato perchè per il resto devo dire che la prestazione musicale complessiva mi è parsa di livello notevole, grazie alla convincente direzione di Michele Mariotti, sempre più sicuro anche quando va in trasferta da Pesaro a Roncole, alla buona prestazione dell’orchestra e alle voci di Francesco Meli (che conferma il successo dell’inaugurale Giovanna) e di Anna Pirozzi, una Lucrezia contestata (da pochi, pare) alla prima, ma che a me è parsa decisamente all’altezza: la voce è davvero notevole (per timbro, calore, morbidezza) e la tecnica sarà ancora un poco acerba, ma è già di livello più che apprezzabile. A ciò va aggiunta la prova più che dignitosa del coro di Mario Casoni (peraltro impegnato qui da Verdi in modo non proibitivo) e quella onesta degli altri comprimari.

Insomma, dopo la positiva apertura con Giovanna, ecco un altro Verdi carcerato che ha avuto la sua meritata... scarcerazione!     
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Quanto all’allestimento, devo dire che Alvis Hermanis ha fatto molti meno danni di quanti ne avesse combinati una anno fa con Die Soldaten, il che è già una buona notizia... ma non basta a giustificare la parcella. Si dice che per prepararsi adeguatamente abbia trascorso un periodo di ambientamento a Venezia: mah, visti i risultati, forse wikipedia gli sarebbe bastato ed avanzato! Al proposito, tale Olivier Lexa, di professione drammaturgo (in parole povere: un peso morto che noi paghiamo profumatamente per proporci aria fritta!) ci racconta sul programma di sala la genesi e i razionali (?!) dell’allestimento di Hermanis. Mi ha fatto sbellicare una sua sentenza, che cito alla lettera, a proposito del testo di Piave: uno dei rari libretti d’opera che possono facilmente vivere privi della musica (!!!)   

A proposito del programma di sala: quello della Scala detiene tradizionalmente il record assoluto in fatto di price/performance, roba da chiodi. E che il price della carta patinata sia prevalentemente pagato dalla pubblicità delle varie BMW e ROLEX (toh, la pagina 4 di copertina tutta dedicata al topone!) non è attenuante valida. In questo numero, tanto per fare un esempio di quanta poca cura vi sia alla correttezza dei contenuti, viene contrabbandato (pag.95) come opera del Carpaccio dal titolo Il miracolo della croce a Rialto un quadro che è invece Il miracolo della croce caduta nel canale San Lorenzo del Bellini (quello del Carpaccio è presentato poi a pag.99).

Tornando a Hermanis(-Lexa) veniamo a sapere che i 10 danzatori che scorrazzano spesso e volentieri in giro per il palcoscenico rappresenterebbero, ohibò, i Senatori del Consiglio dei Dieci. Ma che tali figuri siano dei pipistrelli ce lo dice la musica di Verdi (sul testo di Piave) senza bisogno di ridicoli balletti didascalici...

Le scene sono scarne e minimaliste, velleitariamente impreziosite da proiezioni di scorci veneziani, da diapositive di quadri d’epoca o ridicolmente abitate da branchi di leoni-di-sanmarco di cartapesta (sempre in numero di 10, quanti i Senatori-danzatori, ovvio); nel finale compare anche un letto a baldacchino – su cui si accascerà morto il Doge - che ci sta come i cavoli a merenda; i costumi sono ricchi e plausibilmente riferibili all’epoca quattrocentesca in cui è ambientata la vicenda; nulla di speciale nell’impiego delle luci.

Del tutto prevedibili e tradizionali i movimenti dei personaggi, esclusi i danzatori intrusi (sempre i soliti 10 che da gondolieri si portano anche dietro il proprio remo palo per la pole-dance!) un vezzo registico che sta peraltro facendo il suo tempo; i protagonisti sembrano liberi di cantare posando come piace a loro, e in ciò Domingo ovviamente primeggia, gli altri fanno del loro meglio.

Insomma, una regìa che non fa danni (e questo oggigiorno non è da poco) allo spettacolo, mentre sicuramente ne fa alle casse del Teatro (quindi: alle nostre tasche) chè la stessa performance si potrebbe verosimilmente ottenere con un price ridotto del 70% almeno...
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Alla fine grandissimo trionfo per tutti, incluso e per primo Domingo (che per me invece resta l’unica nota stonata, se vogliamo parlare di teatro con l’attributo musicale...) con ripetute chiamate e ovazioni da parte di un pubblico che ha finalmente gremito il Piermarini in ogni ordine di posti.

Dopo le tre prime prove, devo ammettere che questa stagione 15-16 mi pare di livello chiaramente migliore di quelle che l’hanno preceduta: che sia solo e tutto merito della nuova accoppiata sovrintendente-direttore non saprei dire... spero solo che continui così! 

23 aprile, 2015

Famigliastre a Bologna

 

In questi giorni è di scena a Bologna la Jenůfa di Leóš Janáček, che ieri pomeriggio è arrivata alla penultima delle sei rappresentazioni, che si concluderanno questa sera.

Opera dal soggetto cosiddetto verista, presentando uno spaccato di vita rurale di remote periferie della Moravia e trattando di vicende abbondantemente legate alla cronaca nera. Ma dove non manca il richiamo alla genuinità della vita della gente comune, capace anche di esprimere le più elevate qualità etiche.

L’intreccio del dramma (tutto sommato… a lieto fine) coinvolge prevalentemente persone appartenenti ad una stessa famiglia allargata, quella che fa capo alla vecchia, vedova ormai da tempo, nonna Buryjovka; ma dalla lettura del libretto di Janáček si fatica a comprendere l’intricata matassa dei rapporti di parentela intercorrenti fra i 5 protagonisti principali: la nonna appunto, i tre suoi nipoti (Laca, Števa e Jenůfa) e la nuora Kostelnička. Per dipanare la complicata matassa ci si deve quindi far aiutare dal testo del dramma teatrale - 1890, cui seguirà molti anni dopo un più dettagliato racconto di pari soggetto - di Gabriela Preissová, dal quale il compositore trasse ispirazione per il suo libretto; dramma dal titolo Její pastorkyna (La sua figliastra); titolo che Janáček mantenne per l’opera, anche se poi per vari motivi a quello subentrò il nome della protagonista.

Nell’albero genealogico che segue sono rappresentati appunto i 5 principali personaggi dell’opera, indicati in rosso (gli altri sono tutti ormai… defunti):


Come si deduce, siamo di fronte ad uno scenario a dir poco… incasinato: dico, di gradi di parentela diretti non ce n’è uno che è uno: fra fratellastri, figliastri e matrigne, il rapporto più diretto è quello della protagonista con il suo primo amore, cugini di primo grado.

Tanto per chiarire: i due uomini (Laca e Števa) che si contendono (almeno per un po’) l’amore di Jenůfa sono figli della stessa madre, ma di padri diversi: il primo, di tale Klemen, il secondo del primogenito di nonna Buryjovka. Laca quindi è più anziano, ma tutta l’eredità dei Buryja (il mulino e proprietà connesse) va al fratellastro, per ragioni di… sangue (residui di maggiorascato!) così a Laca viene semplicemente concesso di lavorare al mulino, come qualunque altro estraneo. Da parte sua Jenůfa è figlia del secondogenito (Tomas) di nonna Buryjovka e di una donna (Jenůfa-sr, figlia di un albergatore) morta poco dopo averla data alla luce (per questo la bimba ne prende pari-pari il nome). Tale Petrona Slomkova, che invano aveva puntato Tomas da scapolo, lo ha poi sposato da vedovo, e alla morte di costui ha trovato impiego come sacrestana (Kostelnička) presso la locale cappella: Jenůfa-jr (la sua figliastra, appunto, come dice il titolo) viene da lei allevata come una figlia.
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Ora qualche nota sulle personalità dei protagonisti, come emergono dal testo della Preissová, e poi dal libretto e dalla musica di Janáček. La figura centrale è fuor di dubbio quella della Kostelnička, poiché è lei che determina, nel bene e nel male, ogni singolo sviluppo del dramma che si consuma nella sperduta Veborany. Lo stesso titolo della fonte di Janáček (che il compositore originariamente trasferì anche all’opera) lo testimonia senza ombra di dubbio: Jenůfa vi compare implicitamente, indicata come la sua (della Kostelnička, appunto) figliastra, quindi l’enfasi è sulla titolare di quel sua!

