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24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

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Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

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La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…


07 giugno, 2025

La seconda giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La nuova tappa verso l’agognata meta (marzo 2026) delle due rappresentazioni del ciclo completo del Ring arriva ora alla Seconda giornata (Siegfried). Ieri la prima rappresentazione, in un teatro affollato ma non troppo, ecco.

Prima dell’inizio, a luci in sala già spente, sul sipario rigido vengono proiettate scritte con il NO alla guerra e il SI alla pace, con il nobile, ecumenico appello di... Simon Boccanegra. Servirà a qualcosa? 

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Qualcuno ha azzardato una similitudine, in fatto di contenuti musicali, fra le quattro parti del Ring e gli altrettanti movimenti di una sinfonia (e infatti si dice anche che Wagner abbia portato la sinfonia nell’opera…) Siegfried assumerebbe quindi, perlomeno in analogia alla sinfonia beethoveniana (e post-) la posizione e il ruolo dello Scherzo. Il più illustre esegeta italiano del Ring, Teodoro Celli, così si esprimeva in proposito nella sua memorabile Guida all’ascolto del 1983:

Ma naturalmente si potrebbe anche associare la quadripartita forma del Ring alle quattro stagioni: partendo dal Rheingold visto come il crudo Inverno dell’Universo; passando poi a Walküre come la promettente Primavera; quindi a Siegfried, la calda Estate; e per finire con Götterdämmerung, l’Autunno che prefigura il ritorno alla stagione fredda, dove tutto lentamente muore per prepararsi ad un nuovo ciclo di vita…

E, perchè no, a proposito di vita, anche alle fasi dell’esistenza di ogni creatura vivente, che viene faticosamente alla luce, poi si sviluppa, quindi esprime il massimo delle sue potenzialità, per poi lentamente avviarsi al suo inevitabile tramonto, con prospettive consolanti o disperanti…

È ovvio che questi raffronti lasciano il tempo che trovano, se non altro perché le dimensioni stesse del mostro wagneriano impediscono di poterne cogliere l’intero panorama in un sol colpo d’occhio e in una sola esperienza, nemmeno mettendosi per 15 ore consecutive ad ascoltarlo da cima a fondo… e peggio ancora quando le quattro parti sono messe in scena separatamente e a distanza di mesi (o anni!) E poi, la stessa materiale estensione temporale della composizione del tutto rende inevitabili piccole o grandi mutazioni nello stile compositivo di Wagner.

Resta comunque possibile, prendendo a testimone Verdi, individuare anche in Wagner quella che il Peppino definiva come la tinta di ogni sua opera. E da questo punto di vista certamente si può concludere che Siegfried sia, musicalmente, davvero un’opera solare.

E quindi: come ce l’ha proposta, la simpatica Simone Young? Una confortante testimonianza tecnologica ci veniva dallo scorso Festival wagneriano, dove la Young ha esordito - dopo decenni di gavetta - proprio con la direzione del Ring, con cast (quasi del tutto) diverso da quello scaligero. Ieri la Direttrice aussie mi è parsa apprezzabile nell’approccio all’agogica, e un  po’ sopra le righe nelle dinamiche, spesso fin troppo invadenti. Il che ha messo in risalto la splendida forma dell’Orchestra, facendo uscire dalla buca travolgenti fiumi sonori (memorabile il corno di Giovanni Emanuele Urso!); suoni che hanno magari penalizzato le voci, ecco.

Michael Volle, è stato ancora una volta un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma la voce… pure, in senso positivo, ovvio!

Siegfried è Klaus Florian Vogt, che canta benissimo con la sua voce di tenore… lirico. Chi si aspetterebbe il classico Heldentenor magari storce il naso. Ma ci dobbiamo accontentare e forse pure abituarci.

Benissimo la Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace sempre di emozionarci: per la sua trasformazione nella Walküre e qui per la sua sofferta, ma alla fine convinta, accettazione del suo status di donna.   

Ottima ancora la prestazione di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, un Mime esemplare per canto e presenza scenica. Il fratello cattivo Alberich è un Ólafur Sigurdarson che (come in Rheingold) è eccessivamente caricaturale, ma vocalmente apprezzabile.

Onesta la prestazione del drago Fafner, un Ain Anger un po’… leggero da vivo, con i tritoni poco efficaci, ma meglio da moribondo, quando torna al classico diatonismo.

Bene anche la Erda di Christa Mayer, che resiste come può agli strapazzi di cui la fa bersaglio l’ingrato Wotan.

Piacevole sorpresa l’uccellino di Francesca Aspromonte, voce penetrante (e non… pigolante) che peraltro il regista ha sempre fatto cantare ben in primo piano e non, come accade spesso, appollaiata in qualche remoto angolo della torre scenica.

