Un’improvvisa
indisposizione di John Axelrod riporta sul podio dell’Auditorium Tito Ceccherini (che tornerà anche la
prossima settimana)
per dirigere un concerto che mette una
vicino all’altra due sinfonie che sono separate da più di 120 anni.
La prima è una delle none
composte dopo Beethoven (e poi Schubert, Bruckner, Dvořák, Mahler...):
quella di Shostakovich. Il quale,
ancora una volta, sorprende tutti con la classica mossa del cavallo, una decisione bizzarra che prende il pubblico in
contropiede (e che gli costerà, nel ’48, una seconda scomunica da parte di Ždanov&C, dopo quella terribile del ’36).
Dunque: siamo alla terza sinfonia di guerra, dopo la colossale Leningrado del 1941, una sfida quasi
sfrontata ai tedeschi che strangolavano la sua città, e la cupa, sofferta ottava, del 1943 che, a dispetto del
promettente decorso del conflitto, sembrava non soltanto piangere su tutti i
caduti, ma anche prefigurare tempi bui per il suo popolo, sotto il tallone del
baffone georgiano. Siamo adesso nel 1945, la guerra è appena stata
gloriosamente vinta e tutti si aspettano (il regime quasi pretende) da Shostakovich una riedizione in grande della nona beethoveniana, con tanto di voci e coro,
che celebri adeguatamente la vittoria e le magnifiche sorti e progressive
dell’URSS e del suo supremo condottiero.
Che
succede invece? Che il compositore, dopo aver finto di obbedire ad attese e
pretese, sbozzando nel gennaio del ‘45 un inizio di sinfonia celebrativa (del quale è stato recentemente ritrovato,
forse, un eloquente frammento) ecco che pianta tutto
in asso e solo il 26 luglio – il giorno stesso della Dichiarazione di Potsdam! – si rimette al lavoro sulla sinfonia, di
cui però cambia totalmente programma e direzione, sfornandola in soli 35
giorni! Eh sì, perchè invece dell’atteso e preteso monumento alla vittoria,
all’URSS e a Stalin, il nostro ti propina una sinfonietta che pare la classica dell’amico Prokofiev! Dico, una cosa che guarda a Haydn e dura meno di
mezz’ora (a dispetto dei 5 movimenti!) e che più che una celebrazione ne sembra
proprio una parodia... Qui il grande Lenny ce la introduce con la
sua proverbiale carica emotiva, dopodichè lo possiamo vedere all’opera, con i Wiener.
Nella sua (peraltro discussa e pure
contestata) biografia del compositore, Salomon Volkov riporta un’esternazione di
Shostakovich, che si sarebbe convinto a rinunciare alla grande sinfonia
commemorativa perchè proprio non sopportava l’idea che poi il regime se ne
appropriasse per trasformarla in un panegirico per il dittatore. Così, per non
rinunciare alla sua nona, avrebbe
buttato giù di getto questa cosuccia (apparentemente?) disimpegnata.
Come ha ricordato Bernstein,
nell’iniziale Allegro (che è in MIb e
precisamente in forma-sonata, con
tanto di da-capo dell’esposizione
bitematica) il secondo tema, in SIb, è punteggiato da tre proterve irruzioni
del trombone che declama una quarta ascendente
(FA-SIb) proprio come a volerne imporre a tutti i costi la tonalità: e qualcuno
ci ha visto proprio Stalin, nell’atto
di ordinare autoritariamente il passaggio alla... dominante (!) Sempre Bernstein ci fa notare come, nella
ricapitolazione, il trombone ripeta quella figurazione per ben 6 volte, prima
di ottenere dall’orchestra il passaggio al secondo tema! Ma non è tutto, poichè
la tonalità di questo passaggio non è, come vorrebbero i sacri canoni, la
tonica MIb, bensì un LAb, la sotto...
dominante (!)
Poi ecco il Moderato, il movimento più lungo (passa i 9 minuti) una delicata
elegia di clarinetto e flauto, interrotta dagli archi e corni che attaccano una
specie di valse triste (così Bernstein).
Dopo un ritorno di flauto e clarinetto si va verso la cadenza finale dell’ottavino,
di stampo decisamente mahleriano.
C’è qui tutta la pessimistica visione di
Shostakovich sull’inevitabile destino della sua gente, cui la vittoria nella guerra,
che si sta celebrando festosamente, non porterà purtroppo alcun sol dell’avvenir...
Proprio nel Largo Bernstein individua le due risposte del fagotto alle pesanti perorazioni
degli ottoni gravi (le sollecitazioni al compositore a sfornare la nona patriottica?) come citazioni da due
none famose. La prima è quella di Beethoven: quarta discendente FA-DO dal
recitativo del Finale, battuta 56,
archi bassi:
Ma il compositore per tutta risposta ingaggia
il fagotto per far partire spiritosamente l’Allegretto
conclusivo, che è tutto tranne che eroico:
un vero e proprio sberleffo alla retorica e alla prosopopea del regime.
___
Apprezzabile l’esecuzione dei ragazzi, guidati
da Dellingshausen, con qualche più o
meno piccola défaillance, come l’evidente calata
dell’ottavino sull'interminabile FA# alla conclusione del Moderato.
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Dopo questo semiserio brano sovietico,
ecco la pastorale per eccellenza. Ogni volta risentirla è un piacere
del corpo e dello spirito, anche quando l’esecuzione non è delle più straordinarie:
ieri Ceccherini (che ha certo l’attenuante della chiamata improvvisa) mi è
parso un tantino monocorde nelle dinamiche, per cui il FA maggiore che monopolizza
l’intera sinfonia ha finito per renderla fin troppo... mielosa, ecco.
A
creare un diversivo inaspettato ci ha pensato (proprio nella pausa fra l’Andante - al ruscello - e l’Allegro - festa di contadini) una
graziosa musichetta proveniente da uno smartphone
(ma quanto sono intelligenti, i
telefoni di oggi!) Nulla di più normale, si direbbe. Mah, il curioso è che
questa volta il ringtone proveniva
dal palco (!!!)
4 commenti:
Fuochino. La fonte del supposto ringtone era un poco più in alto
@Marco
Ops! Da metà sala l'impressione era proprio quella...
Invece scendeva dalla galleria?
Fuocherello!
@Marco
Ho capito, era l'inquilino del piano di sopra che si esercitava all'organetto!
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