Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

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21 novembre, 2025

SantAmbrogio si avvicina.

A Milano fervono le iniziative di divulgazione della prima del 7 dicembre, con incontri, conferenze e articoli di stampa.

Il 19 scorso Franco Pulcini e Riccardo Chailly hanno amabilmente discettato sulla Lady nel consueto appuntamento degli Amici della Scala, esaltando l’opera di Shostakovich come il più gran capolavoro di teatro musicale del novecento. Il Direttore musicale ha – come sempre – sottolineato alcuni particolari della partitura, come le controverse indicazioni metronomiche, a volte falsate proprio dal… metronomo (piuttosto scalcinato) di cui disponeva il compositore; oppure i richiami a Mahler (Lied von der Erde, Abschied) nell’aria del lago nero di Katerina; o l’inaspettata presenza – data la nota idiosincrasia del compositore riguardo la musica seriale – di una serie dodecafonica in piena regola! Sono state anche mostrate due esecuzioni di brani di Shostakovich dirette da Chailly: il Quarto Interludio dell’opera (l'indiavolata corsa dell’ubriacone verso la stazione di polizia, con la batteria di 28 ottoni!) e il secondo walzer della Jazz Suite 2 (oggi impiegato come sigla del talk di Augias La torre di Babele).

Fra pochi giorni il Teatro No’hma della benemerita Teresa Pomodoro ospiterà l’ormai tradizionale presentazione dell’opera, curata come sempre dal simpatico e raffinato Stefano Jacini.

L’iniziativa La prima diffusa propone la visione cinematografica del 7 dicembre in diverse sale della città, oltre ad una nutrita serie di incontri di presentazione dell’opera.

Sul fronte dei contenuti di divulgazione di alto livello segnalo questa fulminante presentazione di Max Vono, storico forumista del (purtroppo) defunto blog La voce del loggione, che sviscera tutti i segreti musicali del capolavoro di Shostakovich, mettendoli poi in relazione con i suoi successivi lavori strumentali, e sottolinea l’assoluta attualità del soggetto, il cui suono (cit) è ancora il suono del nostro caos.  


08 novembre, 2025

Sulla Scala incombe una Lady sovietica.

Siamo in guerra con la Russia, parliamoci chiaro (sennò come si spiegherebbe la montagna di quattrini da spendere in armi contro Putin, invece che per risanare la… Sanità?) e quindi ogni minima attività che possa inquadrarsi come propaganda filo-putiniana deve essere bandita e combattuta senza se e senza ma, come doverosamente han fatto i patrioti veronesi, sventando tempestivamente potenziali cabalette eversive del pericoloso Ildar Abdrazakov.

Ma con la… Lady che si fa? La locandina è piena di nomi di artisti russi (o affini…) a partire dal regista, quindi domanda: sono stati tutti accuratamente passati ai raggi X, prima che ce li ritroviamo in casa come quinte colonne del nemico?

Ma soprattutto: come la mettiamo con Shostakovich? Eh, qui le cose si complicano, perché ci sono due correnti di pensiero che fanno del compositore due ritratti opposti: la prima è garantista, e si appoggia essenzialmente sulle memorie di Shostakovich pubblicate nel 1979 da Solomon Volkov in un libro dal titolo Testimony, dal quale emerge la figura di un convinto anti-stalinista, che non perdeva occasione per esprimere in musica, magari cripticamente, critiche radicali contro il regime. L’altra corrente è colpevolista, ricordando come il compositore ebbe rapporti personali con Stalin ed accettò dal baffuto dittatore persino l’incarico prestigioso (altro che Scala…) di Ambasciatore dell’URSS alla Conferenza internazionale della Pace, tenutasi a New York nel 1949. 

Insomma, qui il CoPaSiR avrebbe materiale a josa per intervenire sulla scelta (avventata?) del Teatro di proporre l’opera di un personaggio così sospetto. E la DIGOS farebbe bene a tener d’occhio qualche sconsiderato, o pericoloso agitatore, che potrebbe uscirsene il 7 dicembre, davanti ad un esterrefatto Mattarella, urlando Viva la Russia anticapitalista!

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Bene, esaurita la politica, passiamo alle notizie serie.

Oggi pomeriggio, nel ridotto Toscanini del Teatro, si è tenuta un’interessante conferenza, moderata da Raffale Mellace, dove sono state esaminate alcune peculiari problematiche in vario modo legate all’opera.

Lo scrittore Paolo Nori (librettista della recente Anna.A di Sivia Colasanti), profondo conoscitore della letteratura russa, si è soffermato sulla personalità, sullo stile e sull’approccio estetico di Nikolai Leskov, lo scrittore che ispirò a Shostakovich (e al suo librettista Alexander Preis) il soggetto dell’opera.

Successivamente Franco Pulcini, super-esperto in materia… Rus, si è occupato in dettaglio del soggetto della Lady, esplorandone le principali sfaccettature e implicazioni, in particolare quelle legate alla figura della protagonista e ai suoi problemi esistenziali.       

Anna Giust, autorevole conoscitrice del mondo russo e in particolare di quello musicale, si è focalizzata sulle controverse vicende dell’opera, accolta entusiasticamente dal pubblico e poi stroncata (da Stalin in persona?) come sovversiva, e in generale sui rapporti fra arte e censura sotto il regime sovietico.

A conclusione dell’evento, Riccardo Chailly ha conversato con Raffaele Mellace, esplorando i tratti fondamentali di questo che lui considera uno dei massimi capolavori di tutti i tempi.  