Per tutti i musikanten alla fine solo applausi, ovazioni e trionfo pieno.

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McVicar. Come nei due precedenti drammi, la sua impostazione scenica è piuttosto minimalista, con poco più dell’essenziale. Tuttavia mi è parsa complessivamente efficace.

Nel primo atto la stamberga di Mime è assolutamente realistica, con la forgia, il mantice e tutti gli attrezzi necessari, il che ci permette di seguire perfettamente tutto il complesso processo di rifusione e ricostruzione della spada. Un paio di trovate sono da segnalare: Mime che si traveste da megera quando deve spiegare a Siegfried di essergli anche madre, oltre che padre (poi si abbiglierà da regina al momento di esultare per la prossima riuscita del suo piano). Poi la veste di Sieglinde che lui mostra a Siegfried quando gli descrive la sua nascita; veste che poi Wotan – alla seconda domanda che indirizza a Mime - ritrova e stringe al petto in commosso ricordo della figlia!

Nel secondo atto la scena è più spoglia (un paio di alberi e poco più) per accogliere Alberich, vestito da sovrano spodestato che trascina un carretto con le sue povere cose, inclusa una corona dorata; e Wotan che arriva per organizzare la pantomima con Fafner. Scena che poi si svuota proprio all’uscita del drago, una specie di enorme ragno teschiuto manovrato da comparse, finchè è vivo. Poi, trafitto al cuore da Siegfried, si ritira sul fiondo e al suo posto compare… Ain Anger a far la figura del… moribondo. L’uccellino è un gallinaceo-giocattolo, a volte manovrato dalla Aspromonte e altre fatto svolazzare qua e là da una comparsa munita di lunga pertica: come detto, ciò consente alla cantante di farsi ben udire da tutti.

Nel terzo atto la scena si riduce alla presenza di un globo terracqueo dietro al quale compare Erda per il suo confronto con il padre delle sue numerose figlie… Poi la scena viene quasi totalmente chiusa da una grande quinta che lascia solo intravedere un ambiente infuocato. Wotan e Siegfried si incontrano, e scontrano, solo al proscenio. Per la terza e conclusiva scena tornano l’enorme testa supina di Erda e la manona (una delle tre comparse nel Rheingold) che nella Walküre era servita come letto su cui adagiare Brünnhilde. Che ora viene svegliata dai ripetuti baci di Siegfried per dar poi luogo al travologente finale, con lucente amore e ridente morte.

Insomma, una messinscena che personalmente tendo ad apprezzare, come onesto compromesso fra un frusto tradizionalismo e tante astruse ambientazioni moderne. Qui il pubblico si è diviso fra applausi e qualche contestazione. Ma in complesso direi che questa tappa del lungo viaggio sia stata un buon… passo avanti.


26 maggio, 2025

Scala: partenza un po’ fantozziana della stagione 25-26

Alle 12 di oggi era prevista la diffusione in streaming della conferenza stampa per l’annuncio in pompa magna della nuova stagione.

Sullo schermo dello streaming il count-down procedeva regolare… ma a poco più di 3 minuti dall’ora prevista per l’inizio è comparso il messaggio: video non disponibile!  

Panico (beh, insomma…) e vaffanculi assortiti per la gradevole sorpresa, durata per diversi minuti prima che lo streaming riprendesse in-medias-res, cioè durante lo speech iniziale del sottosegretario alla cultura (no, il ministro forse ha un'oratoria troppo inarrivabile per un ambiente provinciale come quello meneghino).

Ma la sorpresa più grande è stata il sottofondo di musica strumentale che ha accompagnato questo saluto e anche parecchi minuti di trasmissione a seguire, prima di essere silenziato anche a fronte di commenti piuttosto acidi della chat: le variazioni Enigma di Elgar!!! Perfidia pura, hahaha!

Che dire della stagione? Una delle più importanti novità è che l’intero gennaio sarà un mese sabbatico per l’opera: nessuno spettacolo!


15 maggio, 2025

Chailly-Brook fanno trionfare Weill-Brecht alla Scala

Dopo il Dittico del 2021 in piena era Covid, la Scala rilancia la posta con un Trittico di opere di Kurt Weill (e Bertolt Brecht). Così a Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel si aggiunge oggi anche The songs of Happy End.

Come allora, sul podio sempre il Direttore Musicale, con la regìa ancora affidata a Irina Brook. Quasi confermato anche il cast: per le prime due opere cambia solo Alma Sadè, che subentra a Kate Lindsey; per la terza, oltre alla Sadè, si aggiungono le voci di Werba, Petrinsky e Giunta, mentre si perde quella di Harris.

