Ieri pomeriggio un
Carlo Felice piacevolmente gremito da
una folla entusiasta ha ospitato la seconda
recita di Roberto Devereux, terzo atto della donizettiana trilogia
Tudor (1830 Bolena, 1835 Stuarda, 1837 Devereux). Tre opere che trattano
(più o meno liberamente) delle vicende dei reali inglesi negli anni che vanno
dal 1536 al 1601: sono 65 dei 70 anni di Elisabetta I. Lei ai tempi dell’Anna Bolena (sua madre) aveva solo 3
anni, quindi non poteva ancora comminare condanne a morte (quella della madre toccò
al padre Enrico VIII) e tantomeno cantare in teatro (smile!) Ne aveva poi 54 (1587) ai tempi della Maria Stuarda, sua cugina da lei mandata al patibolo, e 68 appunto
in questo Roberto Devereux, pure
spedito anzitempo (aveva precisamente la metà degli anni della Regina, 34!) al
creatore.
Ecco, i tre
personaggi che danno i titoli alle opere hanno in comune il fatto di essere decollati: oh, parliamo di decollazioni,
mica di decolli... di aerei per le vacanze, eh! E non si trattò di cose
semplici e burocratiche, tutt’altro: vediamo.
Anna fu
gratificata dal corpulento Enrico (180Kg per 180cm!) non di uno ma di ben due
privilegi: la pena canonica per arrostitura al rogo fu commutata in quella per
decapitazione; per di più da eseguirsi, invece che con il barbaro rito
albionico (scure calata dal boia sul collo della vittima appoggiato sul ceppo)
con il più raffinato ed assai meno antipatico rito francese, che prevedeva – in
attesa dell’invenzione della tecnologica ghigliottina - la mozzatura del collo
eseguita con un colpo di spada e con la vittima inginocchiata sì, ma con il
capo in posizione eretta (già, l’esprit
de finesse... sappiamo che Anna da ragazza aveva soggiornato alla corte
parigina). Quindi per lei fu chiamato dalla Francia un autentico specialista
del ramo, tale Jean Rombaud da Calais
che, armato di un ben affilato spadone da samurai, con un sol fendente le
separò di netto la testa dalle spalle.
Per Maria invece
si resero necessarie ben due asciate del boia, più un terzo colpetto per recidere
un’ultima cartilagine renitente; poco dopo fra le pieghe delle sue vesti si
scovò un piccolo maltese che Maria si era portata appresso e che si rifiutava
di abbandonare il suo corpo straziato.
Ma peggio ancora
andò al Roberto, sul cui robusto collo il boia dovette infierire con la scure per
ben tre volte, prima di poter esibire alla folla la testa del fedifrago,
gridando lo slogan di prammatica: God
save the Queen!
E le
parole con cui principia l’Inno britannico ci portano direttamente alla Sinfonia dell’opera. Peraltro sarà bene
ricordare che per la prima assoluta
di Napoli (domenica 29 ottobre, 1837) Donizetti aveva composto, un po’ come
aveva fatto per la Stuarda, solo un brevissimo (11 battute) Preludio che precede l’Introduzione dell’Atto I. La Sinfonia che
oggi si esegue comunemente fu composta per la prima francese (giovedi 27 dicembre 1838, Parigi, Théâtre des Italiens) e francamente, se proprio non è
un corpo estraneo rispetto all’opera, di certo ne evoca assai maldestramente i
contenuti. Dopo l’attacco in SOL minore, con i pesanti accordi sulla dominante
RE, compare improvvisamente nella relativa SIb maggiore (eccolo là) il
famigerato God save the Queen!