I cui comportamenti evidenziano una chiara instabilità psichica, che un suo conterraneo e contemporaneo avrebbe potuto analizzare e magari curare applicando le sue recenti scoperte in tema di psicanalisi: peccato che Petrona Slomkova non abbia avuto la ventura di passare a Příbor per farsi visitare da tale Sigismund Shlomo Freud!

Certo, il suo equilibrio psichico doveva essere stato turbato da tutta una serie di circostanze esistenziali particolarmente avverse. Dunque, vediamo: Petrona riceve un’educazione assai severa dal padre (para-medico molto rispettato in paese) e alla morte di lui deve accudire la madre (donna pia e in perenne ansia che qualche uomo le porti via la figlia). A 27 anni – quindi non più una ragazzina – conosce Toma Buryja (bello e pure ricco!) e se ne innamora. Ma lui sposa un’altra (Jenůfa-sr) che muore partorendo una bimba (Jenůfa-jr).

Allora è Toma a cercare Petrona, la quale decide di sposarlo, attirandosi così mille maledizioni dalla madre, che non può vedere quel poco di buono (la suocera Buryjovka invece è ben felice che una donna proba tenga a bada il figlio scapestrato). La stessa Petrona deve presto pentirsi del matrimonio, viste le abitudini del marito, che beve e perde tutte le sue sostanze al gioco e a lei riserva solo maltrattamenti. Per di più lei ha scoperto di non poter avere figli, e da questa frustrazione nasce un amore possessivo per la piccola Jenůfa, che è l’unica cosa che le rimane alla morte del marito, ucciso accidentalmente dalla fucilata di un cacciatore.

La sua rettitudine e moralità le fanno ottenere il posto di sacrestana (Kostelnička). Quando i due fratellastri Števa e Laca cominciano a frequentare Jenůfa, ormai adolescente, le simpatie di Petrona vanno istintivamente a Laca: primo perché lui è (precisamente come lei stessa) estraneo alla famiglia Buryja e quindi penalizzato (tutta l’eredità va a Števa) e secondo perché è un ragazzo con la testa a posto, al contrario del fratellastro che assomiglia – quanto a cattive abitudini – allo zio Toma.  

Naturale quindi che lei sia contraria alla relazione della figliastra con Števa, ma quando fra i due sopravviene il fatto compiuto tutta la sua esistenza è volta al perseguimento del bene (o del… minor male) di Jenůfa: così la nasconde fino al parto e contemporaneamente comincia a sperare che il bimbo (del peccato, quindi sbagliato) non veda la luce; e quando la vede, dice direttamente in faccia alla figliastra di augurarsi che Dio le tolga quel figlio dalle mani. Per rispetto delle convenzioni di cui è impregnata, cerca comunque di convincere il padre ad addivenire alle classiche nozze riparatrici. Mancato questo obiettivo, la sua decisione è ormai presa: sopprimere il bimbo (qui non è da escludere un inconscio senso di invidia per la figliastra, che un figlio lo ha avuto, mentre a lei era stato negato…)

Ma arriva inaspettatamente Laca, nonostante tutto ancora e sempre innamorato di Jenůfa, e la donna è costretta a rivelargli il segreto. Però prima che lui possa pensare a mente fredda all’eventualità di prendersi la figliastra sua con annesso pargolo del fratellastro suo (al quale l'infante già somiglia come una goccia d’acqua!) lei lo previene con la menzogna della morte del piccolo, tanto è convinta dell’assurdità di una simile soluzione: ma come, Laca dovrebbe sposare Jenůfa e riconoscere come suo il figlio del fratellastro che gli ha violato anche la moglie, dopo essersi preso tutta l’eredità della famiglia? No, l’unica soluzione buona (o meritata) per tutti - e persino benedetta dal suo Dio - è la soppressione del neonato: ciò farà il bene della figliastra e di Laca (che infatti, alla fine, vivranno felici e contenti!); risparmierà al piccolo innocente una vita di umiliazioni, facendogli raggiungere immediatamente il Paradiso; e infine caricherà sulle spalle del fedifrago Števa un meritato, pesante ed eterno rimorso.

Accipicchia, il Dottor Freud avrebbe avuto materia per scriverci più di un tomo di psicanalisi!

Quanto alla povera protagonista, lei è una donna sfortunata fin dalla nascita, per la perdita della madre e più tardi del padre: rimane quindi alla mercè di una matrigna tanto possessiva quanto amorevole, che di fatto cerca di sequestrarle ogni libertà di pensiero e di movimento, e successivamente di indirizzare a modo suo la spinosa gestione della nascita e del futuro del nipotino. La stessa conclusione della vicenda ce ne mostra l’intrinseca debolezza di carattere e la subalternità di fronte ad eventi che appaiono decisamente più grandi di lei.

Il personaggio di Laca, come detto, ha qualche punto di contatto con quello della Kostelnička: è figlio della stessa madre di Števa, del quale però non condivide la fortuna, né quella economica, né quella sentimentale, sempre preceduto sul traguardo dal più giovane e privilegiato fratellastro. Naturale che provi risentimento verso quest’ultimo, ma anche verso Jenůfa, rea di preferire il bello e ricco (ma anche vuoto e inaffidabile) Števa a lui che è buono e fedele, ma povero. E così la sua frustrazione sfocia nell’atto violento di sfregiare una guancia della ragazza che gli si nega. Da notare al proposito che sono proprio lui e la matrigna di Jenůfa a rendersi responsabili dei due crimini che caratterizzano la vicenda.

Števa è il classico figlio-di-papà, già nato con la camicia e al quale vanno (fino a un certo punto!) tutte bene: si prende l’eredità, è il prediletto della cugina, ha fortuna con le donne, antepone la bella vita ai doveri familiari, riesce ad evitare il servizio militare e infine può scegliersi in moglie la figlia della massima autorità locale! La fine ingloriosa che gli viene riservata sembra quasi una giusta punizione divina per il suo comportamento irresponsabile.

Per ultima, nonna Buryjovka: è un personaggio opaco, privo ormai di qualunque iniziativa; una vecchia che non riesce a comprendere che il mondo sta cambiando e che subisce passivamente gli avvenimenti che accadono attorno a lei; non a caso è l’unica persona della famiglia ad essere assente dal secondo atto, dove si sviluppa tutto il dramma dei Buryja. Fuori dalla cui cerchia si muove il microcosmo della gente di Veborany, tipica comunità rurale arretrata e un po’ bigotta, ma proprio per questo anche naïf e perfettamente strumentale all’obiettivo di Janáček di circondare il cuore del dramma con squarci di musica che raccontano l’innocente ingenuità della sua gente.
   
I tre atti dell’opera (come del dramma originario) coprono un arco di tempo di alcuni mesi: un’estate (o inizio autunno) dove scopriamo il segreto legame fra Števa e Jenůfa, già incinta; l’inverno che fa da sfondo alla nascita – e alla tragica morte prematura! – del piccolo Števa-jr; e la successiva primavera – a un anno di distanza dal concepimento del figlio di Jenůfa - dove assistiamo al ritrovamento del cadaverino, al dramma della Kostelnička, alla punizione morale di Števa e al lieto fine fra Laca e Jenůfa.