Irina Brook (che ha curato anche scene e costumi) dà la sua impronta allo spettacolo trovando alcuni fili rossi a collegare fra loro i tre spezzoni di questo ideale trittico (che non fu certo pensato come tale in origine). In particolare tutti e tre hanno in comune gli aspetti peccaminosi della nostra moderna civiltà, aspetti che si presentano con manifestazioni e sfumature diverse: in Todsünden riguardano le deviazioni dell’approccio pionieristico-calvinista di una tipica famiglia sudista-americana; in Mahagonny prendono l’aspetto della bieca rincorsa al benessere in spregio alla Natura e alla Morale; in Happy End abbiamo una critica spietata della società industriale e capitalistica (impersonata dai miti di Rockefeller e Ford) con riferimenti espliciti all’attualità delle problematiche ecologiche e ambientali che caratterizzano proprio i giorni nostri.

Il finale (voluto da Chailly aggiungendo a quelli di Brecht un testo di Roger Fernay musicato da Weill anni dopo gli altri) vuol riportarci un po’ di ingenua utopia…

Si parte quindi da Die sieben Todsünden (1933, praticamente l’ultima collaborazione Weill-Brecht) che fu battezzata come balletto con canto, quasi trattarsi di un nuovo genere musicale, basato figurativamente sulla danza e musicalmente sul canto, due arti portate in scena da interpreti diversi (danzatori e cantanti).

Completato da un Prologo e da un Epilogo, si struttura in sette sezioni, rispettivamente evocanti gli altrettanti peccati (vizi…) capitali, esplorati nel corso di un lungo (sette – ovviamente - anni) viaggio di andata-e-ritorno di due sorelle Anna (I e II, ma forse due facce di una stessa Anna) dalla natia Lousiana fino a toccare San Francisco, dopo aver attraversato gli States in lungo e in largo, proprio coast-to-coast:

Dal soggetto emerge una (neanche tanto) sottile critica alla società americana dei consumi e soprattutto dell’arrivismo, che affligge potenti e umili, di fatto obbligando ciascuno a commettere i sette peccati capitali pur di raggiungere i propri obiettivi esistenziali. 

Magari dovendo alla fine concludere che, tutto sommato, si stava quasi meglio… prima. Come dimostra il racconto di Anna I da SanFrancisco (ultima tappa del viaggio prima del ritorno a casa) dove ci narra di come Anna II sia ricaduta praticamente in tutti i peccati capitali!

Un aspetto critico a livello di messinscena è rappresentato dalla forma ibrida del lavoro, programmaticamente pensato come balletto-cantata (con soli e coretto) su temi politico-socio-etico-esistenziali.

Bene, Irina Brook risolve la questione semplicemente… ignorando la danza. La scarna scena (sarà condivisa anche da Mahagonny) mostra un piccolo banco da bar con un paio di tavolini e una piattaforma-soppalco per esibizioni da intrattenimento. Lì si muovono le due Anna e, di volta in volta, pochi avventori o i quattro altri componenti della famiglia delle ragazze. Una multicolore nuvola illumina la scena dall’alto, ma scopriremo che trattasi di… rifiuti di plastica. Uno schermo sullo sfondo proietta scene di vita della natia Louisiana.

Vi vediamo all’inizio la famiglia al completo, che vive in una roulotte dotata di un generatore elettrico a… pedali; e poi scene di vita di papà, mamma e due fratelli che investono in gozzoviglie i dollari guadagnati a fatica dalle due Anna, lamentandosi poi di non averne a sufficienza per costruire l’agognata casetta… Insomma, i sette vizi che i quattro consigliano alle due girovaghe di evitare, sono proprio loro a praticarli. Alla fine, tornate all’ovile le due Anna, andrà in fiamme pure la roulotte, e buonanottealsecchio!

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Con Mahagonny Songspiel si retrocede (1927) alla prima solida collaborazione di Weill con Brecht, che avrà più tardi lo sbocco nell’opera teatrale ispirata al soggetto della città promessa, ma poi trasgressiva e infine perduta. Si tratta per ora di una collazione di cinque canzoni più un finale che segnano alcune delle tappe del percorso autodistruttivo della città immaginaria dal nome che richiama il mogano, legno tipico delle furnitures americane.

Tre delle cinque canzoni (1-3-5) portano come titolo il nome della città (Mahagonny I, II, III) e ne descrivono l’improbabile vita, inclusa un’incursione di Dio che ne rimane inorridito; intercalate dalle altre due (Alabama e Benares), testo in lingua inglese, che evocano nostalgia del passato e anelito verso un futuro luminoso che però si volatilizza prima ancora di manifestarsi. Il Finale deve tristemente constatare che Mahagonny, semplicemente… non esiste!