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Anche se il taglio degli interventi è stato forse un po’ troppo, diciamo, specialistico, mi sento comunque di suggerirne la visione (il video dovrebbe arrivare su youtube), e nel frattempo mi faccio anch’io un po’ di pubblicità.

06 novembre, 2025

Gran ritorno alla Scala della terz’ultima di Mozart.

Così fan tutte è tornata alla Scala dopo 11 anni di assenza (2014, Guth-Barenboim) affidata alle cure della coppia Carsen-Soddy.

In Largo Antonio Ghiringhelli un gruppo di sindacalisti del CUB distribuisce e legge il testo di un volantino in cui si richiama l’attenzione del pubblico su alcuni problemi di carattere organizzativo e gestionale che sono oggetto di rivendicazioni delle maestranze cui la Direzione del Teatro non avrebbe ancora dato risposta. Si tratta di criticità relative agli organici e alle professionalità, al ricorso sempre più frequente agli appalti e all’attenzione alle problematiche di sicurezza negli ambienti di lavoro (Teatro e Laboratori Ansaldo). L’obiettivo dichiarato è di conservare al Teatro la prerogativa di luogo d’arte, evitando che diventi solo fabbrica di spettacoli.

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L’interesse principale di questa nuova produzione risiedeva nella messinscena di Robert Carsen e del suo team (Luis Carvalho per scene e costumi, Peter vanPraet per le luci, Renaud Rubiano per i video e Rebecca Howell per le coreografie). E già faceva discutere la decisione del regista di ambientare la vicenda in uno scenario tipico dei moderni reality televisivi. Il che ha provocato (prevedibili?) isolate contestazioni alla fine dello spettacolo. Personalmente le ritengo abbastanza pretestuose e probabilmente frutto di pregiudizi e non di seria e oggettiva valutazione.

Ripropongo qui alcune mie personali elucubrazioni sul soggetto di DaPonte che mi portano a riconoscere a Carsen l’intelligenza del suo approccio. In sintesi, l’abilità e il merito del regista stanno nell’aver evitato di far aderire a tutti i costi il testo originale al suo personale Konzept, ma di aver utilizzato con parsimonia ed efficacia alcuni aspetti (soprattutto esteriori) dell’ambiente reality per dare valore aggiunto alla sua proposta.

È fuor di dubbio che esistano sostanziali differenze fra i due scenari, in primo luogo riguardanti la posizione dei quattro personaggi che costituiscono le due coppie: in un reality essi, come ogni altro partecipante alla kermesse, sono perfettamente coscienti di ciò che li aspetta (hanno fatto richiesta di partecipare, sostenuto esami di idoneità e ricevuto in anticipo tutte le regole e raccomandazioni del caso); viceversa nel soggetto dapontiano i protagonisti si trovano, loro malgrado e involontariamente coinvolti in un’avventura per affrontare la quale non sono minimamente preparati.

Ecco, Carsen rispetta in pieno (anche in dettagli minimi) il soggetto dapontiano, arricchendolo però di verve, vivacità e… modernità. Alcuni esempi: la scena della partenza verso il campo, con l’esagerata portaerei che lentamente si allontana e il picchetto d’onore dei militari (maschi e femmine!) che salutano le nuove reclute; quella del finto avvelenamento, dove i due albanesi tracannano il veleno direttamente dalle taniche del cloro disinfettante della piscina, e dove Despina li guarisce con strumenti di moderna telemedicina; i due dormitori, femminile e maschile, dove prendono vita i pistolotti di Despina alle ragazze (del reality, quindi a tutte le ragazze che lo guardano in TV) o quello di Guglielmo ai maschi, con l’esibizione di riviste erotiche; le coreografie che accompagnano la scena del finto matrimonio, …

Dal punto di vista tecnico, l’ormai imprescindibile impiego della piattaforma rotante (qui divisa in tre spicchi di 120°) rende possibili i frequenti mutamenti di scena; per gli ambienti esterni (imbarco, piscina, terrazza sul mare per gli incontri romantici, giardino per il matrimonio) uno schermo occupa l’intera parete di fondo, dove sono proiettate immagini fisse o mobili. I costumi sono ovviamente moderni, colorati, eleganti; non mancano smartphone e microfoni portatili, schermi che diffondono ciò che avviene in scena…

Insomma, tutte trovate intelligenti e mai volgari che rimuovono gli aspetti un po’ claustrofobici del soggetto originale, tutto concentrato sui soli sei personaggi in scena.

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Notizie eccellenti dal fronte dei suoni. Alexander Soddy ha perfettamente coadiuvato l’impostazione registica con una direzione scoppiettante, senza mai un attimo di respiro, ma supportando al meglio anche i pochi squarci lirici (le accorate esternazioni di Firdiligi e Ferrando) grazie all’Orchestra che ha mostrato come sempre grande compattezza, ma anche le sue risorse solistiche (corno in primo luogo).

Il coro diretto per l’occasione da Giorgio Martano ha fatto egregiamente la sua (peraltro non massacrante) parte.

I sei interpreti tutti all’altezza del compito. A partire dalla Elsa Dreisig, una Fiordiligi dalla voce penetrante in tutta la gamma (perfettamente udibile anche sulle note gravi). Grande maestria nel rendere la complessa personalità della donna, piena di sensi di colpa e combattuta da dubbi esistenziali fino all’ultimo. Punte di diamante della sua interpretazione l’aria Come scoglio immoto resta e il Rondò Per pieta, ben mio, perdona.

Nina van Essen ha sfoggiato la sua brunita voce mezzosopranile per valorizzare al meglio il ruolo della più disinibita Dorabella. Da incorniciare le sue due arie: quella truculenta (Smanie implacabili) e quella ammiccante (È amore un ladroncello).