Conseguentemente i tre atti si configurano come un’alternanza di due scenari caldi e sereni (ma all’interno dei quali si materializzano colpi di scena drammatici) e di uno cupo, tragico e gelido, proprio come l’inverno.
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La musica di Janáček ha qualcosa di inafferrabile, ne veniamo colpiti per la sua indifferenza a canoni o stereotipi consolidati (a fine ‘800): non ci sono ovviamente arie o romanze in senso tradizionale, ma nemmeno un organico intreccio di motivi conduttori sul modello wagneriano, se si esclude l’insistente ritornare del martellante inciso dello xilofono, che pare segnare l’implacabile scorrere del tempo, precisamente come l’incessante ruotare delle pale del mulino dei Buryja.

La strettissima aderenza, scientificamente studiata e perseguita in tutte le opere di Janáček, ai fonemi della sua lingua, anzi del dialetto moravo-slovacco, ci rendono questa musica – anche a causa dell’estraneità di quegli idiomi rispetto alle nostre consuetudini - piuttosto bizzarra, pur se istintivamente accattivante. Ci sentiamo qua e là echi mahleriani, ma anche pucciniani e una continua mutevolezza di tonalità e modalità; il tutto intrecciato a motivi di (apparente) origine folklorica, che il compositore raccoglieva meticolosamente dalle strade e poi ricostruiva secondo la propria sensibilità.

L’opera ebbe un’esistenza piuttosto travagliata, fin dalle prime apparizioni ad inizio ‘900, e solo negli ultimi decenni ha ritrovato uno spazio relativamente stabile nei repertori dei teatri, soprattutto grazie alla dedizione del compianto Charles Mackerras, che oltre a dirigerla più volte ed inciderla su CD ne ha avviato la ricostruzione della versione originale (portata a termine anni fa dal musicologo inglese Mark Audus).

Non esiste – e difficilmente potrà mai esistere – una versione critica ed autorevole della partitura, a causa dei mille interventi operati su di essa, a partire dalla prima esecuzione a Brno del 1904, dallo stesso Autore (che ne distrusse ogni schizzo o manoscritto) e da altri, primo dei quali il direttore Karel Kovařovic, che dopo un iniziale categorico rifiuto a prendere in considerazione l’opera si convertì ad una profonda stima per essa e per il fino allora disprezzato Janáček, insieme al quale curò una profonda revisione e riorchestrazione della partitura in vista della prima a Praga nel 1916.
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Questa produzione di Bologna viene dalla Monnaie di Bruxelles dove è già stata collaudata lo scorso anno. La messinscena è firmata da Alvis Hermanis (già visto all’opera pochi mesi orsono con la scaligera Die Soldaten) che ha creato uno spettacolo di indubbio fascino, pur con alcuni aspetti decisamente opinabili.

A cominciare dalla radicale differenziazione fra gli ambienti solari e quasi operettistici degli atti esterni e quello iper-verista dell’atto secondo: tutti rigonfi di colore e di arte floreale i primi, con bellissimi costumi (Anna Watkins) esageratamente modellati sul folklore moravo; calato in una realtà da comunismo reale il secondo, in una lurida stamberga immersa nel disordine più totale. Contrasto – per me – eccessivo, poiché distorce, ingigantendone arbitrariamente le distanze, le reali proporzioni fra le tre sezioni del dramma. Che anche nel primo atto ha la sua bella componente cruda e verista, con la sfregiante coltellata di Laca, che qui proprio non si vede, o quasi.

In compenso nel secondo atto tutto viene caricato di eccessiva crudezza, e persino si falsificano particolari importanti. Ne cito uno abbastanza macroscopico: nell’originale, Števa, pur invitato più volte dalla Kostelnička, non ha il coraggio di entrare nella camera dove dormono Jenůfa e suo figlio, e se ne va senza vederli. La matrigna subito dopo esterna il desiderio di gettare il piccolo ai piedi del padre, per convincerlo ad accettarlo. Bene, Hermanis ci mostra invece proprio il desiderio irrealizzato della matrigna, che prende il neonato e lo scaraventa in braccio al padre, che a sua volta si commuove cullandolo e sembrerebbe sul punto di tenerlo con sé… Guarda caso, nel finale dell’opera, il corpo del piccolo (contrariamente al testo originale) ricomparirà in braccio a Jenůfa che lo consegnerà alla matrigna nel momento in cui questa viene arrestata: cosa magari di grande effetto, ma credo proprio estranea allo scenario psicologico della conclusione della vicenda. Non parliamo poi della brutale crudezza della chiusura dell’atto secondo, dove vediamo la Kostelnička, in preda ad un’autentica crisi epilettica, stipare nel freezer i panni del piccolo che lei ha appena sepolto nel ghiaccio vicino alla roggia. Insomma, per me troppi contrasti: eccessivamente zuccherosi e stereotipati il primo e il terzo atto, truce assai più del dovuto il secondo.

Aggiungo infine di aver poco digerito la presenza delle 16 (pur bravissime!) danzatrici che accompagnano tutta l’azione nei due atti esterni (ma con una fugace apparizione anche nel secondo): sono a mio avviso elementi che finiscono col togliere, invece che aggiungere, valore alla messinscena. Che ha ovviamente tanti lati interessanti ed intelligenti: cito fra tutti la suddivisione orizzontale della scena, nella cui parte superiore prendono posto i cori del primo e terzo atto.
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Benissimo sono andate le cose sul piano musicale: Juraj Valčuha ha diretto con grande cura del dettaglio e sobrietà di gesto, valorizzando in pieno le doti dell’orchestra (lo xilofono era intelligentemente posto nel palco di barcaccia di sinistra) e soprattutto concertando alla perfezione le voci.

Fra le quali è emersa, per imponenza, piglio da grande soprano drammatico e impeccabile tecnica, quella di Angeles Blancas Gulìn, una stupefacente Kostelnička!

Alla sua altezza il Laca di Jan Vacik (tenore di stampo eroico) e la protagonista Ira Bertman, a suo agio in questa parte che ha caratteri solo apparentemente dimessi, ma comporta anche squarci di canto drammatico.

Ma tutti hanno contribuito al successo dello spettacolo, incluso ovviamente il coro di Andrea Faidutti, e così tutti alla fine hanno meritato lunghi applausi dal pubblico felsineo, accorso al Bibbiena in falangi non proprio foltissime ma evidentemente soddisfatte.

26 gennaio, 2015

Soldataglie al Piermarini

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la terza di Die Soldaten, quest’opera mastodontica (quanto meno dal punto di vista dell’ipertrofia di risorse umane e materiali che reclama) uscita dalla penna di Bernd Alois Zimmermann or sono 50 anni: la prima esecuzione ebbe infatti luogo lunedi 15 febbraio 1965 a Colonia, diretta da Michael Gielen.

Il soggetto – di cui riporto più sotto una sinossi - fu tratto dallo stesso Zimmermann dal dramma settecentesco del lettone- tedesco Jakob Michael Reinhold Lenz di pari titolo. Assai sbrigativamente si attribuisce pertanto all’opera un prevalente carattere di proclama o manifesto contro gli orrori della guerra: c’è anche questo, ovviamente, ma la morale si potrebbe più precisamente indicare con il famoso motto hippie (divenuto di moda ai tempi e poco dopo la composizione dell’opera) fate l’amore e non la guerra, beninteso l’Amore con la maiuscola, e non il volgare piacere che viceversa muove le azioni dei militari (non tutti, per la verità) protagonisti del dramma.