La scena, come detto, è praticamente quella dei Todsünden, ma arricchita di montagne di rifiuti in plastica (la simpatica nuvola di poco prima, semplicemente... atterrata) abbandonati ovunque, a testimoniare dei mali, materiali e morali che affliggono il nostro mondo; e ben si attaglia anche all’ambiente della città dove domina ogni specie di vizio, praticato in prevalenza da maschi e dove le due donne (Jessie e Bessie) portano i patetici richiami al mondo che si son lasciate alle spalle o a quello che vorrebbero raggiungere per sfuggire al degrado nel quale sono capitate. 

Emblematica la figura di Dio, arrivato lì con ermellino, bastone e… revolver per mandare tutti all’inferno! Degna conclusione per una società che non si merita di meglio: lo schermo ci ricorda i peccati capitali e un orso, che fugge al crollo dei ghiacci polari, il peccato più grande della nostra civiltà. Tuttavia ci consoliamo, chè quella città è pura immaginazione (!?) 

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Dopo l’intervallo, chiude il trittico The songs of Happy End. Tredici canzoni dal musical del 1929, che viene qui sfrondato della parte dialogica (i recitativi, si direbbe in termini operistici) ma alla fine arricchito da un pezzo di Weill del 1935, un tango-habanera su testo – in francese - di Roger Fernay, dal titolo Youkali, un’isola immaginaria/metafisica che fa da contraltare a Mahagonny: lì c’è solo piacere e beatitudine, e lì sogna di approdare l’anima dell’Uomo.

Irina Brook cambia radicalmente la scena, ora praticamente sgombra e quasi al buio. Sul fondo una fila di nove tavoli da toeletta con specchio per il trucco dei personaggi e per il resto solo sedie su cui costoro si accomodano di volta in volta, testimoni delle tredici (più una!) canzoni del musical. Non manca l’attore non-cantante che impersona qui un severo osservatore degli eventi, come aveva impersonato il Dio a Mahagonny. Per il resto, abbiamo le otto voci che interpretano le canzoni, più altre sei comparse.

La chiusura utopistica di Fernay-Weill si trasforma, nel pensiero della Brook, in una visione distopica: possiamo ancora fare qualcosa per evitare il peggio?

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La musica? Accomuno tutte le voci del cast, indistintamente, in un elogio senza riserve, pur proporzionato ai diversi livelli di impegno e di difficoltà delle diverse parti, ma davvero in questo caso mi sembrerebbe fuori luogo stilare classifiche e dare voti.

Un’osservazione mi permetto modestamente di avanzare alla direzione di Chailly.

Niente da dire sull’approccio interpretativo, già più volte anticipato dal Maestro, che ha chiesto alla sua orchestra (progressivamente smagritasi lungo la serata e i cui ultimi rappresentanti sono stati meritoriamente portati sul palco per gli applausi finali) di suonare ciò che è freddamente scritto in partitura con una propria, personale sensibilità swing

Forse temendo che l’organico ridotto penalizzasse l’ascolto in sala, Chailly ha fatto alzare il pavimento della buca di un buon metro (come si fa solitamente quando suonano gli ensemble barocchi). Purtroppo l’effetto (e qui è proprio Chailly a doverne rispondere) è stato controproducente, chè spesso e volentieri il suono di ottoni e percussioni ha bellamente coperto le voci. Ecco, un unico neo in una prestazione di eccellenza.

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Pubblico non oceanico (peggio per gli assenti) che ha però decretato un autentico trionfo per tutti. Una proposta, questa, che insieme alle due precedenti (Gassmann-Calzabigi e Filidei-Eco) dà grande lustro a questa stagione (l’ultima…) di Dominique Meyer.

28 aprile, 2025

Filidei alla Scala: debutto con applausi e contestazioni

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima assoluta de Il nome della rosa, opera che il Teatro ha commissionato a Francesco Filidei, che ha predisposto – con Stefano Busellato (e altri) - anche il libretto, derivandolo dal romanzo di Umberto Eco.

Parto dalla fine. Applausi convinti per i cori di Malazzi e Casoni, poi per i singoli cantanti. Sembra un trionfo, ma quando tutto il cast si affaccia in parata al proscenio ecco piovere dal secondo loggione una salva di buh, che poi si estende anche all’uscita del team registico e dello stesso Filidei. Insomma, un debutto piuttosto contrastato.