Sandrine Piau è una perfetta Despina, voce squillante, proprio maliziosa e sbarazzina, si direbbe, esaltata dalle due arie, la prima con la negazione della fedeltà (In uomini, in soldati) e la seconda, con la disinibita lezione alle ragazze (Una donna a quindici anni).

Il poliedrico e versatile Luca Micheletti impersona Guglielmo, mettendo al suo servizio una voce sempre ben impostata, convincente nelle sue avances amorose (Non siate ritrosi, occhietti vezzosi) come nella tutto sommato bonaria e fatalistica invettiva contro le donne (Donne mie, la fate a tanti).

Il complessato Ferrando è efficacemente interpretato da Giovanni Sala, che sfoggia voce robusta e suadente, come nella sua aria Un’aura amorosa del nostro tesoro.

Su tutti i maschi il DonAlfonso di Gerald Finley: splendida voce baritonale e gran presenza scenica, come si addice al personaggio-chiave di tutta la vicenda.

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Al termine applausi a non finire per tutti, con punte per Dreisig e Finley. Fuori luogo davvero i buh per Carsen. Che non tolgono a questa produzione – a mio modesto avviso – il grande merito di aver chiuso davvero in bellezza la stagione 24-25.

Questa sera, RAI5 alle 21:15 diffonde la registrazione di ieri; che resta poi per 15 giorni disponibile su RAI Play. Chi può non se la perda!


18 ottobre, 2025

Il Donizetti bonapartista alla Scala.

Eccomi a commentare l’arrivo al Piermarini - piacevolmente affollato e ben disposto - della produzione (originaria di Londra, 2007) de La Fille du Régiment di Gaetano DonizettiPrima dell’inizio ecco l’annuncio di un raffreddore che – per fortuna? – non ha impedito a Florez di scendere in campo, evitando quindi una nuova falsa partenza, dopo quella di Korchak in Rigoletto.

Della messinscena si conosceva praticamente tutto, grazie alle registrazioni accessibili in rete (Vienna, MET, …) e qui Christian Räth (che riprende il lavoro di Pelly) non si è permesso di mutare alcunchè, dimostrando quindi ancora una volta che le regìe creative ma anche intelligenti non hanno età, e si possono apprezzare anche quando si conoscono a menadito.

Quanto al contenuto, la produzione mantiene largamente i dialoghi di Agathe Mélinand, già impiegati a Vienna e altrove, con piccoli tagli e varianti per le due entrate della Duchessa. 

E in effetti a livello di regìa l’unica curiosità di questa ripresa milanese riguardava proprio l’impiego dell’interprete della Duchessa di Crakentorp, tradizionalmente (non solo da Pelly) affidata a personaggi famosi in assoluto, o almeno nel luogo della rappresentazione. Nelle sue peregrinazioni, l’opera ha ospitato in quel ruolo celebri attrici e più o meno celebri cantanti, con interventi abbastanza fuori dal contesto. Senza dubbio la scelta più azzeccata è stata quella di Pelly a Vienna (2007) dove Montserrat Caballè si esibì anche interpretando una canzonetta svizzera ('g Schätzli): cosa per nulla gratuita, ma pienamente compatibile con il soggetto dell’opera, dove la Marchesa confessa di aver convissuto con Robert a Ginevra.    

Qui devo personalmente deplorare le modalità della partecipazione della nostra amata Barbara Frittoli: che si è limitata ai quattro versi da recitare, più un paio di moine e un urlaccio… Per poi uscire per gli applausi finali mescolata agli altri interpreti minori. Davvero inspiegabile averla relegata a comparsa: si può capire che lei non abbia più l’età per cantare Marie… ma perché ha accettato di esporsi a questa patetica figura?

Bene, dato quindi a Räth ciò che è di Räth Pelly, passo subito agli addetti ai suoni donizettiani. 

Evelino Pidò (72 anni…) ha alle spalle abbastanza navigazioni per saper tenere ferma la barra del timone di questa barca perennemente ricoverata in darsena per operazioni di maquillage, prima di ogni uscita verso nuove crociere. [I curiosi possono apprezzare le cospicue differenze fra il testo proposto qui nel 2007 e quello odierno.] L’Orchestra scaligera gli ha dato una grossa mano, mettendo in luce i multiformi pregi della partitura: slanci marziali o amorosi, rudezze, meschinità, ipocrisie e… comicità.  

Julie Fuchs e il menomato Juan Diego Florez non hanno tradito le attese (conservo un bel ricordo di loro in un Comte Ory al ROF del 2022) e anche ieri hanno monopolizzato l’attenzione (e gli applausi) del pubblico. Da incorniciare il lungo duetto al loro primo incontro (Depuis l’instant).

Lei si è calata benissimo nella parte di questa maschiaccia ribelle, a disagio negli abiti che la nobiltà le vorrebbe imporre, ma capace di sinceri sentimenti e, alla fine, gratificata dall’unione con il plebeo tirolese che le aveva salvato la vita. Voce ben impostata in tutta la gamma, leggero vibrato negli acuti e agilità negli abbellimenti (colorature, arpeggi e picchiettati spesso volutamente parodistici, fino alle proditorie stonature nella canzone di Venere). Efficace già alla prima entrata (Au bruit de la guerre) con il successivo duetto con Sulpice. E poi nel trascinante Il est là, Il est là, Il est là, morbeu! Ma anche patetica e dolente nella sua romance al termine del primo atto (Il faut partir). Simpatica e sfottente nel trio (Les amours de Cypris) con Sulpice e sua madre all’inizio del second’atto e poi perfetta nel passare nella successiva aria dal dimesso Par le rang et par l’opulence al trionfante Salut à la France! chiuso da un folgorante MIb. E infine emozionante (Quand le destin, au milieu de la guerre) nell’omaggio al benemerito Reggimento.