Militari di cui sono vittime la povera Marie e il suo ingenuo innamorato Stolzius, due figli del ceto borghese. Lei finirà i suoi giorni sul marciapiede; lui si suiciderà dopo aver mandato al creatore il militare responsabile primo della brutta fine di Marie. Lei però – come spesso accade ancor oggi, ahinoi – ci mette anche parecchio di suo nel tirarsi addosso le disgrazie: insomma, da quanto vediamo e sentiamo in scena, il suo comportamento non è propriamente irreprensibile, quanto meno pare trattarsi di una ragazza assai facilmente vulnerabile da qualunque attenzione galante sia fatta oggetto. Per di più chi le sta vicino in famiglia (il padre, in particolare) non sembra aiutarla molto a tenere la testa sulle spalle (la sorella maggiore è invece fin troppo irreprensibile, ma non ha nessuna autorità su di lei). Insomma, è la tragica vicenda di una ragazza qualunque che Lenz (quasi 250 anni fa) e più recentemente Zimmermann ambientarono nel mondo dei militari per condannare in realtà ogni forma di sopraffazione (di stupro leggiamo nella didascalia a fronte del quarto atto) presente nella società e di cui l’essere umano (la donna, in particolare) è vittima: il che è purtroppo una costante universale, nello spazio e nel tempo. Perché ben sappiamo che vicende di sopraffazione spesso e volentieri si ripetono anche oggi, pur in scenari diversi da quello militare: oggi la sala da caffè di Armentières o la casa di madame Bischof si chiamano magari social-network o discoteca, che da spazi di svago e di incontro si trasformano per qualcuno, militare o borghese poco importa, in terreni di caccia e di malaffare, e per qualcuna – poco attrezzata a difendersi dalle tentazioni - in trappole infernali che portano alla perdizione.

A ben vedere, i primi tre atti del dramma sanno piuttosto di commedia agrodolce, di reality, con innamoramenti, tradimenti, delusioni sentimentali, dimostrazioni di incapacità dei genitori (della borghesia però, perché invece la nobile La Roche mostra di sapere come si educano i figli!): vicende pienamente trasportabili anche nel nostro mondo cosiddetto moderno (dove magari con le guerre non hanno apparenti legami di causa-effetto); il tutto contornato da volgari scenette di bella vita di militari disoccupati (!) e dediti, oltre che a cercare avventure galanti (applicando l’eterno principio dell’usa-e-getta di cui Marie farà le spese) persino a disquisire di filosofia e di massimi sistemi.

E alla fine del terzo atto ancora nulla di irrimediabile è accaduto: l’offerta della contessa e il presumibile perdurare dell’amore di Stolzius (e persino la disponibilità del capitano Mary!) potrebbero garantire a Marie un’esistenza dignitosa: non sarà così a causa dell’ennesima illusione che porterà la donna a subire, dopo le frustranti seduzioni, anche l’umiliazione più grande: la violenza dello stupro. Si noti di passaggio come le seduzioni – di cui la sedotta è in qualche modo corresponsabile – siano perpetrate da esponenti militari della nobiltà, che impiegano incruenti quanto subdoli mezzi di persuasione (a partire dal loro status) per attirare in trappola la preda, che poi usano per sfogare i loro bassi istinti e subito dopo scaricano ad un collega o direttamente sul marciapiede; mentre lo stupro – atto di pura sopraffazione tramite impiego di violenza – è compiuto da un soldato semplice, ergo proveniente dai ceti plebei.

Come dire: la plebe sa solo usare la forza, mentre i nobili usano… l’ingegno: ma alla fine sempre di sopraffazione si tratta e proprio i nobili – non appena i problemi si fanno seri – diventano i più biechi guerrafondai. Ecco: le crude immagini e i terrificanti suoni che rimandano alla guerra, che vediamo e udiamo nella potentissima scena finale, in realtà ci vogliono ricordare, in modo disturbante, come le guerre siano non la causa ma l’effetto della mancanza di solidi valori morali nella società umana, il che porta al prevalere della violenza sulla ragione, delle armi sul dialogo, in definitiva dell’odio sull’amore. Messaggio quindi di assoluta attualità, non solo ai tempi di Lenz, dove obiettivamente la casta dei militari pilotava gli orientamenti dei costumi, ma anche ai tempi di Zimmermann (si era sull’orlo della terza guerra mondiale, atomica!); e di attualità ancor oggi, in una società dove non è certo il militare a dettare i trend e a forgiare i costumi, ma dove permane una penuria di valori che continua a produrre mille Marie al giorno.

Sul piano estetico generale, escluderei personalmente di definire questo un capolavoro, riservando l’impegnativo termine ad opere che se lo meritano davvero, come quelle di Berg da cui palesemente Zimmermann ha scopiazzato - a 25-35 anni di distanza - idee e soluzioni. Quel che è certo è che si tratta di un pezzo teatralmente interessante e coinvolgente, che merita di essere, almeno qui da noi, maggiormente divulgato: riprendendolo alla Scala in una prossima stagione, ad esempio, al posto dell’ennesima riproposta di una qualche Tosca o Aida da strapazzo…
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Sul piano musicale, Zimmermann abbraccia in pieno la tecnica seriale, combinandola con l’impiego di forme e contenuti da tutta la storia della musica (dal Dies Irae ai Corali di Bach e giù fino al jazz). Le prime 12 scene (tre atti, 5-2-5) sono fondate su altrettante serie dodecafoniche che Zimmermann ha costruito evidentemente a fronte delle sue esigenze espressive: serie che si prestano quindi, magari impiegando trasposizioni e i soliti metodi fiamminghi (canone retrogrado, inverso, etc.) a supportare le più diverse situazioni sceniche. Una 13ma serie è impiegata negli Interludi orchestrali.

Pur non potendosi parlare di applicazione della tecnica dei Leit-motive, è stato rilevato come l’impiego di alcune serie si possa associare a personaggi o a loro particolari atteggiamenti, come ad esempio l’amore di Marie per Stolzius, che è formato da frammenti della serie 1, su cui poggia la prima scena dell’opera:


Inoltre ci sono alcune note che assumono carattere emblematico: il RE, che un po’ come nel DonGiovanni marca i momenti cardinali dell’opera, a partire da subito (martellare dei timpani nel Preludio) e per finire alla chiusura (l’unisono di tutta l’orchestra); o il MIb, che compare sempre a sottolineare l’astio di Stolzius per Desportes, il militare responsabile della brutta fine di Marie. Altre ricorrenti figurazioni sono il totale cromatico (tutte le 12 note della scala suonate contemporaneamente) che apre il Preludio e poi torna assai di frequente per sottolineare momenti topici del dramma; o le quintine di semicrome, che vengono impiegate spesso in funzione ritmica e quasi sempre basate su RE. 

Zimmermann non si limita ad impiegare le serie dodecafoniche, ma si spinge talvolta anche al di là delle colonne d’Ercole del sistema cromatico, fino al dettaglio del quarto di tono (si veda nel Preludio, poco dopo l’entrata del Dies irae nell’organo, la prescrizione per i contrabbassi):


Poi, nella chiusa del medesimo Preludio, fa suonare parte degli archi in RE# e parte in MI abbassato di un quarto di tono:


Oltre ad impiegare una batteria sterminata di percussioni più o meno tradizionali e dislocate più che altro fuori scena, Zimmermann inventa anche percussioni da caciara, per le quali fornisce però, con meticolosità quasi paranoica, indicazioni dettagliatissime. Eccole qua, nella presentazione della prima scena del second’atto, quella ambientata nella caffetteria di Armentiéres, dove non solo si descrive la disposizione dei diversi tavoli sui due piani del locale, ma addirittura si prescrive come ciascun avventore (solo i 6 tavoli occupati da anonimi militari ne contano 18!) debba percuotere i tavoli stessi, le sedie e le tazze (le tazze piene e quelle vuote, si noti bene!) e con quali posate (se cucchiai da caffè o cucchiai da the!):


L’ultima indicazione in basso riguarda la raccomandazione dell’Autore (a scenografo e regista…) di rispettare scrupolosamente la disposizione dei tavoli!

Ed ecco come compaiono in partitura alcuni dei tavoli, con voci e… percussioni:

 
Zimmermann arriva francamente ad eccessi di dettaglio anche nella strumentazione, come dimostra questa pagina (scena 4 dell’atto III) dove gli archi sono divisi in non meno di 47 (11-10-10-9-7) parti!