Così come è antistorico il finale dell’opera, con l’abdicazione del
tutto inventata di Elisabetta in favore di Giacomo (figlio della Stuarda,
guarda un po’ i casi della vita...) altrettanto fasulla è la citazione
dell’inno che risale, a voler esagerare, al 1619 (John Bull) ma più probabilmente a metà del 1700 (definitiva
vittoria degli Hannover sugli Stuart). In ogni caso nel
1601 (anno di ambientazione dell’opera) l’inno non esisteva proprio. Ritorna il SOL minore con un motivo agitato, intercalato
ancora dall’inno britannico, prima che una serie di modulazioni porti al FA
maggiore, dove ascoltiamo il tema che Devereux canterà in LA maggiore nel
terz’atto (Bagnato
il sen di lagrime) apprendendo della sua imminente decollazione e
della disperazione che ciò provocherà nella sua amata Sara. Solo che qui viene
presentato come un’allegra marcetta! Poi si modula progressivamente a RE
maggiore per l’entrata di un nuovo motivo assai vivace e spensierato, e infine -
per chiudere in bellezza, neanche fossimo a... Cavalleria leggera - ecco tornare il tema di Devereux letteralmente
spiritato, con protervo accompagnamento (RE-LA) di timpani. Insomma, una cosa
assai bizzarra, giustificata probabilmente dal desiderio di Donizetti di
accattivarsi a buon mercato le simpatie del pubblico parigino. Ecco perchè
alcuni direttori (qui il leggendario Gavazzeni a Bologna nel 1993) scelgono talvolta di eseguire l’opera proprio come
presentata in origine a Napoli, cioè senza la discutibile Sinfonia
appiccicatavi a posteriori.
Quanto al
libretto di Salvadore Cammarano, si
può dire abbia davvero un corposo pedigree:
di certo fu ispirato direttamente (come l’analogo del 1833 di Romani per
Mercadante) dal dramma Elisabeth
d’Angleterre di Jacques-François Ancelot (1829). Ma un’altra probabile fonte di Cammarano
risalirebbe al 1787, e si tratterebbe di un testo di Jacques
Le Scène-Desmaisons intitolato assai
sinteticamente (!) Histoire
d'Élisabeth et du comte d'Essex, tirée de l'anglois des Mémoires d'un homme de
qualité. Il quale testo era quindi a sua volta la traduzione di
un altro di autore anonimo (ma... di qualità) risalente al 1680 e titolato The secret history of the most renowned Q.
Elizabeth and the E. of Essex by a person of quality. Il quale a sua
volta potrebbe essere la traduzione dal francese di un preesistente (1678) Comte d'Essex histoire angloise.
Insomma, un soggetto di lunghissima data! E non a caso, dato il mistero e la
curiosità che la persona della Regina vergine (?!) ha suscitato nella fantasia
popolare.
È chiaro che il soggetto
di Cammarano non si ponesse l’obiettivo di tenerci una lezione di Storia
albionica, ma ovviamente di creare ambienti, vicende e situazioni che fornissero al compositore materia per un classico melodramma. A partire da un paio di
oggetti che servono a pilotare colpi di scena e ad influenzare il corso degli
avvenimenti: l’anello donato da Elisabetta a Roberto in segno (per lei) di
amore e (per lui, evidentemente) di semplice stima per le sue capacità
politico-militari, anello che alla fine manca il suo scopo (tornare in mano
alla Regina salvando Roberto) per uno stupido ritardo di pochi attimi; e una
sciarpetta ricamata e donata (in segno di amore) da Sara a Roberto, che diviene
il reperto principale per il capo di imputazione del Conte: tradimento nei
confronti della Regina, ma mica di natura politica (per quello Elisabetta
poteva girare la frittata a suo piacimento e fregarsene del Parlamento) bensì
di natura sentimentale, che insieme al mancato arrivo dell’anello fa scattare
il risentimento personale della Regina nei confronti di Roberto, decidendola
per la sua esecuzione capitale.
Naturalmente
troviamo nel libretto anche alcune profondità di contenuto, relative
all’inquadramento delle diverse personalità dei protagonisti. Così abbiamo una Regina innamorata, ma più che del
giovane Roberto in carne ed ossa, dell’amore
in quanto tale, che reclama i suoi diritti sulla sua psiche (L'amor suo mi fe' beata è evidentemente frutto della sua
immaginazione, come ci conferma nel duetto del prim’atto l’inconciliabilità fra
le parole sue Un
tenero core mi rese felice e quelle di Roberto Indarno la sorte un trono m’adddita) a dispetto delle sue volontarie e istituzionali
auto-castrazioni. La sua conclusiva abdicazione è più al ruolo di donna, ormai per lei impossibile a
realizzarsi, che non a quello di Regina.