L’attuale Direttore Artistico del ROF cerca con mestiere di sfidare il tempo: sarà stato anche il raffreddore, ma la sua voce non ha più lo smalto e la brillantezza dei bei tempi, così i 9 (8 scritti +1 di tradizione) DO acuti del primo atto (Pour mon âme) non sono proprio risuonati come saette nel cielo del Piermarini. E l’ugualmente spurio DO# della Romance del secondo (S’il me fallait) è rimasto direttamente sulla carta, sostituito dal regolamentare LA.

[A proposito di cantiere aperto (riferito a libretto e partitura): di quest’ultima romanza di Tonio, che inizia con Pour me rapprocher de Marie, esistono due versioni, una (presumibilmente l’originale) in SIb, e l’altra (di tradizione) in LA maggiore, tonalità che consente al tenore di esibire il (non scritto) sovracuto sulla mediante DO#. Le due versioni differiscono anche per poche battute finali (quella in LA è accorciata di 7), ma c’è stato qualcuno (qui il franco-congolese Patrick Kabongo, lo scorso aprile, a 1h52’39”) che ha cantato la versione in SIb, il che gli ha consentito di sciorinare un RE naturale sovracuto da record…]

Certo, in scena non c’erano solo i due protagonisti, e quindi va elogiato senza riserve il Sulpice di Pietro Spagnoli, voce e portamento proprio da caricatura di autorevole sergente di ferro. Oltre che nel trio con Marie e Marchesa, si è anche distinto nell’indiavolato terzetto con i due protagonisti (Tous les trois réunis) che precede il finale.

Lo stesso dicasi per Géraldine Chauvet, che ha dato al personaggio della peccatrice Marchesa di Berkenfield il giusto risalto. Già a partire dal suo ingresso (Pour une femme de mon nom) con gli equivoci riferimenti all’intraprendenza dei militari francesi.

Sempre all’altezza il Coro di Malazzi. Gli altri interpreti han fatto correttamente il loro dovere come da contratto.

Alla fine una decina di minuti di applausi per tutti: i tre protagonisti in testa, ma anche Pidò e la coppia che ha ripreso Pelly.


14 ottobre, 2025

Gli esportatori di democrazia tornano alla Scala.

Per la quinta volta dal dopoguerra torna alla Scala La Fille du Régiment di Gaetano Donizetti, di cui oggi viene proposto (ripreso da Christian Räthl’allestimento - universalmente apprezzato - di Laurent Pelly (ROH, gennaio 2007, poi portato in giro per il mondo). 

Opera nata nella Parigi del 1840, ancora in piena diatriba transalpina riguardo al rimpatrio da SantElena dei resti (ma c’era chi sospettava che fosse tutto un fake…) di Napoleone. Soggetto che sembrava fatto apposta per tener vivi gli scontri ormai decennali fra le curve rivoluzione-restaurazione.

Opera dal soggetto, neanche tanto scopertamente, filo-napoleonico:

- il 21° reggimento di Bonaparte che occupa il Tirolo governato dalla restaurazione;

- una nobildonna, esponente della restaurazione, che si innamora ed ha una figlia (Marie, fatta passare per sua nipote, onde evitare scandali) da un militare del reggimento francese (Robert);
- Marie che, caduto il padre, è accolta come mascotte dal reggimento e poi salvata da un mortale incidente quasi per caso da Tonio (che è un fiero oppositore dei connazionali restauratori) del quale si innamora;
- la madre di Marie che organizza per lei un matrimonio di interesse per proteggere il suo patrimonio;
- il 21° reggimento che rende giustizia a tutti, imponendo il lieto fine di sapore bonapartista: alla malora la restaurazione, sugli scudi la coppia vivandiera-soldatino.

Insomma, un soggetto solo apparentemente leggero, in realtà assai impegnato (così almeno dovette apparire nel 1840 ai francesi…) al di là dell’approccio comique dell’opera. Il quale però ne ha sicuramente favorito la planetaria diffusione, spesso accompagnata da manomissioni (ma non sempre in peggio…) per adattarla alle diverse piazze e interpreti.

E quanto agli interpreti di questo 2025, già ne conosciamo almeno quattro, emersi da almeno tre produzioni della Scala e della Staatsoper a partire dal 2007. In quell’anno, a febbraio-marzo, il Piermarini ospitò l’opera per l’ultima volta, con la fortunata regìa di Filippo Crivelli (scene e costumi di Zeffirelli) e un Florez scatenato, sotto la direzione di Abel. Proprio Abel diresse due mesi dopo l’esordio della citata messinscena di Pelly a Vienna, sempre con Florez (e la Dessay). Produzione ripresa colà nel 2016, senza Florez ma con la Julie Fuchs diretta da Evelino Pi, con il quale torna in questa ripresa scaligera.

Sapendo quindi tutto dei quattro principali interpreti della messinscena, non ci resta che una curiosità. All’inizio del second’atto compare la Duchessa di Crakentorp, personaggio che dovrebbe essere (come il Notaio) solo recitante, in omaggio al genere Singspiel (detto alla tedesca) dell’opera. Per tradizione lo si fa interpretare – noblesse oblige - ad un noto rappresentante del bel mondo, non necessariamente del teatro musicale.