Il massimo della complicazione e quindi della difficoltà per lo spettatore di afferrare compiutamente ogni dettaglio di ciò che avviene sul palcoscenico (e in ogni dove, per la verità) è raggiunto nell’atto finale, in particolare nella prima scena, sempre ambientata nella caffetteria, ma arricchita da ben tre serie di proiezioni di filmati e da voci e suoni provenienti da altoparlanti, e poi nella scena finale che prevede l’impiego di una batteria di altoparlanti che diffondono suoni legati a manovre militari o a diverse esternazioni di voci umane riguardo ad eventi dell’esistenza (nascita, amore, morte).

E a proposito di tempi del dramma, già Lenz aveva rifiutato la regola del teatro aristotelico (unità di tempo, luogo e azione) per presentare contestualmente eventi distanti fra loro di spazi e tempi i più disparati. Zimmermann raccoglie in pieno il testimone dello scrittore settecentesco e lo traduce in una serie di accorgimenti narrativi che vanno – nel caso più semplice – dalla giustapposizione di scene che si svolgono in luoghi e tempi diversi (ma legate da qualche nesso diretto di causa-effetto) alla presentazione contemporanea di scene che si riferiscono a situazioni almeno apparentemente indipendenti l’una dall’altra, ma che in realtà rappresentano contestualmente passato, presente e futuro. Esempio del primo tipo: le prime due scene dell’opera, che ci mostrano in rapida successione ciò che avviene a casa Wesener (la scrittura di una lettera) e ciò che avviene a casa Stolzius al ricevimento della stessa. Esempio del secondo tipo: la seconda scena del second’atto, dove assistiamo in parallelo alla fatale seduzione di Marie da parte di Desportes, insieme ai cupi presentimenti della nonna di Marie sulla sorte della nipote e alla disperazione di Stolzius nell’apprendere del tradimento dell’amata. Infine, la prima scena dell’atto conclusivo tocca, come detto, il culmine della sfericità dello spazio-tempo di Zimmermann, che ricorre all’impiego di tre proiezioni contemporanee e alla diffusione elettronica di suoni (musica concreta) registrati su nastro per renderci partecipi del tremendo destino di Marie.

Le citazioni. Le chiamo impropriamente così, per rendere l’idea. In realtà sono riferimenti concreti a musiche del passato che Zimmermann impiega per rinforzare il suo messaggio. Del Dies Irae ho già accennato a proposito del Preludio, ma esso torna, sempre (e non a caso) nell’organo anche nell’Intermezzo del second’atto, quasi ad anticipare l’ira divina per ciò che sta per accadere alla povera Marie. E nello stesso brano troviamo anche una delle citazioni (alla lettera, leggi: tonalità) di Bach, precisamente il Corale Komm, Gott, Schöpfer, heiliger Geist, che sembra quasi un’implorazione all’Onnipotente perché impedisca il misfatto che si materializzerà di lì a poco ai danni della (complice?) ragazza:


E Bach torna appropriatamente nella scena in questione (sezione Corale) dopo che Desportes ha sedotto Marie, a sottolineare un duplice tradimento: quello della donna nei confronti di Stolzius e quello dello stesso seduttore nei confronti della povera ragazza, destinata ad essere usata-e-gettata senza misericordia. E allora cosa udiamo qui di Bach? Nella stessa tonalità e riprendendone puntualmente le quattro voci, flauto in SOL, oboe, clarinetto basso e trombone citano dalla Matthäus-Passion un frammento del Corale Ich bin’s ich sollte büßen, che segue precisamente l’annuncio di Gesù del tradimento di uno dei 12!


Tutte le scene dell’opera hanno un attributo che riporta ad antiche forme musicali: ciaccona, ricercare, toccata, notturno, capriccio, corale, rondino, rappresentazione, tropo. Si tratta di riferimenti abbastanza labili, che indirizzano più che altro verso personaggi o situazioni fra loro legate. Così ad esempio la ciaccona caratterizza le scene in cui è (co)protagonista Stolzius (seconda scena degli atti I, II e IV); la toccata è prevalentemente attribuita alle scene che hanno per protagonisti i militari (quarta dell’atto I e prima degli atti II e IV) e i due ricercari sottolineano altrettanti incontri galanti di militari con Marie (terza scena degli atti I e III).

Quanto alle voci, le tessiture sono spinte all’estremo: come il FA sovracuto per Marie, ma anche i DO acuti per i due mezzosoprani di Charlotte e La Roche e per i tre tenori: o i LAb che toccano i due baritoni di Stolzius e Mary. L’emissione comprende, oltre al canto puro, anche il parlato puro, il mezzo canto mezzo parlato, lo Sprechstimme, l’urlato, il tonus rectus: insomma, alle voci è richiesto un impegno davvero improbo.

Come detto, le masse orchestrali sono enormi e soltanto le percussioni richiederebbero una seconda fossa orchestrale: vengono quindi posizionate di norma in palchi o addirittura in altri locali del teatro e il loro suono diffuso da altoparlanti. A proposito di diffusione, l’ultima scena dell’opera comporta – secondo dettagliatissime disposizioni planimetriche presenti in partitura - la dislocazione in diverse posizioni della sala di ben 10 gruppi di altoparlanti, ciascuno con specifiche destinazioni, quanto a contenuti sonori da diffondere:


Beh, ce n’è abbastanza per dubitare dell’equilibrio mentale del compositore (smile!) che sembra aver pensato a bella posta soluzioni tali da rendere ineseguibile il suo lavoro. Ed infatti, ineseguibile fu in un primo momento giudicato dal Teatro che lo aveva commissionato, anche se poi il tempo è stato galantuomo con Zimmermann, portando la sua opera ad essere più volte rappresentata con successo in vari teatri europei ed americani.
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Passiamo ora ad esaminare la struttura e i contenuti dell’opera. Una curiosità: per le prime 9 delle 15 scene abbiamo una regolare alternanza di luogo fra Lille e Armentières (in realtà nella settima scena vedremo sovrapporsi i due luoghi). Le restanti 6 scene si svolgono così: 3 consecutive a Lille e 3 consecutive ad Armentières.

Preludio
Prepara lo spettatore allo scenario tragico che caratterizzerà poi la conclusione dell’opera. Ne sono emblemi il totale cromatico che lo apre e i lugubri e spaventevoli colpi di timpano che ne sottolineano la gran parte, oltre al Dies Irae che compare nell’organo verso la fine.

Atto I
Introduzione: è caratterizzata da quintine di semicrome (inizialmente in MIb nei corni, a riprendere il RE# su cui si era chiuso il Preludio) che vagano alle trombe e alle percussioni.

Scena 1 (Strofe): siamo a Lille, in casa Wesener (commerciante di moda) dove troviamo le due figlie (Charlotte, la maggiore, e la più giovane Marie) dedite rispettivamente a cucire e a scrivere una lettera. Il sottotitolo della scena si spiega con la presenza di 4 strofe cantate da Charlotte (che evoca le pene del cuore) e che sono intervallate da interventi di Marie che chiede aiuto alla sorella sulla forma da usare in una lettera che sta scrivendo alla madre di Stolzius, per ringraziarla dell’ospitalità da questa recentemente offerta a lei e sorella (e che ha fatto nascere l’amore fra Marie e Stolzius medesimo). Dopo un battibecco fra le due sorelle, dovuto alla reticenza di Marie sulla parte della lettera che evidentemente contiene espressioni dirette all’uomo di cui è innamorata, la scena si chiude sulla quarta strofa di Charlotte, con il suo ennesimo e pessimistico filosofeggiare.

Scena 2 (Ciacona I): siamo ad Armentières, a casa di Stolzius (commerciante di stoffe) dove altre quintine (del flauto in SOL) sul RE introducono l’uomo che dice alla madre di non sentirsi bene. Lei immagina siano pene d’amore, per quella Marie (una ragazza da quattro soldi…) che era stata ospite a casa loro. E della quale ha in mano una lettera (precisamente quella che Marie stava scrivendo nella scena precedente) che subito Stolzius le strappa di mano, in viva eccitazione, mentre la madre lo richiama al dovere (preparare la stoffa ordinata dal colonnello del Reggimento).   