Sara è il suo
contraltare, ma solo in parte: nessuna prospettiva - ma nemmeno alcuna
aspirazione - di tipo politico (e qui siamo agli antipodi di Elisabetta) e
invece una morbosa e contrastata vita sentimentale, che viene guarda caso
condizionata proprio dalle decisioni della Regina: spedire il suo amato Roberto
in Irlanda e metterla in moglie al fido Nottingham. La poverina non vede
proprio vie d’uscita alla sua condizione (Io vivendo ognor morrò... ci racconta chiudendo
la sua triste romanza di
presentazione) e il corso dell’opera altro non farà che confermare, passo dopo
passo, questa nichilistica prospettiva.
Nottingham è (ma solo a
prima vista) il classico uomo tutto d’un pezzo: fedeltà assoluta alla Regina e fraterna
amicizia per il coetaneo Roberto; rapporto quest’ultimo che viene fatalmente ad
incrinarsi e poi a spezzarsi a causa della condivisione
forzata di Sara, che lui ama per dovere
convenzionale, mentre lei ha il cuore
– anche se non il corpo, stando a Cammarano!
- tutto per Roberto. Però alla scoperta della sciarpa di Sara finita in mano a
Elisabetta il suo comportamento è proprio da gran paraculo: sfrutta l’incidente
e la sua conoscenza del legame affettivo della Regina per Roberto al fine di
convincere Elisabetta a mandare l’ex-amico al patibolo, ma noi sappiamo bene
che in realtà lui vuol vendicarsi di Roberto poichè si sente da questi cornificato (in via platonica o materiale).
Alla fine, scoperti inevitabilmente tutti gli altarini, i coniugi Nottingham
vengono meritatamente accomunati dal pollice-verso
della Regina, ma francamente chi ci perde di più, diciamolo pure, è la povera
Sara, l’unica vittima davvero innocente
di tutto il dramma.
Infine Roberto, che dà il titolo all’opera, è
forse il personaggio più indecifrabile e non proprio cristallino: fatto oggetto
delle attenzioni della babbiona Regina, sembra fingere una certa condiscendenza
– ma ogni volta che Elisabetta tocca il tasto del sentimento, lui risponde con
quello della fedeltà istituzionale! – solo per trarne vantaggi politici, mentre
in realtà i suoi pensieri (e... altro?) vanno alla giovane Sara. Il che lo
mette però in una situazione insostenibile, una dissociazione schizofrenica che
lo porta dritto al patibolo, pur con le attenuanti della sfiga (Sara impedita dal restituire in tempo il salvifico anello ad
Elisabetta).
Ecco, a mo’ di
passatempo possiamo provare ad immaginarci come sarebbe mutato il finale nel
caso di tempestivo arrivo dell’anello; qui avremmo almeno due possibili
sviluppi: Elisabetta resta fedele al suo recente proposito (Vivi, ingrato, a
lei d’accanto) e così fa giustiziare Nottingham e consente a Roberto
e Sara di coronare il loro sogno d’amore; o viceversa, toglie di mezzo i due
Nottingham e così può vivere felice e contenta con il suo Robertino, hahaha!
___
Sul piano
musicale forse non si toccano i vertici della Lucia, ma non v’è dubbio che l’opera sia uno scrigno di tesori, a
partire dalla splendida appropriatezza della scolpitura in suoni della
personalità dei quattro principali protagonisti. Non mancano nemmeno omaggi alla
più alta tradizione, come testimonia la scena di Roberto nella prigione, che par
proprio una versione, diciamo così, à la
bergamasque, di quella che apre con Florestan il second’atto di Fidelio.
Mariella Devia è stata - c‘era forse da dubitarne? - la grande trionfatrice
della recita: alle qualità artistiche aggiunge qui anche la perfetta adeguatezza
all’età della protagonista: 68 anni! E portati canoramente assai bene, al
contrario di quanto accadde qui (2 anni fa) alla inossidabile Edita Gruberova, pure cimentatasi a 68 anni
nella stessa parte con risultati – ahilei e ahinoi - purtroppo deprimenti. Il (pur
esteticamente discutibile, e non prescritto da Donizetti) RE sovracuto
conclusivo è stato il diamante sonoro posto su una ideale corona regale di cui
la Mariella ha tutto il diritto di fregiarsi.
