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21 marzo, 2016

Il Conte di Essex onorevolmente decollato sotto la Lanterna

 

Ieri pomeriggio un Carlo Felice piacevolmente gremito da una folla entusiasta ha ospitato la seconda recita di Roberto Devereux, terzo atto della donizettiana trilogia Tudor (1830 Bolena, 1835 Stuarda, 1837 Devereux). Tre opere che trattano (più o meno liberamente) delle vicende dei reali inglesi negli anni che vanno dal 1536 al 1601: sono 65 dei 70 anni di Elisabetta I. Lei ai tempi dell’Anna Bolena (sua madre) aveva solo 3 anni, quindi non poteva ancora comminare condanne a morte (quella della madre toccò al padre Enrico VIII) e tantomeno cantare in teatro (smile!) Ne aveva poi 54 (1587) ai tempi della Maria Stuarda, sua cugina da lei mandata al patibolo, e 68 appunto in questo Roberto Devereux, pure spedito anzitempo (aveva precisamente la metà degli anni della Regina, 34!) al creatore.

Ecco, i tre personaggi che danno i titoli alle opere hanno in comune il fatto di essere decollati: oh, parliamo di decollazioni, mica di decolli... di aerei per le vacanze, eh! E non si trattò di cose semplici e burocratiche, tutt’altro: vediamo.

Anna fu gratificata dal corpulento Enrico (180Kg per 180cm!) non di uno ma di ben due privilegi: la pena canonica per arrostitura al rogo fu commutata in quella per decapitazione; per di più da eseguirsi, invece che con il barbaro rito albionico (scure calata dal boia sul collo della vittima appoggiato sul ceppo) con il più raffinato ed assai meno antipatico rito francese, che prevedeva – in attesa dell’invenzione della tecnologica ghigliottina - la mozzatura del collo eseguita con un colpo di spada e con la vittima inginocchiata sì, ma con il capo in posizione eretta (già, l’esprit de finesse... sappiamo che Anna da ragazza aveva soggiornato alla corte parigina). Quindi per lei fu chiamato dalla Francia un autentico specialista del ramo, tale Jean Rombaud da Calais che, armato di un ben affilato spadone da samurai, con un sol fendente le separò di netto la testa dalle spalle.

Per Maria invece si resero necessarie ben due asciate del boia, più un terzo colpetto per recidere un’ultima cartilagine renitente; poco dopo fra le pieghe delle sue vesti si scovò un piccolo maltese che Maria si era portata appresso e che si rifiutava di abbandonare il suo corpo straziato.

Ma peggio ancora andò al Roberto, sul cui robusto collo il boia dovette infierire con la scure per ben tre volte, prima di poter esibire alla folla la testa del fedifrago, gridando lo slogan di prammatica: God save the Queen
   
E le parole con cui principia l’Inno britannico ci portano direttamente alla Sinfonia dell’opera. Peraltro sarà bene ricordare che per la prima assoluta di Napoli (domenica 29 ottobre, 1837) Donizetti aveva composto, un po’ come aveva fatto per la Stuarda, solo un brevissimo (11 battute) Preludio che precede l’Introduzione dell’Atto I. La Sinfonia che oggi si esegue comunemente fu composta per la prima francese (giovedi 27 dicembre 1838, Parigi, Théâtre des Italiens) e francamente, se proprio non è un corpo estraneo rispetto all’opera, di certo ne evoca assai maldestramente i contenuti. Dopo l’attacco in SOL minore, con i pesanti accordi sulla dominante RE, compare improvvisamente nella relativa SIb maggiore (eccolo là) il famigerato God save the Queen!