Tratto I
È un Interludio piuttosto burrascoso, che tende a sottolineare l’atmosfera della fine della scena precedente  (il subbuglio nell’animo di Stolzius) più che preparare quella della scena successiva, che invece è di carattere leggero, anche se scopriremo poi che vi si annida la scintilla da cui si innescherà il colossale falò che caratterizzerà il seguito dell’opera. 

Scena 3 (Ricercari I): siamo tornati a Lille, casa Wesener. La scena è suddivisa in tre parti: dapprima si presenta Desportes, il barone che subito si mette a corteggiare Marie. La quale respinge sì le cortesie del militare, ma lo fa con atteggiamento tutt’altro che fermo. Il colloquio fra i due avviene su canoni a specchio, da cui il sottotitolo della scena. Arriva poi Wesener, che subito mostra la sua autorità negando a Desportes il permesso di portare la figlia a teatro. Desportes se ne va seccato e, nella terza parte della scena, Wesener spiega alla figlia le ragioni del suo diniego: dei militari c’è poco da fidarsi, con loro una brava ragazza rischia di fare una brutta fine! Marie lamenta fra sé l’eccessiva invadenza del padre: lei non è più una bambina… 

Scena 4 (Toccata I): siamo lungo il fossato che circonda Armentières ed incontriamo l’ambiente militare, con il colonnello e i capitani Mary e Haudy, attorno ai quali troviamo il giovane conte La Roche, il cappellano Eisenhardt e un altro capitano, Pirzel (una specie di filosofo) più tre giovani ufficiali. La presenza massiccia di ottoni, che ovviamente si presta ad evocare l’ambiente marziale, giustifica anche il sottotitolo della scena. Scena divisa musicalmente in tre parti: all’inizio i militari discutono sulle funzioni, ehm… maieutiche del teatro (toh, quello dove Desportes voleva condurre Marie). È Haudy a sostenere la tesi, scontrandosi con Pirzel e col cappellano. Nella sezione centrale della scena le voci dei militari si sovrappongono, mentre la discussione si anima e tocca il tasto femmine: ad un’affermazione del colonnello in difesa delle ragazze messe incinte controvoglia, Haudy sbotta con la lapidaria sentenza: una puttana sarà sempre una puttana! Nella sezione finale (che ricalca musicalmente la prima) la discussione si chiude senza risultato: Haudy chiede retoricamente al cappellano se per caso intenda sostenere che dei nobiluomini si mutino in altrettante bestie per il solo fatto di entrare nell’esercito; il cappellano ribatte che non cambierà opinione finchè tante ragazze borghesi saranno ridotte in condizioni d’infelicità.

Scena 5 (Nocturno I): il sottotitolo rinvia egualmente all’atmosfera materiale (è notte) ed anche a quella spirituale della scena, che si svolge in casa Wesener, protagonisti padre e figlia minore. La scena è divisa in due sezioni: nella prima i due sono a colloquio a proposito delle avances di Desportes; Wesener chiede alla figlia se il barone le ha parlato di Amore. Lei risponde che Desportes le ha recapitato una… poesia! Una poesia, letta stentoreamente da Wesener, tanto delirante quanto insincera! E il colmo della situazione non è che a cadere in trappola sia l’ingenua Marie, ma il di lei preteso responsabile paparino! Che beve fino in fondo il calice di melassa di Desportes e augura ogni bene alla figlia. La quale (secondo colmo, oltre che seconda parte della scena) comincia ad avere dubbi poiché - come recita in una vera e propria aria – ammette di amare tuttora Stolzius e chiude con un’espressione tanto angosciata quanto disperata: che Dio mi strafulmini pure… e i fulmini puntualmente arrivano, sotto forma di un gran temporale, di cui Zimmermann ci dà la sua versione dodecafonica.

Atto II
Introduzione: di chiaro stampo militare, è aperta da una quarta ascendente (RE-SOL) che è tipica di marce o cori a carattere militaresco. Di sole 17 battute, serve ad introdurre l’atmosfera della scena successiva.    

Scena 1 (Toccata II): il sottotitolo già ci indirizza verso l’ambiente militare, che nella fattispecie non è una caserma (dove verosimilmente stazionano scomodamente i soldati semplici) ma un elegante locale da caffè di Armentières, gestito da madame Roux e frequentato quasi esclusivamente da ufficiali e da borghesi in qualche modo legati al mondo dell’esercito. Vi troviamo riuniti tutti i militari già incontrati nella scena 4 dell’atto I, più il contino La Roche; poi vi arriverà il borghese Stolzius; infine c’è una danzatrice andalusa, più una squadra di 18 anonimi ufficiali che occupano 6 tavoli sui due piani del locale. Ed ancora altri militari sparsi (un ufficiale ubriaco, tre alfieri). La scena, come la precedente Toccata I, è strutturata su tre sezioni, dove la terza ricalca la prima. Si è già accennato al colossale armamentario di percussioni da tavola previsto qui da Zimmermann. Anche questa scena si divide in tre parti: nella prima abbiamo la caciara globale, con grida e percussioni; su essa spiccano poi le entrate del cappellano e di Pirzel, che stigmatizzano le espressioni irridenti dei militari nei confronti di Stolzius. Segue poi una scena di danza, protagonisti tre ballerini: sono 5 strofe e un ritornello. Poi segue una band di jazz che accompagna la danza della ragazza andalusa. Infine arriva Stolzius, che viene impertinentemente interrogato ed apostrofato dai presenti a proposito di Marie e di Desportes: lui cerca di negare tutto, ma poi i suoi nervi saltano, quindi maledice (sul MIb!) Desportes e se ne va via sdegnato.   

Intermezzo: è una specie di compendio degli avvenimenti testè accaduti, e di premonizione per ciò che accadrà tra poco. Si è già ricordato che comprende le citazioni del Corale di Bach Komm, Gott e del Dies Irae

Scena 2 (Capriccio, Corale e Ciacona II): siamo tornati a Lille, a casa Wesener. I tre sottotitoli caratterizzano altrettante sezioni della scena: dapprima Marie è sola in casa e viene raggiunta da Desportes, proprio mentre legge una lettera di Stolzius, nella quale l’innamorato che si sente (ormai quasi) tradito le fa le sue rimostranze. Marie è in lacrime, ed è anche tanto sciocchina da far leggere la lettera a Desportes! Il quale si mette ad insultare Stolzius e vorrebbe scrivere lui la sprezzante risposta. Marie resiste per un po’, ma poi – involontariamente o no? – è proprio lei a mettersi a stuzzicare il barone, arrivando persino a fargli il solletico e facendosi poi rincorrere per tutta la casa come una preda… consenziente? E qui Zimmermann fa precipitare la situazione nel tragicomico, o nel surreale: mentre vediamo la nonna di Marie attraversare la scena per poi esporre le sue preoccupazioni per il futuro della figlia - intonando un vero e proprio Lied (Rösel aus Hennegau) tolto di peso dal dramma di Lenz - sul fondo si intravedono, da una parte, Marie e Desportes ormai in fase di aperta consumazione dell’atto sessuale, e dall’altra, in casa Stolzius, l’innamorato tradito che si dispera leggendo una lettera di Marie, mentre sua madre cerca invano di convincerlo a dimenticare quella puttanella. Ma lui (supportato dal MIb tenuto degli archi) giura di farla pagare cara a quel bastardo di Desportes!

Atto III
Preludio: abbastanza breve (38 battute) è tutto giocato sul dialogo fra le diverse sezioni orchestrali. Crea un’atmosfera di incertezza, di attesa per il successivo evolversi dell’azione.   

Scena 1 (Rondino): siamo tornati lungo il fossato che circonda Armentières, dove il cappellano Eisenhardt e il capitano Pirzel passeggiano, come sempre discutendo e filosofeggiando. Il cappellano commenta il trasferimento a Lille del capitano Mary, domandandosene la ragione (sapremo presto che la ragione è… Marie!) Poi continua ad esternare comprensione per la condizione della donna, che invece il filosofo Pirzel paragona alla pecora (!) 