Parliamoci chiaro: la musica di Filidei non è propriamente un dolce rosolio, peccando forse di velleitarismo e di eccessiva cerebralità: la struttura cosiddetta a frattali, con le 24 scene che esplorano in andata e ritorno l’intera scala cromatica è di difficile comprensione, poiché gli scarti di tonalità, che sarebbero già difficilmente avvertibili se le linee melodiche e armoniche fossero di natura diatonica, diventano un grammelot se sono a volte improntate ad atonalità, altre a serialità e quasi perennemente infarcite di dissonanze e rumorismo.

Insomma, musica troppo artefatta e quindi fredda agli occhi orecchi di un pubblico che fatica a raccapezzarcisi. Aggiungiamo che il canto è spesso pura declamazione, se non puro parlato, e così si può spiegare la reazione negativa di parte del pubblico, di cui hanno fatto le spese in blocco i componenti del cast che singolarmente hanno invece dato il massimo e personalmente mi sento di accomunare in un generale elogio, da estendersi poi alla compagine orchestrale e al Direttore Metzmacher che l’ha guidata con polso fermo e sicuro.

Quanto all’allestimento, Michieletto (con il suo team) ha risolto da gran maestro di teatro tutti i problemi che la messinscena di un simile soggetto comporta. Mi limito a citare alcune intuizioni davvero geniali che caratterizzano il suo spettacolo, complessivamente di alto livello.

Dapprima, la presentazione della scena di apertura (il portale della Chiesa) mostrato non (come si potrebbe pensare) come un tableau vivant, ma come un enorme bassorilievo che progressivamente si anima con la fuoriuscita dei personaggi ivi scolpiti, ad evocare e rappresentare mirabilmente lo sconcerto e l’ammirazione insieme dello stupefatto Adso, mentre il coro canta versi dell’Apocalisse.

Poi una specie di enorme Dama con il liocorno, nel cui grembo va a sdraiarsi (al posto dell’animaletto) il conturbato Adso. E ancora la scena finale del primo atto, davvero geniale nel coniugare le due essenze della Ragazza: quella erotica e sensuale, che esce dal collo mozzato della testa di un enorme bue - trascinato dai sei personaggi dolciniani con teste d’animali - dal quale poi l’essenza umana e miserevole della stessa ragazza estrarrà l’enorme cuore.

E che dire della drammatica presentazione della morte di Malachia, che nel testo è descritta in tre parole, mentre noi la vediamo proprio come si materializza nell’incubo del povero bibliotecario, suggestionato da Jorge con la visione degli scorpioni che lo divorano!

E poi la resa (impossibile da ottenere se si dovesse seguire pedestremente il testo) della morte di Abbone, progressivamente imprigionato da due blocchi di pietra che lentamente si stringono al suo corpo, sospinti da Jorge!

E infine la scena conclusiva, con i tronconi del velario del labirinto che crollano al suolo mentre la croce si incendia e Guglielmo e Adso si congedano, prima che la visione della donna (nelle sue due espressioni) chiuda il dramma, con i contrabbassi che esalano, dopo il DO che ciclicamente ci riporterebbe all’inizio della storia, quel DO# nel grave che prefigura una nuova (?) vita.

Ecco: in sintesi, uno spettacolo di alto livello, che a mio modesto avviso va apprezzato per la nobiltà delle intenzioni degli autori e la professionalità degli esecutori.


24 aprile, 2025

Eco in musica alla Scala

La stagione scaligera 24-25 ha il privilegio particolare di offrire al pubblico la prima assoluta di una nuova opera (quasi) tutta italiana: a parte il Concertatore (Metzmacher) sono italiani l’ispiratore (Eco), il compositore-librettista (Filidei) e il regista (Michieletto).

[Stante la natura anche esoterica del romanzo, si può osservare come esista un legame, appunto… cabalistico, fra il cognome del compositore e un’esternazione che Eco mette in bocca a Salvatore: Filii Dei, sono! riferita ai poveri abitanti del villaggio che il vice-cellario rifornisce sottobanco di cibarie.]

Il romanzo di Umberto Eco compie precisamente 45 anni e la sua fama è stata ingigantita dal fiorire di trasposizioni cinematografiche, teatrali, televisive. Oltre che da una serie di Postille, che l’Autore pubblicò pochi anni dopo il romanzo, in cui fornì dettagli sullo stesso titolo, sulle ragioni dell’ambientazione (tardo-, e non alto-) medievale, sulla stagione in cui si dipana la vicenda, dalla quale dipende nientemeno che il luogo in cui si svolge… E poi da chi far narrare la storia (Adso e non… Umberto?) e come corredarla di dettagli, anche apparentemente barbosi, ma utili a far calare il lettore nello scenario altrimenti gratuito cui si riferisce la narrazione.