Così come è antistorico il finale dell’opera, con l’abdicazione del tutto inventata di Elisabetta in favore di Giacomo (figlio della Stuarda, guarda un po’ i casi della vita...) altrettanto fasulla è la citazione dell’inno che risale, a voler esagerare, al 1619 (John Bull) ma più probabilmente a metà del 1700 (definitiva vittoria degli Hannover sugli Stuart). In ogni caso nel 1601 (anno di ambientazione dell’opera) l’inno non esisteva proprio. Ritorna il SOL minore con un motivo agitato, intercalato ancora dall’inno britannico, prima che una serie di modulazioni porti al FA maggiore, dove ascoltiamo il tema che Devereux canterà in LA maggiore nel terz’atto (Bagnato il sen di lagrime) apprendendo della sua imminente decollazione e della disperazione che ciò provocherà nella sua amata Sara. Solo che qui viene presentato come un’allegra marcetta! Poi si modula progressivamente a RE maggiore per l’entrata di un nuovo motivo assai vivace e spensierato, e infine - per chiudere in bellezza, neanche fossimo a... Cavalleria leggera - ecco tornare il tema di Devereux letteralmente spiritato, con protervo accompagnamento (RE-LA) di timpani. Insomma, una cosa assai bizzarra, giustificata probabilmente dal desiderio di Donizetti di accattivarsi a buon mercato le simpatie del pubblico parigino. Ecco perchè alcuni direttori (qui il leggendario Gavazzeni a Bologna nel 1993) scelgono talvolta di eseguire l’opera proprio come presentata in origine a Napoli, cioè senza la discutibile Sinfonia appiccicatavi a posteriori.

Quanto al libretto di Salvadore Cammarano, si può dire abbia davvero un corposo pedigree: di certo fu ispirato direttamente (come l’analogo del 1833 di Romani per Mercadante) dal dramma Elisabeth d’Angleterre di Jacques-François Ancelot (1829). Ma  un’altra probabile fonte di Cammarano risalirebbe al 1787, e si tratterebbe di un testo di Jacques Le Scène-Desmaisons intitolato assai sinteticamente (!) Histoire d'Élisabeth et du comte d'Essex, tirée de l'anglois des Mémoires d'un homme de qualité. Il quale testo era quindi a sua volta la traduzione di un altro di autore anonimo (ma... di qualità) risalente al 1680 e titolato The secret history of the most renowned Q. Elizabeth and the E. of Essex by a person of quality. Il quale a sua volta potrebbe essere la traduzione dal francese di un preesistente (1678) Comte d'Essex histoire angloise. Insomma, un soggetto di lunghissima data! E non a caso, dato il mistero e la curiosità che la persona della Regina vergine (?!) ha suscitato nella fantasia popolare.

È chiaro che il soggetto di Cammarano non si ponesse l’obiettivo di tenerci una lezione di Storia albionica, ma ovviamente di creare ambienti, vicende e situazioni che fornissero al compositore materia per un classico melodramma. A partire da un paio di oggetti che servono a pilotare colpi di scena e ad influenzare il corso degli avvenimenti: l’anello donato da Elisabetta a Roberto in segno (per lei) di amore e (per lui, evidentemente) di semplice stima per le sue capacità politico-militari, anello che alla fine manca il suo scopo (tornare in mano alla Regina salvando Roberto) per uno stupido ritardo di pochi attimi; e una sciarpetta ricamata e donata (in segno di amore) da Sara a Roberto, che diviene il reperto principale per il capo di imputazione del Conte: tradimento nei confronti della Regina, ma mica di natura politica (per quello Elisabetta poteva girare la frittata a suo piacimento e fregarsene del Parlamento) bensì di natura sentimentale, che insieme al mancato arrivo dell’anello fa scattare il risentimento personale della Regina nei confronti di Roberto, decidendola per la sua esecuzione capitale.

Naturalmente troviamo nel libretto anche alcune profondità di contenuto, relative all’inquadramento delle diverse personalità dei protagonisti. Così abbiamo una Regina innamorata, ma più che del giovane Roberto in carne ed ossa, dell’amore in quanto tale, che reclama i suoi diritti sulla sua psiche (L'amor suo mi fe' beata è evidentemente frutto della sua immaginazione, come ci conferma nel duetto del prim’atto l’inconciliabilità fra le parole sue Un tenero core mi rese felice e quelle di Roberto Indarno la sorte un trono m’adddita) a dispetto delle sue volontarie e istituzionali auto-castrazioni. La sua conclusiva abdicazione è più al ruolo di donna, ormai per lei impossibile a realizzarsi, che non a quello di Regina