Scena 2 (Rappresentazione): ci troviamo a Lille, alloggiamenti del capitano Mary, dove arriva improvvisamente un quasi irriconoscibile Stolzius, che si è arruolato nell’esercito (per potersi vendicare di Desportes, evidentemente) e viene a proporsi come aiutante del capitano, che lo accoglie con grande calore e lo nomina suo attendente (col nome di Kaspar, come si scoprirà presto). Il sottotitolo fa pensare ad una scena di canto monteverdiano (recitar-cantando).

Scena 3 (Ricercari II): restiamo ora a Lille, casa Wesener, dove Charlotte e Marie sono come sempre ai ferri corti: dalle parole che le rivolge la sorella (che senza mezzi termini le dà anche della sgualdrina) siamo portati a pensare che Marie si sia messa con Mary, che la riempie di regali, e anche perché lei stessa confessa che Desportes se n’è andato. Arriva Mary con l’attendente Stolzius, non riconosciuto, e si porta a spasso la ragazza, che però lo costringe anche a rimorchiare la sorella (?) Sull’attendente le donne mostrano di avere qualche dubbio; e lo stesso Mary fa una chiara allusione al rifiuto a suo tempo opposto da Marie alle offerte di Stolzius, ma anche alle colpe di Desportes, che Marie conferma. Il sottotitolo, e anche il canone a specchio, rimandano alla scena 3 del primo atto, in occasione del corteggiamento di Desportes a Marie.   

Romanza: è di fatto un interludio, dal carattere sognante, tutto giocato sulle sonorità delicate di arpa, tastiere e percussioni… tintinnanti. Serve ad introdurre la scena successiva, che si svolge in casa di un personaggio che incontriamo per la prima volta.

Scena 4 (Nocturno II): sempre a Lille, casa della contessa La Roche, che dopo aver mandato a letto il suo vecchio servitore canta un lungo arioso, caratterizzato dall’accompagnamento degli archi minuziosamente divisi. Lei è preoccupata per il figlio (che avevamo già incontrato in precedenza, anche al locale del caffè) poiché lui pare aver preso una sbandata per… indovina chi? Marie! Così, quando il contino rientra, lei lo convince ad accettare uno scambio: lui se ne andrà lontano da Marie, e lei si prenderà cura della povera ragazza! Ciò che si potrebbe dedurre dal testo e dalla musica di Zimmermann (in questa scena davvero diversa dal resto) è un suo occhio di riguardo per la nobiltà  (per lo meno la parte più aperta, impersonata dalla contessa) che sovrasta eticamente – pur ligia a principii di natura conservatrice - sia il mondo dei militari che quello dei borghesi.    

Scena 5 (Tropi): Lille, casa Wesener. Charlotte, sempre più irritata dalla condotta della sorella, ci fa capire che anche Mary si è dileguato per correr dietro ad altra preda, mentre la povera Marie adesso spera nel contino La Roche! Arriva a proposito la contessa che, dopo aver chiaramente denunciato la cattiva fama di cui gode Marie insieme alle sue fallaci pretese di accasarsi con un nobile, reca tuttavia la sua caritatevole proposta di prendere le due sorelle come dame di compagnia, in cambio della rinuncia di Marie a suo figlio, del resto già promesso. Qui abbiamo una filosofica esternazione della contessa sulle tristezze della vita, che viene ripresa nientemeno che da un terzetto femminile in piena regola. Poi ecco la conclusione ambigua, che ci fa sospettare che per Marie i guai non siano purtroppo finiti.

Atto IV
Preludio: introduce in modo davvero truculento questo ultimo atto, in cui si tirerà l’amara morale di tutte le vicende narrate in precedenza. Chiuso il Preludio, il primo atto visibile, anzi udibile, è la comparsa del servitore della contessa che urla drammaticamente: Marie fuggita!  

Scena 1 (Toccata III): la didascalia avverte che si tratta di una scena onirica. Siamo tornati nel locale da caffè ad Armentières, adesso ulteriormente affollato, ospitando tutti i protagonisti, nessuno escluso ed anche loro controfigure. La scena però è buia e rischiarata solo da lampi di luce, tipo psichedelico. In più ci sono tre serie di 6 film ciascuna che vengono contemporaneamente proiettate su altrettanti schermi, con tempi variamente sfalsati, i cui contenuti rievocano avvenimenti passati, o presenti? o futuri? Le voci emettono semplici lamenti, salvo alcune che cominciano a pronunciare due frasi che poi si ripeteranno: E gli unici a godere sarebbero coloro che commettono ingiustizie? / E dovrebbero tremare coloro che subiscono l’ingiustizia?

Mentre nella sala da caffè continua il tourbillon, ecco i filmati. La prima serie di film (muti) mostra Desportes in carcere, mentre scrive una lettera, poi Marie che fugge dalla casa della contessa per incontrare il fuciliere di Desportes, infine il fuciliere che aspetta Marie per consegnarle la lettera. La seconda serie (sonori) presenta Desportes che balla il twist ad una festa, poi Marie inginocchiata davanti alla contessa e infine ancora il fuciliere che scruta Marie in fuga e comincia a concupirla. La terza serie (sonori) presenta la danza dell’andalusa (come nell’atto II) poi il vecchio Wesener che si dispera, quindi ancora il fuciliere che punta Marie. La quarta serie (muti) mostra Marie che si rende conto della trappola in cui la lettera di Desportes la sta attirando, poi Marie e Mary colti in flagrante dalla contessa in giardino, infine Stolzius che va a comprare veleno per topi e Marie che viene violentata dal fuciliere. La quinta serie (muti) mostra Marie che fugge, Mary a cavallo, poi Wesener e Charlotte che tornano a casa disperati per non aver trovato Marie e infine il servitore della contessa che chiede notizie di Marie alla sorella, che alza le spalle. L’ultima serie di film (sonori) sull’attacco di secchi colpi di timpano sul RE, mostra il fuciliere che si avvicina a Marie, poi Desportes che balla il twist, infine Marie che ormai ha capito che sarà preda del fuciliere. Ora siamo nel locale di madame Bischof (un bordello in realtà) dove si ballano i più diversi balli di ogni epoca, mentre continuano ad udirsi le due frasi sull’ingiustizia. Si passa poi ad un’ambientazione virtuale in un tribunale, con i tre schermi che contemporaneamente proiettano lo stupro di Marie da parte del fuciliere; le due frasi sull’ingiustizia si ripetono, mentre i diversi personaggi esternano i rispettivi sentimenti di orrore; contemporaneamente si muovono in luoghi e tempi diversi: Marie che fugge verso Armentières, Charlotte che torna a casa, la contessa e la madre di Stolzius che si chiedono cosa fa Desportes con Marie, Desportes in carcere che teme di incontrare Marie, Stolzius che va in farmacia per acquistare veleno per topi… La scena si chiude sull’ennesima proposizione delle frasi sull’ingiustizia.

Tratto II: sono soltanto 11 battute affidate all’organo e a poche percussioni; si chiudono su un totale cromatico.

Scena 2 (Ciacona III): siamo sempre ad Armentières, a casa del capitano Mary, dove troviamo anche il suo attendente Stolzius e Desportes. Mary e Desportes discutono della vicenda di Marie, che il primo in qualche modo difende (l’avrebbe quasi voluta sposare!) mentre il secondo continua a considerare null’altro che una puttana, di cui vorrebbe perdere persino il ricordo. Stolzius ascolta tutto e mette veleno per topi nella minestra destinata a Desportes, di cui lui stesso ingurgita una parte prima di servirla in tavola. Desportes muore, Mary si avventa su Stolzius che lo previene avvertendolo del suo suicidio, prima di morire pronunciando il nome di Marie.