Ad esempio, nell’ultimo allestimento scaligero del 2007 il privilegio toccò nientemeno che alla somma Anna Proclemer. Nella citata produzione viennese del 2007 Pelly invitò una grande beniamina del pubblico, Monserrat Caballè, alla quale ovviamente fece anche cantare una simpatico walzerino svizzero, 'g Schätzli.

Poi, nel 2016, fu invitata un’altra famosa cantante viennese, Ildikó Raimondi, nota interprete di Johann Strauss, che (a partire da 1h23’08” del citato video) fa il suo ingresso in scena, manda uno spartito al Direttore e canta (1h25’26”) un adattamento di By Strauss di Ella FirzgeraldAncora, nel 2019 al MET, l’ospite fu l’attrice Kathleen Turner.

Così, anche per questa speciale occasione l’invito ha riguardato una cantante che per anni ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo, Scala ovviamente inclusa: Barbara Frittoli. Vedremo quale sorpresa ci riserverà…


08 ottobre, 2025

Rigoletto è ricomparso alla Scala.

Dopo poco più di tre anni dall’esordio, è tornato alla Scala il Rigoletto di Mario Martone. Chissà se questa abbastanza sollecita ripresa preluda ad un autentico ciclo, come quello della produzione di Gilbert Deflo, che qui monopolizzò l’ambito titolo per ben undici stagioni (dal ’94 al ’19).

Francamente non me lo augurerei, chè la messinscena di Martone non mi entusiasmò per nulla, per ragioni elencate in un mio fugace e non proprio entusiastico commento… ragioni che non posso che ribadire, prima delle quali l’eccessiva sovraesposizione politico-sociologica del soggetto. E anche ieri sera il povero Marco Monzini (che riprendeva il lavoro di Martone) ne ha fatto ampiamente le spese.

Cambiano rispetto al ’22 la guida sul podio (Marco Armiliato al posto di Gamba) e tre dei co-protagonisti: il Duca (Pretti > Dmitry Korchak), Gilda (Sierra > Regula Mühlemann) e Maddalena (Viotti > Martina Belli); mentre restano al loro posto Rigoletto (Amartuvshin Enkhbat), Sparafucile (Luca Buratto), Monterone (Fabrizio Beggi) e Giovanna (Carlotta Vichi).  

Poi un immancabile contrattempo della vigilia è arrivato a cambiare una carta in tavola: il personaggio del Duca viene interpretato (come minimo alla prima) dal mexico-statunitense Galeano Salas, che rimpiazza l’influenzato Korchak (che pare seguire le orme di Sinner, visto che è al suo secondo forfait dopo quello agostano alla chiusura del ROF). Salas tutto sommato non ha per nulla demeritato, tenuto conto del breve preavviso: voce chiara e ben impostata, acuti solidi e bella presenza in scena.

Di Amartuvshin Enkhbat si conosceva tutto, e tutto è stato confermato: in basso e al centro della tessitura sfoggia una solida voce baritonale, che però nella zona alta perde di smalto e si trasforma in cavernosa voce di basso… Ottima invece la presenza scenica, a dispetto della mancanza di… gobba (!)

Benissimo la Regula Mühlemann, una Gilda convincente in ogni senso: e soprattutto nella voce, perfettamente calzante al personaggio, sottile, duttile e dalla grande espressività.

Perfetto il Monterone di Fabrizio Beggi, purtroppo malamente caricaturato da Martone.

Bene anche Luca Buratto nella parte non impervia di Sparafucile.

Martina Belli ha messo al servizio di Maddalena una voce corposa e un… ehm, fisico davvero all’altezza del ruolo!

Carlotta Vichi è una buona Giovanna, che ha fatto ciò che si attende da quel ruolo, così come gli altri sei interpreti minori.

Il coro di Malazzi non è qui impegnato allo spasimo, ma quel poco (inizio second’atto) lo fa alla perfezione.

Che dire di Marco Armiliato? Tanto onesto mestiere, bandismo a josa, ma tutto sommato buona gestione del palco; orchestra senza sbavature né pecche di sorta, come ci si aspetta in questi casi.

Alla fine, 4-5 minuti di applausi per tutti e buh a profusione per l’allestimento. 


28 settembre, 2025

Anna A. di Silvia Colasanti alla Scala: una testimonianza di attualità.

Questa mattina alle 11 è andata in scena in anteprima, in un Piermarini discretamente affollato, la nuova opera di Silvia Colasanti (commissionatale dal Teatro) omaggio alla scrittrice e poetessa russa (ma nata in Ukraina) Anna Andreïevna Gorenko (autochiamatasi Achmatova, dal nome di suoi pretesi avi tatari) la cui vita attraversò, nel secolo scorso, l’intero percorso storico compiuto dal suo Paese a partire dagli ultimi anni dello zarismo, poi dalla Grande Guerra e fino alla cosiddetta de-stalinizzazione e all’arrivo al potere in URSS di Leonid Brezhnev 

Pietroburghese di famiglia agiata, nata nel 1889 in una località balneare ucraina (Bolshoi Fontan) a sud di Odessa, ancora sotto lo Zar potè viaggiare in Europa (anche in Italia e a Parigi, dove incontrò ed ebbe una relazione con Modigliani) e poi passò, come molti altri ucraini famosi (Prokofief, ad esempio) gran parte della sua vita nella Russia sovietica, divenendo anche membro dell’Unione degli scrittori russi. Visse così gli anni bui dello stalinismo, contro il quale prese posizione attraverso le sue opere letterarie, che le attirarono perciò la fastidiosa attenzione delle autorità.