Sara è il suo contraltare, ma solo in parte: nessuna prospettiva - ma nemmeno alcuna aspirazione - di tipo politico (e qui siamo agli antipodi di Elisabetta) e invece una morbosa e contrastata vita sentimentale, che viene guarda caso condizionata proprio dalle decisioni della Regina: spedire il suo amato Roberto in Irlanda e metterla in moglie al fido Nottingham. La poverina non vede proprio vie d’uscita alla sua condizione (Io vivendo ognor morrò... ci racconta chiudendo la sua triste romanza di presentazione) e il corso dell’opera altro non farà che confermare, passo dopo passo, questa nichilistica prospettiva.

Nottingham è (ma solo a prima vista) il classico uomo tutto d’un pezzo: fedeltà assoluta alla Regina e fraterna amicizia per il coetaneo Roberto; rapporto quest’ultimo che viene fatalmente ad incrinarsi e poi a spezzarsi a causa della condivisione forzata di Sara, che lui ama per dovere convenzionale, mentre lei ha il cuore – anche se non il corpo, stando a Cammarano! - tutto per Roberto. Però alla scoperta della sciarpa di Sara finita in mano a Elisabetta il suo comportamento è proprio da gran paraculo: sfrutta l’incidente e la sua conoscenza del legame affettivo della Regina per Roberto al fine di convincere Elisabetta a mandare l’ex-amico al patibolo, ma noi sappiamo bene che in realtà lui vuol vendicarsi di Roberto poichè si sente da questi cornificato (in via platonica o materiale). Alla fine, scoperti inevitabilmente tutti gli altarini, i coniugi Nottingham vengono meritatamente accomunati dal pollice-verso della Regina, ma francamente chi ci perde di più, diciamolo pure, è la povera Sara, l’unica vittima davvero innocente di tutto il dramma.

Infine Roberto, che dà il titolo all’opera, è forse il personaggio più indecifrabile e non proprio cristallino: fatto oggetto delle attenzioni della babbiona Regina, sembra fingere una certa condiscendenza – ma ogni volta che Elisabetta tocca il tasto del sentimento, lui risponde con quello della fedeltà istituzionale! – solo per trarne vantaggi politici, mentre in realtà i suoi pensieri (e... altro?) vanno alla giovane Sara. Il che lo mette però in una situazione insostenibile, una dissociazione schizofrenica che lo porta dritto al patibolo, pur con le attenuanti della sfiga (Sara impedita dal restituire in tempo il salvifico anello ad Elisabetta).

Ecco, a mo’ di passatempo possiamo provare ad immaginarci come sarebbe mutato il finale nel caso di tempestivo arrivo dell’anello; qui avremmo almeno due possibili sviluppi: Elisabetta resta fedele al suo recente proposito (Vivi, ingrato, a lei d’accanto) e così fa giustiziare Nottingham e consente a Roberto e Sara di coronare il loro sogno d’amore; o viceversa, toglie di mezzo i due Nottingham e così può vivere felice e contenta con il suo Robertino, hahaha!
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Sul piano musicale forse non si toccano i vertici della Lucia, ma non v’è dubbio che l’opera sia uno scrigno di tesori, a partire dalla splendida appropriatezza della scolpitura in suoni della personalità dei quattro principali protagonisti. Non mancano nemmeno omaggi alla più alta tradizione, come testimonia la scena di Roberto nella prigione, che par proprio una versione, diciamo così, à la bergamasque, di quella che apre con Florestan il second’atto di Fidelio.

Mariella Devia è stata -  c‘era forse da dubitarne? - la grande trionfatrice della recita: alle qualità artistiche aggiunge qui anche la perfetta adeguatezza all’età della protagonista: 68 anni! E portati canoramente assai bene, al contrario di quanto accadde qui (2 anni fa) alla inossidabile Edita Gruberova, pure cimentatasi a 68 anni nella stessa parte con risultati – ahilei e ahinoi - purtroppo deprimenti. Il (pur esteticamente discutibile, e non prescritto da Donizetti) RE sovracuto conclusivo è stato il diamante sonoro posto su una ideale corona regale di cui la Mariella ha tutto il diritto di fregiarsi.