Scena 3 (Nocturno III): siamo sulla sponda della Lys, lungo la quale sfilano interminabili colonne di caduti in guerra, mentre un film proietta il passaggio di carri armati; si odono dagli altoparlanti comandi di esercitazioni militari in diverse lingue (tedesco, francese, russo, inglese, polacco, americano, italiano); dall’altra parte ufficiali dell’esercito si dirigono verso il locale della Bischof. Si fa sera e lì vicino il padre di Marie si aggira impietrito e senza meta, mentre il cappellano Eisenhardt recita il Paternoster e gli altoparlanti diffondono 6 gruppi di suoni legati a diverse fasi della vita: nascita, amore e morte. Una donna (Marie, che lui non riconosce) chiede a Wesener l’elemosina; lui la scaccia. Mentre il cappellano continua il Paternoster una tromba intona un motivo jazz e un altro gruppo di ufficiali va verso il locale della Bischof e alcuni jazzisti circondano Marie ballando. Dagli altoparlanti ora risuona in lingue di diversi Paesi (Germania Ovest, DDR, Inghilterra, USA, URSS e Cecoslovacchia) il comando di corsa! Marie chiede ancora qualcosa da mangiare, mentre si odono dagli altoparlanti rumori di cingoli di carri armati in avvicinamento; l’andalusa arriva di corsa, inseguita da jazzisti ubriachi, e si mette a ballare attorno a Marie. La musica tace improvvisamente, ora gli altoparlanti diffondono suoni di detonazioni di bombe, pallottole e razzi, spari di cannoni di carri armati. Wesener si commuove e dà una moneta a Marie, che si accascia. Il cappellano termina il Paternoster, Wesener se ne va dietro ai caduti, di cui si ode solo il martellante passo di marcia, per circa 150”. Tutto si fa buio, si smorzano i rumori e suona – su un unisono di RE e per 49” - l’intera orchestra (archi e fiati) sul fondo di strazianti voci umane diffuse dagli altoparlanti: gli strumenti tacciono progressivamente, a partire dai gravi verso gli acuti, fino al totale silenzio. La scena viene invasa dalla nube di un’esplosione atomica.


Ecco: qui, in questa specie di buco nero di RE, che tutto si è inghiottito, è concentrata la morale della storia.  
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Alvis Hermanis, che è un… nipotino di Lenz (lettone come il drammaturgo da cui Zimmermann trasse il soggetto) firma questo allestimento, proveniente da Salzburg. Lassù, causa la planimetria del larghissimo palco della Felsenreitschule, lui aveva disposto tutta scena su un unico piano, anche laddove (la caffetteria di Armentières) i piani dovrebbero essere due. Ora, dato che la Scala ha un proscenio largo sì, ma non sconfinato, ecco che regista e scenografo hanno dovuto (di malavoglia oppure no) diventare più rispettosi delle indicazioni di Zimmermann, e portare tutto su due piani.

L’ambientazione è apparentemente ai tempi della Grande Guerra, in uno sfondo di caserma di cavalleria (in omaggio al luogo della rappresentazione di Salzburg) e quindi con balle di paglia ovunque; le diverse scene si svolgono in quest’unico ambiente che ospita, di sotto, poche suppellettili delle 4 dimore (di Marie, di Stolzius, della contessa e di Mary) e al piano superiore prevalentemente tavoli dove stazionano i militari. La scena unica ha vantaggi e svantaggi rispetto alla presentazione di avvenimenti paralleli: efficacissima all’inizio (Lille a sinistra illuminata, Armentières a destra, in penombra, poi il contrario per la seconda scena); del tutto fuorviante nella seconda scena dell’atto II, dove Stolzius appare per primo e poi assiste di persona alla seduzione di Marie da parte di Desportes e sua madre pare abitare a Lille, mentre la nonna di Marie pare abitare ad Armentières: insomma, tutti i 5 personaggi recitano una medesima scena, in totale confusione, cosa che finisce per disorientare uno spettatore non ben preparato. Dopo le due scene iniziali, quando compaiono i militari, ecco che avremo una continua presenza di… estranei anche in scene che la dovrebbero escludere, col risultato di distrarre lo spettatore dall’azione principale; alludo ad esempio al maneggio con cavalli in circolazione, nel terzo atto, nella cui prima scena poi sono presenti (e disturbano) tutti i militari, invece dei soli Eisenhardt e Pirzel.

L’atto conclusivo viene totalmente stravolto: niente proiezioni (quindi impossibile capire ragioni e particolari dello stupro di Marie) e niente visione onirica nella prima scena: tutto si svolge come in una scena normale, con luci normali invece dei lampi intermittenti. Niente musica concreta registrata, impossibile distinguere il riferimento al locale della Bischof e al Tribunale. Lo stupro di Marie viene spostato nella seconda scena, sotto gli occhi di Desportes, Mary e Stolzius. Niente filmati né suoni bellici anche nella scena conclusiva, che perde tutta la sua potenza evocatrice, con i militari che semplicemente giacciono sul terreno (niente sfilata dei caduti). Eliminati i suoni di azioni belliche, è quindi ridotto a due soli diffusori ai lati della sala il colossale armamentario previsto da Zimmermann: di conseguenza c’è anche un chiaro accorciamento dei tempi della conclusione. 

Discutibile anche la presentazione materiale dei personaggi. I militari, che nell’originale sono solo ufficiali (o di grado ancor superiore) e per lo più nobili e di aspetto attraente (l’uniforme!) qui sembrano soldati semplici reduci dalla trincea, feriti, macilenti, malvestiti: non si capisce proprio come possano far colpo sulle ragazze! Sarebbero stati adattissimi a sfilare, come caduti, nell’ultima scena. Alla fine del primo atto poi, quando Marie si corica, dietro la parete li vediamo spiare e masturbarsi (?!) Ecco, a me pare proprio che Hermanis abbia frainteso del tutto il senso della presenza dei militari, che Zimmermann ha splendidamente sintetizzato proprio nella scena finale dell’opera: dove dovremmo veder sfilare i caduti (soldati semplici, figli del popolo) mentre gli ufficiali (gli stessi che abbiamo conosciuto nei primi tre atti) continuano a far la loro bella vita, andando al bordello della Bischof o inseguendo la ballerina andalusa!  

Charlotte e Marie ci vengono presentate a letto e… uguali come due gocce d’acqua, quando invece nell’originale si capisce immediatamente che Charlotte ha la testa sulle spalle, mentre la sorellina ce l’ha tra le nuvole! Idea davvero cervellotica e velleitaria quella di mostrarci Marie incinta (ultima scena dell’atto III) salvo poi sgravarsi di… un mucchio di paglia che si portava sulla pancia (!)  

Insomma, un’interpretazione registica a dir poco strampalata e soprattutto inefficace a far emergere la durezza del messaggio di Zimmermann: tutto finisce (quasi) come è iniziato, manca completamente lo stacco fra lo scenario da commedia dei primi tre atti e quello (atto IV) che ci dovrebbe mostrare le conseguenze spaventose dei comportamenti umani (dei maschi in particolare). Per me, quindi, una delusione.   
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Meglio è andata sul piano musicale, dove lo specialista Ingo Metzmacher ha guidato con autorità le masse orchestrali, che hanno risposto bene in tutti i frangenti, sia nelle sonorità disturbanti dei totali cromatici, che in quelle ovattate dove sono protagoniste le percussioni leggere e le tastiere.

Le voci mi son parse mediamente all’altezza, a partire da Laura Aikin (Marie) che ha una parte oggettivamente proibitiva. Efficaci Thomas E.Bauer (Stolzius) e Daniel Brenna (Desportes). Ottimo il Pirzel di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke e rimarchevole (data… l’età, va verso i 70) la prestazione di Gabriela Beňačková (contessa La Roche, che è una parte quasi da soprano). Ma tutti quanti hanno collaborato alla riuscita (musicale) dello spettacolo. 

Spettacolo presentato in un Piermarini con tasso di occupazione di poco superiore al 50%, e accolto alla fine da consensi praticamente unanimi.