Durante la WWII supportò la resistenza ai nazi della sua Leningrado con sue poesie patriottiche, trasmesse dagli altoparlanti nelle vie della città, come accadde anche alla Settima Sinfonia di Shostakovich. Città dove, peraltro, suo figlio Lev Gumilëv era stato incarcerato come sovversivo, prima di finire in un Gulag. Messa al bando dal regime, a Stalin defunto ottenne una tardiva riabilitazione e fu anche candidata per due anni al Premio Nobel, poco prima di morire, nel 1966, in un sanatorio nei pressi di Mosca.

Qui una fulminante presentazione della figura di Anna, opera del grande Alessandro Barbero.

E qui la presentazione del lavoro di Colasanti, condotta a due voci dall’autrice in coppia con l’impareggiabile Fabio Sartorelli.

Un soggetto, quindi, di grande attualità (rapporto fra arte/artista e potere dispotico, ruolo della donna nella società) ideato praticamente in coincidenza con l’invasione russa dell’Ukraina.

Soggetto – liberamente ispirato alle opere letterarie e alle vicende esistenziali della Achmatova - messo in parole dall’esperto di letteratura russa Paolo Nori (affiancato da Fabrizio Sinisi) e in scena da Giulia Giammona (con scenografia di Lisa Behensky, costumi di Giada Masi, luci di Andrea Giretti, video di Martin Mallon e coreografia di Andrea Bareggi). L’Orchestra è quella degli Accademici scaligeri, diretti per le prime quattro delle nove recite da Anna Skryleva, cui subentreranno Paolo Spadaro e Bruno Nicoli. Il Coro femminile, parimenti accademico, è affidato a Dario Grandini.

L’opera (un atto unico di circa 60’ di durata) ripercorre le vicende di Anna partendo dai suoi ultimi giorni in ospedale, poi retrocedendo nel tempo (1966 > 1938 > 1911) e quindi tornando al 1966 (con tappe al 1915 > 1921 > 1933 > 1934 > 1935> 1941 > 1940). In scena sono sempre l’ultima Anna e l’amica Lidia (di 17 anni più giovane) interpretate da due attrici che recitano la prosa dei loro interventi su un sottofondo musicale discreto e normalmente assai lento e monotòno; le due sono raggiunte di volta in volta dai personaggi che animano i nove flash-back ambientati nel citato percorso nel passato, personaggi che cantano normalmente, con appropriato accompagnamento strumentale: la Anna più giovane (Anna-del-Passato) e dieci personaggi storicamente vissuti, più il personaggio allegorico del Potere, il coro delle Madri di Leningrado e un personaggio che semplicemente aleggia, il figlio di Anna, Lev, invano atteso dalla madre che morirà senza poterlo rivedere.  

La musica di Colasanti è tendenzialmente diatonica, con poche escursioni dissonanti per sottolineare le scene più crude della vicenda. L’Orchestra – 27 elementi - è sistemata ben più in alto rispetto al piano della buca; una fisarmonica serve a impreziosire alcuni passaggi tipicamente russi della partitura. Da ricordare il ruolo del Glockenspiel ad evocare il mellifluo quanto ipocrita ammiccare del personaggio del Potere, nella sua aria propagandistica.

La scena occupa sostanzialmente il proscenio, con una struttura prismatica a due piani all’interno della quale si muovono gli interpreti, in quattro ambienti contigui. Anna e Lidia si sistemano di norma ai lati della struttura, salvo entrarvi quando l’azione lo rende necessario. Sullo sfondo un grande schermo reca indicazioni delle diverse tappe della vicenda o filmati e fotografie (dell’epoca, o ritraenti gli interpreti) a supporto del fluire degli avvenimenti.

I costumi sono fedeli all’epoca storica in cui è ambientato il soggetto. Evocativo dell’attualità che viviamo oggi l’abbigliamento delle tre Anne: lunghe vesti di colore blu e scialli o sciarpe di colore giallo. In scena compaiono anche due bambini, che impersonano Lev e Anna da piccoli.


Le due voci recitanti protagoniste (Anna e Lidia) sono quelle eccellenti di Elena Ghiaurov e Carlotta Viscovo, mentre tutte quelle cantanti meritano di essere accomunate in un collettivo elogio, proprio come ha fatto il pubblico, che alla fine ha tributato lunghe ovazioni ed applausi a tutti indistintamente gli artefici di questa impresa: gli Autori, gli interpreti e gli addetti a questa produzione che davvero onora il Teatro.  
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Appendice. Il soggetto dell’opera.

1966 Sanatorio di Domoedovo. Lidia assiste Anna, ormai in fin di vita. Affiorano ricordi.

1938 Carcere Le Croci di LeningradoAnna ricorda gli anni del terrore e le notti passate davanti al carcere dove era imprigionato il figlio Lev. Appaiono Le Madri dei carcerati e la Anna-del-Passato, che rievocano quei momenti, quando stavano per ore in fila sperando di poter parlare ai loro cari imprigionati. Ora Anna spera che il figlio venga a trovarla, ma lui non arriva. Ricorda, quasi in sogno, il marito Nikolaj Gumilev che torna dall’Africa, nel 1911.

1911 Pietroburgo. Gumilev è tornato dall’Africa e incita la moglie a scrivere un libro. Si profila ormai all’orizzonte la Grande Guerra, e Anna ne è impaurita, Nicolaj deve andare al fronte, ma lei allo stesso tempo è inebriata dall’amore.