E tante, ancora tante altre profondissime considerazioni, incluse quelle sulle caratteristiche di thriller del romanzo. Ma un thriller che va ben oltre il classico stereotipo del tipo ma chi sarà il serial-killer? Che infatti c’è e non c’è, e comunque fa lui stesso una pessima fine!

E infine, lo Sherlock Holmes medievale, giustamente arrivato dalla Baskerville Hall di Conan Doyle, e di cui Adso ci sembra impersonare l’aiutante dott. Watson… Ma Guglielmo, essendo Inquisitore del Sacro Romano Impero, si occupa specialmente di reati che hanno a che fare con la Religione, proprio come il suo collega Bernardo Gui, che opera nel campo nemico, ad Avignone. Ed ecco allora che il romanzo si dilunga su (o si arricchisce di?) una copiosa dote di concioni di carattere metafisico, o secolare travestito da tale. Che finiscono quasi con il trasformare il thriller in una disputa tutta politico-religiosa fra le due fazioni principali (Papa e Imperatore) affiancate da ordini monastici (Domenicani e Francescani/Benedettini).

Detto ciò (e molto altro ci sarebbe da dire) la domanda che viene spontanea è: l’opera musicale di Filidei (con la direzione di Metzmacher e la regìa di Michieletto) cosa ci dirà di quella di Eco? Si fermerà (come il film con Sean Connery) al thriller (cioè alla superficie) o saprà spingersi oltre, in realtà un po’ più in alto?

Una prima risposta alla domanda ci è stata fornita dallo stesso Autore, intervenuto giorni fa alla consueta conferenza Prima delle Prime, spalleggiato dal musicologo Gianluigi Mattietti. Ed è una risposta rassicurante, nel senso che Filidei ha dichiarato di aver voluto portare nella sua opera tutti i diversi aspetti del romanzo, pur con le costrizioni che caratterizzano sempre operazioni di questo tipo. Ha suddiviso lo spettacolo in due Atti, con l’intervallo posto poco prima della fine del giorno 3, cioè dopo il romantico-erotico incontro di Adso con la ragazza innominata. Ciascun atto comprende 12 sezioni, rispetto ai 50 capitoli del romanzo, con parecchie simmetrie musicali che Filidei ha cercato di spiegare anche meglio in un’altra illuminante intervista rilasciata al canale youtube di Mario Calabresi.

La figura sottostante (che ho predisposto interpretando liberamente lo schema proposto da Filidei sul programma di sala) schematizza la macro-struttura dell’opera in termini squisitamente musicali: abbiamo le 24 scene, divise nei due atti, supportate dai 12 suoni della scala cromatica, che nella prima parte si muovono a ventaglio, come indicato dalle frecce, dal DO al FA# e nella seconda retrocedono dal FA# al DO, dove però un’ultima, faticosa salita al DO# (Filidei la sottolinea nelle due citate esternazioni, ma non la disegna nello schema pubblicato) sembra voler riaprire il discorso…

Insomma, un costrutto squisitamente… musicale (nel senso scientifico del termine). Staremo a vedere il risultato, se cioè si potrà dire che questa musica di Filidei sappia poetizzare l’intelletto (copyright Thomas Mann su Wagner).

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Il libretto dell’opera ci permette di fare qualche considerazione riguardo l’approccio seguito da Filidei&C nella predisposizione del soggetto. Una di queste, ad esempio, riguarda la gestione delle numerose narrazioni che innervano il testo di Eco: racconti che il narratore (Adso) ci fa di fatti e/o di risposte che lui, o il suo capo Guglielmo, hanno ricevuto da personaggi che si muovono nella vicenda. Come presentare queste situazioni?

È chiaro che sarebbe stato ridicolo replicare questa modalità in modo pedestre: chè allora i personaggi dell’opera si sarebbero ridotti al narratore ed al suo capo, se non addirittura al solo narratore. L’ovvia alternativa è stata di limitare al massimo (se non proprio di togliere di mezzo) gli interventi del narratore e far direttamente parlare (=cantare) i personaggi narrati. Ed infatti la locandina ci presenta 17 interpreti di 20 personaggi. Ecco una tabella che sommariamente ne inquadra le caratteristiche e le voci (i personaggi colorati sono gli ospiti temporanei (come Guglielmo e Adso) del monastero benedettino, arrivati per un incontro di natura diplomatica fra rappresentanti del Papa e dell’Imperatore: in giallo i primi, in verde i secondi):

