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13 marzo, 2016

I fratelli Foscari alla Scala

 

In barba alla storia, al dramma di Byron e al soggetto di Piave, I due Foscari in scena alla Scala (ieri la quinta delle nove recite) non sono padre e figlio, ma fratelli. Sì, proprio come un certo Boccanegra era fratello di Maria-Amelia e un tale Rigoletto era fratello di Gilda. Insomma, avete già capito: uno come il topone proprio nei panni di un vecchio padre non ci può entrare; e mica per la sua età (se è per quella, potrebbe benissimo fare anche il... nonno) ma per via di una voce che neanche a martellate riesce a rientrare nel minimo sindacale del baritono tout-court, non dico in quello del baritono verdiano, ecco.  

Paradossalmente, le grandi qualità attoriali di Domingo, emerse magnificamente anche in questa occasione, invece di costituire un argine all’estraneità della voce rispetto al ruolo, la mettono ancor più in risalto! Comunque proprio ieri l’equivoco si è risolto: per le quattro recite che restano arriverà infatti un baritono standard (no-Rolex). Certo che in fatto di deontologia professionale il simpatico topone lascia parecchio a desiderare; e con lui tutto l’entourage che gli permette di esibire (lucrandoci!) tale discutibile deontologia. E così di questo passo accetteremo che un soprano lirico un po’ invecchiato ma ben reclamizzato canti Azucena o – nello strumentale – che il concerto per violoncello di Dvorak lo suoni un violinista con l’accordatura a 256!

Peccato perchè per il resto devo dire che la prestazione musicale complessiva mi è parsa di livello notevole, grazie alla convincente direzione di Michele Mariotti, sempre più sicuro anche quando va in trasferta da Pesaro a Roncole, alla buona prestazione dell’orchestra e alle voci di Francesco Meli (che conferma il successo dell’inaugurale Giovanna) e di Anna Pirozzi, una Lucrezia contestata (da pochi, pare) alla prima, ma che a me è parsa decisamente all’altezza: la voce è davvero notevole (per timbro, calore, morbidezza) e la tecnica sarà ancora un poco acerba, ma è già di livello più che apprezzabile. A ciò va aggiunta la prova più che dignitosa del coro di Mario Casoni (peraltro impegnato qui da Verdi in modo non proibitivo) e quella onesta degli altri comprimari.

Insomma, dopo la positiva apertura con Giovanna, ecco un altro Verdi carcerato che ha avuto la sua meritata... scarcerazione!     
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Quanto all’allestimento, devo dire che Alvis Hermanis ha fatto molti meno danni di quanti ne avesse combinati una anno fa con Die Soldaten, il che è già una buona notizia... ma non basta a giustificare la parcella. Si dice che per prepararsi adeguatamente abbia trascorso un periodo di ambientamento a Venezia: mah, visti i risultati, forse wikipedia gli sarebbe bastato ed avanzato! Al proposito, tale Olivier Lexa, di professione drammaturgo (in parole povere: un peso morto che noi paghiamo profumatamente per proporci aria fritta!) ci racconta sul programma di sala la genesi e i razionali (?!) dell’allestimento di Hermanis. Mi ha fatto sbellicare una sua sentenza, che cito alla lettera, a proposito del testo di Piave: uno dei rari libretti d’opera che possono facilmente vivere privi della musica (!!!)   

A proposito del programma di sala: quello della Scala detiene tradizionalmente il record assoluto in fatto di price/performance, roba da chiodi. E che il price della carta patinata sia prevalentemente pagato dalla pubblicità delle varie BMW e ROLEX (toh, la pagina 4 di copertina tutta dedicata al topone!) non è attenuante valida. In questo numero, tanto per fare un esempio di quanta poca cura vi sia alla correttezza dei contenuti, viene contrabbandato (pag.95) come opera del Carpaccio dal titolo Il miracolo della croce a Rialto un quadro che è invece Il miracolo della croce caduta nel canale San Lorenzo del Bellini (quello del Carpaccio è presentato poi a pag.99).

Tornando a Hermanis(-Lexa) veniamo a sapere che i 10 danzatori che scorrazzano spesso e volentieri in giro per il palcoscenico rappresenterebbero, ohibò, i Senatori del Consiglio dei Dieci. Ma che tali figuri siano dei pipistrelli ce lo dice la musica di Verdi (sul testo di Piave) senza bisogno di ridicoli balletti didascalici...

Le scene sono scarne e minimaliste, velleitariamente impreziosite da proiezioni di scorci veneziani, da diapositive di quadri d’epoca o ridicolmente abitate da branchi di leoni-di-sanmarco di cartapesta (sempre in numero di 10, quanti i Senatori-danzatori, ovvio); nel finale compare anche un letto a baldacchino – su cui si accascerà morto il Doge - che ci sta come i cavoli a merenda; i costumi sono ricchi e plausibilmente riferibili all’epoca quattrocentesca in cui è ambientata la vicenda; nulla di speciale nell’impiego delle luci.

Del tutto prevedibili e tradizionali i movimenti dei personaggi, esclusi i danzatori intrusi (sempre i soliti 10 che da gondolieri si portano anche dietro il proprio remo palo per la pole-dance!) un vezzo registico che sta peraltro facendo il suo tempo; i protagonisti sembrano liberi di cantare posando come piace a loro, e in ciò Domingo ovviamente primeggia, gli altri fanno del loro meglio.

Insomma, una regìa che non fa danni (e questo oggigiorno non è da poco) allo spettacolo, mentre sicuramente ne fa alle casse del Teatro (quindi: alle nostre tasche) chè la stessa performance si potrebbe verosimilmente ottenere con un price ridotto del 70% almeno...
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Alla fine grandissimo trionfo per tutti, incluso e per primo Domingo (che per me invece resta l’unica nota stonata, se vogliamo parlare di teatro con l’attributo musicale...) con ripetute chiamate e ovazioni da parte di un pubblico che ha finalmente gremito il Piermarini in ogni ordine di posti.

Dopo le tre prime prove, devo ammettere che questa stagione 15-16 mi pare di livello chiaramente migliore di quelle che l’hanno preceduta: che sia solo e tutto merito della nuova accoppiata sovrintendente-direttore non saprei dire... spero solo che continui così! 

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