1915 Pietroburgo. Anna-del-Passato legge una sua poesia (Dammi molti anni di malattiain cui si dice pronta a rinunciare a tutto, purchè sulla Russia torni a splendere il sole. Il marito le mette fretta, devono andare ad una festa. Mentre scoppia la guerra? Sì, dobbiamo ballare, fosse anche l’ultimo ballo… A casa di Zinaida Gippius c’è il fiore degli intellettuali scomodi (Pasternak fra loro). Gran festa, ma compare la figura del Potere…  Anna ricorda il marito, andato in guerra per la Patria e poi, dopo la rivoluzione, fucilato dalla Patria. Perché, se poi fu riabilitato? Per niente. Lidia però le ricorda quando lei imparava a memoria le poesie di Anna, bruciandone poi i fogli, per evitare guai con la polizia. Ma così le poesie erano potute arrivare, tramite la sua memoria, anche nei Gulag. La poetessa Marina Cvetaeva ricorda i suoi scontri con i critici asserviti al regime e la sua fuga all’estero, simile a quella di tanti artisti (Rachmaninov, Stravinski, Nabokov, Prokofiev) di cui però si era pentita, tornando in Russia [come Prokofiev, ndr] sia pure per morirvi.

1921 Pietroburgo. Anna-del-Passato ha un commovente incontro con il poeta Mandel’štam. Anna ricorda lui e gli altri, compreso Pasternak e il suo Dottor Zivago.

1933 Pietroburgo, casa di Anna. Mandel’štam recita versi di Chlebnikov, che irridono il potere; Pasternak dissente, e allora Mandel’štam declama una sua ode a Stalin, piena di sarcasmo, al punto che Anna-del-Passato tura le orecchie al figlio Lev! Nuova apparizione del Potere! Anna e Lidia ricordano le tristi vicende di loro mariti, parenti e amici, messi a morte dal potere e magari poi riabilitati. Perché? Per niente!

1934 Mosca, casa di Pasternak. Suona il telefono: è Stalin! Che gli imputa l’amicizia con Mandel’štam, arrestato come sovversivo. Pasternak si schermisce e Stalin gli mostra tutto il suo disprezzo. Anna ricorda di aver scritto a Stalin per implorare la liberazione del figlio Lev e del marito Punin, imprigionati dal regime.

1935 Mosca. Anna-del-Passato chiede aiuto a Bulgakov perché interceda presso Stalin, consegnandogli la lettera. Bulgakov la avverte che Stalin sa tutto, legge tutto, anche i pensieri della gente! Anna-del-Passato e Anna (che intercala) leggono la supplica a Stalin. Supplica che Stalin esaudirà! Anna ora chiede se il figlio Lev è per caso arrivato. Arriva invece Marina Cvetaeva, che recita i versi di Anna (Dammi molti anni di malattia) scritti nel 1915. Ecco, la Russia si salvò, ma adesso ti hanno preso figlio e amico: ciò che si scrive in poesia, poi si avvera! Si presenta anche Mandel’štam, che recita, insieme ad Anna-del-Passato, versi di serena rassegnazione.

1941 Leningrado. I nazi sono alle porte, ma dagli altoparlanti nelle strade esce la voce di Anna-del-Passato (Tutta la mia vita è stata unita a Leningrado[Si ode la vera voce registrata di Anna, ndr]. Lidia ricorda come la ascoltavano alla radio, da Tashkent dove erano sfollati. La ricorda Pasternak, pure sfollato; la ascoltava anche Bulgakov, dalla sua tomba a Novodevice; la ascoltava anche Marina Cvetaeva, dalla fossa comune dove era sepolta; la ascoltava Mandel’štam, anche lui in una fossa comune. Si avanzano alcuni uomini emaciati; il poeta Gorodecki ricorda come orientavano gli altoparlanti verso il nemico, per fargli ascoltare la Settima di Shostakovich [dall’orchestra ne salgono, allargate, le note iniziali, ndr]: Noi siamo ancora vivi perché non uccidiamo, no: cantiamo.

Ma ora si fa avanti il Potere. Che arringa il pubblico, rimproverandogli la sua sete di libertà, che ha portato gli orribili frutti della guerra. No, il Potere vi darà la felicità, tutto ciò che desiderate; ma ad una condizione, di prendersi la vostra libertà!

A Lidia che domanda se solo in Russia c’è un simile potere, Anna risponde che l’antidoto è la poesia! E, ricordando le interminabili e fredde notti di quel 1938 trascorse davanti al carcere sperando di aver notizie del figlio, lei ha trovato la poesia e le donne (In Russia, voi lo sapete, tolte le donne non resta più niente). Anna spera ancora che Lev venga a tm trovarla, ma Lidia la disillude.

1940 Leningrado, le carceri. Anna-del-Passato e le Madri ancora pregano per tutte le donne che passavano intere giornate davanti a quel carcere. E Anna risponde a sua volta con il ricordo di quei giorni, che resterà indelebile [nei suoi versi di Requiem, ndr]; e se la sua bocca verrà messa a tacere, ebbene, saranno loro, quelle Madri, a ricordarla. E se poi qualcuno pensasse di farle un monumento, ecco, lo innalzi lì, davanti a quelle rosse mura carcerarie.   

E dalle immobili palpebre di bronzo,

la neve che si scioglie scorra come lacrime,
e il colombo delle carceri tubi, lontano,
e vadano, tranquille, le navi lungo il fiume.
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20 settembre, 2025

Ultima Cenerentola alla Scala.