Filidei ha ignorato alcuni personaggi che popolano la vicenda narrata da Eco: alcuni sono effettivamente poco influenti, come Giovanni Dalbena, membro della delegazione papista (che figura nella locandina web, mentre è rimpiazzato da Alborea nel libretto) ma altri stupisce che non compaiano nel cast: Alinardo da Grottaferrata, vecchissimo monaco, le cui esternazioni sono di determinante aiuto a Guglielmo e Adso in relazione sia ai misfatti che si succedono, che a certi aspetti peculiari della labirintica biblioteca. E poi sono ignorati Aymaro d’Alessandria, che aiuta gli investigatori con informazioni sulla personalità dei reggitori dell’Abbazia; e ancora Nicola da Morimondo, esperto vetraio, Pacifico da Tivoli e Pietro da Sant’Albano, monaci che danno un più o meno forte contributo a definire il quadro complessivo del microcosmo dell’Abbazia.

Ma l’assenza più importante è quella del giovane Bencio da Upsala (che in Eco sarà nominato vicebibliotecario al posto di Berengario) la cui testimonianza è determinante ai fini di chiarire la morte per suicidio di Adelmo da Otranto, la prima delle (sette!) vittime di cui veniamo a conoscenza. Costui è già passato a miglior vita qualche giorno prima dei fatti narrati da Eco, e di lui Adso ci parla attraverso racconti di altri personaggi che ebbero con Adelmo un qualche rapporto, e magari ricordano qualche sua esternazione. Del più drammatico di questi racconti è protagonista Berengario da Arundel, che guarda caso si scoprirà aver avuto una relazione, ehm… equivoca, proprio con Adelmo, con il quale (anzi, con lo spettro del quale) afferma di essere stato protagonista di uno spaventevole incontro faccia a faccia, nel cimitero dell’Abbazia, la notte in cui Adelmo morì.

Ma è un racconto poco convincente per Guglielmo e Adso, che scoprono la verità proprio con il successivo interrogatorio di Bencio, che è stato testimone dell’equivoco rapporto carnale fra Berengario e Adelmo, del rifugiarsi di quest’ultimo nella cella di Jorge per confessarsi e del suo successivo vagare disperato nel cimitero, inseguito da Berengario (e spiato da Venanzio); il che dà a Guglielmo la quasi certezza del suicidio di Adelmo, per l’insostenibile vergogna del peccato commesso.

Orbene, dato che Filidei ha tenuto Bencio fuori dalla storia, come ha risolto lo spinoso problema? Primo: durante il Prologo, mentre Guglielmo e Adso sono ancora in viaggio, ci mostra in un flashback Adelmo che si confessa da Jorge e ne viene cacciato senza misericordia; secondo: ci presenta successivamente il drammatico incontro fra Berengario e Adelmo (guarda caso interpretati dallo stesso cantante) sotto forma di racconto del primo, che però canta anche ciò che racconta il secondo!  


Quanto alle tessiture vocali, la curiosità che si può avanzare qui riguarda i tre ruoli maschili assegnati a voci femminili en-travesti: quasi che Filidei sentisse il bisogno di rompere la monotonia di un’opera che avrebbe – all’origine – soltanto una voce femminile (la ragazza) su 20! A questo fine si potrebbe anche attribuire la scelta di affidare a due controtenori i tre personaggi (Berengario, Adelmo e Malachia) che presentano caratteristiche… LGBTQ+. E poi, come non pensare a Strauss (Octavian-Sophie) a proposito dell’incontro d’amore - fine primo atto, dalla penultima scena del giorno 3 di Eco - di due voci femminili (Adso e Ragazza del villaggio)?
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Come anticipato più sopra, una delle caratteristiche del romanzo consiste nel frequente interrompersi della narrazione dei fatti principali – quelli relativi agli aspetti thrilling della vicenda, che il lettore vorrebbe divorare tutti d’un fiato – per fare spazio a lunghe (a volte lunghissime, e dottissime quanto… ehm, esasperanti) divagazioni – le cosiddette ecfrasi - su oggetti e/o temi che con l’azione hanno legami spesso assai labili, o come minimo assai remoti. Eco ovviamente ha qui modo di sfoggiare la sua enciclopedica cultura, e di arricchire la sua storia - di per sé molto coinvolgente ma anche di un genere piuttosto abusato - con elementi di alto spessore filosofico, religioso (e teologico), psicanalitico (ed erotico), scientifico e ovviamente artistico (come la minuziosa contemplazione del portale della chiesa da parte di Adso o la descrizione della struttura labirintica della biblioteca). Ma persino… culinario, come dimostra la descrizione del lavoro in cucina, con dotte e dettagliate citazioni di carni e verdure (inclusi i peperoni, errore storico rimediato nella riedizione, insieme a quelli relativi al violino e allo scambio di torrione meridionale-orientale dell’Edificio); non manca neppure una rara ricetta del casio in pastelletto!