Prestazione di
buon livello quella di Sonia Ganassi,
alle prese con una parte non proibitiva, ma sostenuta con la grande professionalità
che contraddistingue da sempre il mezzosoprano emiliano. In particolare citerei
per efficacia il duetto con Roberto che chiude il primo atto.
Eccoci appunto
al protagonista che dà il nome al titolo: Stefan
Pop. Il peso-massimo (ma non gli auguro di raggiungere... Enrico VIII!) rumeno
non ha ancora 30 anni, ma la voce è a dir poco sontuosa. Certo, sono i proverbiali
1000 cavalli da mettere a terra, come
si usa dire in F1, e il buon Stefan dovrà ancora lavorare parecchio per
ottenere un rendimento di eccellenza. In particolare sul versante dell’espressione,
che talvolta fa le spese della stessa invadenza della voce. Nella cabaletta
finale (che pure il pubblico ha accolto con ovazioni) il nostro si è lasciato prendere
da eccessiva foga, accentuando in modo (per i miei gusti) eccessivo la puntatura del tema, ottenendo effetti da... operetta, ecco.
Nottingham – come
annunciato da un foglietto inserito nel programma di sala, ma non dall’altoparlante
– era Mansoo Kim, che ha anticipato il
cambio a Marco Di Felice. Il baritono coreano si è portato assai bene, già
dalla cavatina del prim’atto: la voce è abbastanza solida e... promette bene,
diciamo.
Più che positivi
Alessandro Fantoni (lo sbifido Cecil)
e Claudio Ottino (Gualtiero). Il coro
di Pablo Assante ha assolto dignitosamente
il suo compito: che non è quantitativamente impegnativo, ma ciò che conta è la
qualità della prestazione.
Che dire di Francesco Lanzillotta? Il giovane romano,
che ha fatto gavetta più all’estero che in Italia, ha indubbie qualità e merita
incoraggiamento: ha le carte in regola per aggiungersi al gruppetto dei giovani
direttori italiani, che comprende Mariotti, Bignamini, Beltrami, Rustioni, D’Espinosa...
___
Due note sull’allestimento
del baritono Alfonso Antoniozzi. Con i
tempi che corrono, c’è sempre da fare i complimenti ai registi che ti mostrano
precisamente il soggetto dell’opera così come esce da libretto e partitura, risparmiandoti
cervellotiche ambientazioni, che so, nella sede di una cupola mafiosa o nel board di una
multinazionale quotata a WallStreet. Ecco, qui a Genova si assiste proprio alla
vicenda narrata nel libretto. Magari senza troppi orpelli inutili o pacchiani;
le scene di Monica Manganelli sono semplici ed essenziali (una piattaforma
sopraelevata di qualche gradino dal palco, dove si svolge l’azione) e in più
funzionali ai mutamenti d’ambiente, ottenuti spostando pannelli costituiti da
grate, che supportano trono, scranni, celle carcerarie, e lasciano sempre
intravedere ciò che sta dietro (poichè a corte si spia e si trama). Ambientazione
scura, come si addice al soggetto che pochissimo spazio lascia a luce e
serenità.
I costumi di
Gianluca Falaschi sono allo stesso tempo fedeli a quanto i dipinti d’epoca ci
tramandano e di una ricchezza davvero sontuosa! Assai efficaci le luci di
Luciano Novelli, che mettono di volta in volta in risalto i movimenti dei
personaggi e delle masse.
Il malsano ambiente
di corte è didascalicamente
rappresentato dalle maschere indossate dalle masse e dalla presenza di giullari:
come dire che la corte è tutta una pagliacciata? I movimenti di tutti sono
sempre piuttosto lenti e ieratici (del resto nel libretto c’è assai poca azione) ma assai appropriati alle diverse
psicologie dei protagonisti.
___
Come detto,
accoglienza calorosissima per tutti e trionfo-nel-trionfo per la grande Mariella.
Che a questo punto aspettiamo ancora a Genova per il previsto completamento
della trilogia.
Nessun commento:
Posta un commento