Prestazione di buon livello quella di Sonia Ganassi, alle prese con una parte non proibitiva, ma sostenuta con la grande professionalità che contraddistingue da sempre il mezzosoprano emiliano. In particolare citerei per efficacia il duetto con Roberto che chiude il primo atto.

Eccoci appunto al protagonista che dà il nome al titolo: Stefan Pop. Il peso-massimo (ma non gli auguro di raggiungere... Enrico VIII!) rumeno non ha ancora 30 anni, ma la voce è a dir poco sontuosa. Certo, sono i proverbiali 1000 cavalli da mettere a terra, come si usa dire in F1, e il buon Stefan dovrà ancora lavorare parecchio per ottenere un rendimento di eccellenza. In particolare sul versante dell’espressione, che talvolta fa le spese della stessa invadenza della voce. Nella cabaletta finale (che pure il pubblico ha accolto con ovazioni) il nostro si è lasciato prendere da eccessiva foga, accentuando in modo (per i  miei gusti) eccessivo la puntatura del tema, ottenendo effetti da... operetta, ecco.

Nottingham – come annunciato da un foglietto inserito nel programma di sala, ma non dall’altoparlante – era Mansoo Kim, che ha anticipato il cambio a Marco Di Felice. Il baritono coreano si è portato assai bene, già dalla cavatina del prim’atto: la voce è abbastanza solida e... promette bene, diciamo.

Più che positivi Alessandro Fantoni (lo sbifido Cecil) e Claudio Ottino (Gualtiero). Il coro di Pablo Assante ha assolto dignitosamente il suo compito: che non è quantitativamente impegnativo, ma ciò che conta è la qualità della prestazione.

Che dire di Francesco Lanzillotta? Il giovane romano, che ha fatto gavetta più all’estero che in Italia, ha indubbie qualità e merita incoraggiamento: ha le carte in regola per aggiungersi al gruppetto dei giovani direttori italiani, che comprende Mariotti, Bignamini, Beltrami, Rustioni, D’Espinosa...
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Due note sull’allestimento del baritono Alfonso Antoniozzi. Con i tempi che corrono, c’è sempre da fare i complimenti ai registi che ti mostrano precisamente il soggetto dell’opera così come esce da libretto e partitura, risparmiandoti cervellotiche ambientazioni, che so, nella sede di una cupola mafiosa o nel board di una multinazionale quotata a WallStreet. Ecco, qui a Genova si assiste proprio alla vicenda narrata nel libretto. Magari senza troppi orpelli inutili o pacchiani; le scene di Monica Manganelli sono semplici ed essenziali (una piattaforma sopraelevata di qualche gradino dal palco, dove si svolge l’azione) e in più funzionali ai mutamenti d’ambiente, ottenuti spostando pannelli costituiti da grate, che supportano trono, scranni, celle carcerarie, e lasciano sempre intravedere ciò che sta dietro (poichè a corte si spia e si trama). Ambientazione scura, come si addice al soggetto che pochissimo spazio lascia a luce e serenità.

I costumi di Gianluca Falaschi sono allo stesso tempo fedeli a quanto i dipinti d’epoca ci tramandano e di una ricchezza davvero sontuosa! Assai efficaci le luci di Luciano Novelli, che mettono di volta in volta in risalto i movimenti dei personaggi e delle masse.  

Il malsano ambiente di corte è didascalicamente rappresentato dalle maschere indossate dalle masse e dalla presenza di giullari: come dire che la corte è tutta una pagliacciata? I movimenti di tutti sono sempre piuttosto lenti e ieratici (del resto nel libretto c’è assai poca azione) ma assai appropriati alle diverse psicologie dei protagonisti.
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Come detto, accoglienza calorosissima per tutti e trionfo-nel-trionfo per la grande Mariella. Che a questo punto aspettiamo ancora a Genova per il previsto completamento della trilogia.  

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