Nelle sue citate Postille, lo scrittore paragona questo andamento altalenante della narrazione all’avvicendarsi, nel classico melodramma, di recitativi, dove si sviluppa l’azione, e di arie (o altri numeri musicali) dove il tempo si ferma per lasciare spazio a riflessioni di varia natura. E su questa similitudine di Eco il compositore rivela di aver fatto leva nella costruzione della sua opera.

Ebbene, devo dire che la promessa è stata mantenuta solo in parte. Parliamoci chiaro, pensare di riprodurre in musica le dottissime e lunghissime ecfrasi di Eco sarebbe stato quasi impossibile, e allora Filidei per trarsi d’impaccio si è rifugiato in corner nel… gregoriano. Ad esempio, rimpiazzando pagine e pagine di descrizione del portale della Chiesa con qualche verso dell’Apocalisse messo in bocca al coro; o impiegando antifone cantate da Adso e inni dal Salterio che il coro canta alla scoperta del cadavere di Venanzio; o impiegando parti del Cantico dei Cantici per sottolineare l’amplesso fra Adso e la Ragazza innominata.

Sono omesse quasi tutte le lunghe ecfrasi a contenuto rievocativo delle diatribe e degli scontri fra guelfi e ghibellini e fra ordini monastici e papato, con scambi di accuse di eresia e di secolarizzazione; resta, affidato al coro, un accenno alle vicende dei dolciniani; e restano ovviamente gli accesi scambi di vedute che accadono in presa diretta, tipicamente nella grande scena dell’incontro a carattere diplomatico fra le due delegazioni convenute all’Abbazia.

Per il resto l’opera si concentra sugli aspetti più strettamente thrilling del romanzo, relativi alle visite nella labirintica biblioteca e alla decifrazione dei diversi enigmi che porta progressivamente Guglielmo e Adso ad avvicinarsi alla definitiva scoperta della verità.

Un’ultima curiosità: nella conclusione, Filidei ha inventato un… ritorno di fiamma in Adso che, tornato ormai vegliardo all’Abbazia diroccata, rivede la statua della Madonna e torna con il pensiero alla ragazza innominata… [Siamo o no nel melodramma?]    

Qui una sommaria elencazione delle principali divergenze fra il testo di Eco e il libretto di Filidei. 

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Scenografia e rispetto delle indicazioni di Eco. Sarà interessante osservare se e quanto delle minuziose indicazioni di Eco sono state osservate (o mutate) da regista/scenografo.

Ad esempio, ecco come Eco immagina il labirintico piano-biblioteca (secondo) dell’Edificio, la costruzione che ospita anche: scriptorium (primo) e cucine/refettorio (terra). La planimetria sottostante rappresenta il luogo del (pen)ultimo atto della storia: la sala eptagonale della biblioteca, detta Finis Africae, in cui si è barricato – protetto da una porta-specchio che ne dissimula uno dei due ingressi (l'altro, ancor più segreto, è raggiungibile salendo direttamente dall'ossario, sotto il piano terra) - l’autore morale (in un solo caso, l’ultimo, anche materiale) delle sei morti succedutesi nei sei giorni precedenti, cui si aggiungerà la sua (auto-avvelenamento, completato dalle fiamme) in quelle primissime ore del settimo giorno, dove si compirà il destino di distruzione dell’intero monastero. 

Certo, in teatro sarà difficile riprodurre fedelmente quel labirinto, suddiviso in 11 sezioni fra loro imbricate: ANGLIA, GERMANI, GALLIA, HIBERNIA, ROMA, YSPANIA; LEONES, AEGYPTUS, IUDAEA, FONS ADAE e ACAIA. Dalle poche immagini pubblicate (dove il labirinto è semitrasparente e… si muove ruotando su se stesso) è anche difficile immaginare l’efficacia della scenografia: ci penseranno Michieletto e Fantin a risolvere da par loro il problema.

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Per finire, ecco invece uno schematico elenco delle sette morti, con relative cause:


Il problema da risolvere per autore e regista risiede nel fatto che, nel romanzo, le vicende relative a queste morti si imbricano fra loro (proprio come le sezioni del labirinto della biblioteca) ed è già complicato seguirle a dovere leggendo il romanzo. Abbiamo già visto come sia stato complicata e non del tutto convincente la soluzione del caso Adelmo-Berengario. Vedremo come Filidei-Michieletto sapranno toglierci queste castagne dal fuoco.
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Commenti dal vivo dopo la prima di domenica 27 aprile (che sarà anche trasmessa in diretta da Radio3).