In barba alla
storia, al dramma di Byron e al soggetto di Piave, I due Foscari in scena alla Scala (ieri
la quinta delle nove recite) non sono padre e figlio, ma fratelli. Sì, proprio
come un certo Boccanegra era fratello di Maria-Amelia e un tale Rigoletto era
fratello di Gilda. Insomma, avete già capito: uno come il topone proprio nei panni di un vecchio padre non ci può entrare; e
mica per la sua età (se è per quella, potrebbe benissimo fare anche il...
nonno) ma per via di una voce che neanche a martellate riesce a rientrare nel
minimo sindacale del baritono
tout-court, non dico in quello del baritono
verdiano, ecco.
Paradossalmente,
le grandi qualità attoriali di Domingo, emerse magnificamente anche in questa
occasione, invece di costituire un argine all’estraneità della voce rispetto al
ruolo, la mettono ancor più in risalto! Comunque proprio ieri l’equivoco si è
risolto: per le quattro recite che restano arriverà infatti un baritono standard (no-Rolex). Certo che
in fatto di deontologia professionale
il simpatico topone lascia parecchio a desiderare; e con lui tutto l’entourage che gli permette di esibire
(lucrandoci!) tale discutibile deontologia. E così di questo passo accetteremo
che un soprano lirico un po’ invecchiato ma ben reclamizzato canti Azucena o
– nello strumentale – che il concerto per violoncello di Dvorak lo suoni un violinista
con l’accordatura a 256!
Peccato perchè
per il resto devo dire che la prestazione musicale complessiva mi è parsa di
livello notevole, grazie alla convincente direzione di Michele Mariotti, sempre più sicuro anche quando va in trasferta da Pesaro a Roncole, alla buona
prestazione dell’orchestra e alle voci di Francesco
Meli (che conferma il successo dell’inaugurale Giovanna) e di Anna Pirozzi,
una Lucrezia contestata (da pochi, pare) alla prima, ma che a me è parsa decisamente all’altezza: la voce è davvero
notevole (per timbro, calore, morbidezza) e la tecnica sarà ancora un poco
acerba, ma è già di livello più che apprezzabile. A ciò va aggiunta la prova
più che dignitosa del coro di Mario
Casoni (peraltro impegnato qui da Verdi in modo non proibitivo) e quella
onesta degli altri comprimari.
Insomma, dopo la
positiva apertura con Giovanna, ecco
un altro Verdi carcerato che ha avuto
la sua meritata... scarcerazione!
___
Quanto
all’allestimento, devo dire che Alvis
Hermanis ha fatto molti meno danni di quanti ne avesse combinati una anno
fa con Die Soldaten, il che è già una buona notizia... ma non basta a giustificare la parcella.
Si dice che per prepararsi adeguatamente abbia trascorso un periodo di
ambientamento a Venezia: mah, visti i risultati, forse wikipedia gli sarebbe bastato ed avanzato! Al proposito, tale Olivier Lexa, di professione drammaturgo (in parole povere: un peso
morto che noi paghiamo profumatamente per proporci aria fritta!) ci racconta
sul programma di sala la genesi e i razionali (?!) dell’allestimento di
Hermanis. Mi ha fatto sbellicare una sua sentenza, che cito alla lettera, a
proposito del testo di Piave: uno dei rari libretti d’opera che possono facilmente
vivere privi della musica (!!!)
A proposito del
programma di sala: quello della Scala detiene tradizionalmente il record
assoluto in fatto di price/performance,
roba da chiodi. E che il price della
carta patinata sia prevalentemente pagato dalla pubblicità delle varie BMW e
ROLEX (toh, la pagina 4 di copertina tutta dedicata al topone!) non è
attenuante valida. In questo numero, tanto per fare un esempio di quanta poca
cura vi sia alla correttezza dei contenuti, viene contrabbandato (pag.95) come
opera del Carpaccio dal titolo Il miracolo della croce a Rialto un
quadro che è invece Il miracolo della
croce caduta nel canale San Lorenzo del Bellini
(quello del Carpaccio è presentato poi a pag.99).
Tornando a
Hermanis(-Lexa) veniamo a sapere che i 10 danzatori che scorrazzano spesso e
volentieri in giro per il palcoscenico rappresenterebbero, ohibò, i Senatori
del Consiglio dei Dieci. Ma che tali figuri siano dei pipistrelli ce lo dice la
musica di Verdi (sul testo di Piave) senza bisogno di ridicoli balletti
didascalici...
Le scene sono
scarne e minimaliste, velleitariamente impreziosite da proiezioni di scorci
veneziani, da diapositive di quadri d’epoca o ridicolmente abitate da branchi
di leoni-di-sanmarco di cartapesta
(sempre in numero di 10, quanti i Senatori-danzatori, ovvio); nel finale
compare anche un letto a baldacchino – su cui si accascerà morto il Doge - che
ci sta come i cavoli a merenda; i costumi sono ricchi e plausibilmente riferibili
all’epoca quattrocentesca in cui è ambientata la vicenda; nulla di speciale
nell’impiego delle luci.
Del tutto
prevedibili e tradizionali i movimenti dei personaggi, esclusi i danzatori
intrusi (sempre i soliti 10 che da gondolieri si portano anche dietro il
proprio remo palo per la pole-dance!) un vezzo registico che sta
peraltro facendo il suo tempo; i protagonisti sembrano liberi di cantare
posando come piace a loro, e in ciò Domingo ovviamente primeggia, gli altri
fanno del loro meglio.
Insomma, una
regìa che non fa danni (e questo oggigiorno non è da poco) allo spettacolo,
mentre sicuramente ne fa alle casse del Teatro (quindi: alle nostre tasche) chè
la stessa performance si potrebbe verosimilmente ottenere con un price ridotto del 70%
almeno...
___
Alla fine grandissimo trionfo per tutti,
incluso e per primo Domingo (che per me invece resta l’unica nota stonata, se
vogliamo parlare di teatro con l’attributo musicale...)
con ripetute chiamate e ovazioni da parte di un pubblico che ha finalmente
gremito il Piermarini in ogni ordine di posti.
Dopo le tre prime prove, devo ammettere che questa stagione 15-16 mi pare di livello chiaramente migliore di quelle che
l’hanno preceduta: che sia solo e tutto merito della nuova accoppiata
sovrintendente-direttore non saprei dire... spero solo che continui così!
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