Le troppe vacanze mi hanno lasciato solo l’ultima recita (secondo cast) per godermi questo immortale spettacolo che è La Cenerentola di Ponnelle. Arrivato all’ottava stagione di ininterrotta presenza: 1973-74-75-82 (con Abbado); 2001-05 (con Campanella) e 2019 (con Dantone).

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Note a margine:

- Curiosamente anche le (uniche) tre presenze dell’opera al ROF (1998-2000-2010) portano la firma di uno stesso regista, Luca Ronconi.

- Nota critica all’organizzazione: come già accaduto in occasione della stagione 18-19, il libretto del teatro (Edizione critica curata da Alberto Zedda per la Fondazione Rossini in collaborazione con Ricordi) indica la protagonista Angelina e la sorellastra Tisbe come soprani, quando sono contralto e mezzosoprano e Alidoro come tenore, quando è basso. Per nostra fortuna, i cantanti erano quelli con la tessitura appropriata.

- I tre contributi di Luca Agolini. Costui era un collaboratore cui Rossini affidò, per la presentazione dell’opera nel 1817, la composizione (oltre che di recitativi) di tre brani di un certo peso: nel primo atto l’intera Scena 7 (dove Alidoro preleva Angiolina per portarla alla festa); nel secondo l’apertura, con il Coro dei cavalieri; e infine l’aria di sorbetto di Clorinda (Sventurata!) Orbene, in tutte tre le edizioni del ROF sono stati proposti i due ultimi contributi di Agolini, mentre il primo è stato sempre sostituito dalla versione, effettivamente più… sostanziosa, composta da Rossini nel 1820. La Scala, fin dai tempi di Abbado-Ponnelle, ha fatto una scelta assai drastica: bandire Agolini, tagliando di netto il coro e l’aria e rimpiazzando la scena Alidoro-Angiolina con la versione di Rossini. Ed in ciò è stata seguita da quasi tutte le messeinscena dell’opera in giro per il mondo. Ma in realtà l’edizione critica di Zedda consente – stile meccano – anche altre soluzioni. Una di queste l’ha proposta lo stesso Zedda nel 2017 a Pesaro (extra-ROF) in occasione di una recita commemorativa, in forma di concerto, da lui personalmente curata (anche se non diretta, per ragioni di salute) dove ha eseguito i primi due dei tre contributi di Agolini, cassando l’aria di Clorinda.

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Devo dire che avviarsi alla Scala (per godersi un divertimento) passando sul sagrato del Duomo dove stazionavano, immobili, manifestanti pro-Gaza, inalberanti bandiere palestinesi ed esponenti appelli perché qualcuno metta fine ad un genocidio… ecco, è stato piuttosto frustrante… ma questa ahinoi è la nostra attuale civiltà, caratterizzata da macabre polifonie.
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Oggi a nobilitare quest’opera sono stati Gianluca Capuano e un cast di splendidi giovani (già svezzati o tuttora accademici). Certo, dietro e sopra a tutti vegliava tale Gioachino da Pesaro, il sommo chèf che confezionò questo straordinario menu più di due secoli orsono.  

La direzione di Capuano ha esaltato tutta la freschezza, il brio e lo humor di questa partitura, che mescola in maniera mirabile il buffo, la commedia, il patetico, il sarcastico e il… demenziale. Perfetta l’intesa con le voci, che viene dalla lunga consuetudine di Capuano con il suo ensemble vocale, spesso esibitosi in passato in Auditorium con quello strumentale di Ruben Jais in indimenticabili concerti di barocco. E l’orchestra e il coro maschile degli accademici (di Salvo Sgrò) hanno risposto alla grande alle sollecitazioni del Direttore, alle quali si sono uniti gli interventi di fortepiano (Valentina Rando) e di cembalo (Davide Costantino), sempre azzeccati e pertinenti rispetto allo sviluppo dell’azione.

Fra le voci, tre erano di accademici, e si son fatti ben valere: soprattutto il Dandini di Chao Liu, una vera rivelazione, fin dalla cavatina d’esordio (Come un'ape ne' giorni d'aprile) e poi nel duetto con Magnifico (Un segreto d'importanza) e nel quintetto e sestetti. Voce baritonale chiara e corposa, coniugata ad autorevole presenza scenica.     

E poi le sbifide, petulanti e scatenate sorellastre María Martín Campos (Clorinda, peraltro privata della sua arietta…) e Dilan Şaka (Tisbe), efficaci nelle parti singole e nei contributi ai concertati.

Gli altri interpreti (già ex-accademici ormai… navigati) hanno tutti ben meritato. In primo piano il Magnifico di Paolo Ingrasciotta, autorevolmente presentatosi con la cavatina Miei rampolli femminini e poi confermatosi con l’aria Sia qualunque delle figlie e infine nel duetto con Dandini, oltre che nei concertati. Apprezzabile poi la verve con la quale ha animato l’intera serata. 

Mara Gaudenzi è stata una convincente Angelina: nelle reiterate, patetiche riprese di Una volta c’era un Re, nel duetto del primo atto con Ramiro (Un soave non so che) e infine nell’impegnativo finale (Aria-Rondò Nacqui all'affanno - Non più mesta). Davvero una prestazione di alto livello, dove ha messo in mostra la sua corposa voce contraltile, riuscendo anche ad emergere nei tumultuosi concertati che costellano la partitura.

E a proposito di Don Ramiro, Pierluigi D'Aloia ha mostrato tutte le qualità del classico tenorino rossiniano: voce squillante, senza sbavature, intonazione perfetta, il tutto confermato e culminato nella sicurezza con la quale ha affrontato la sua impegnativa aria Sì, ritrovarla io giuro, popolata di DO acuti a profusione.     

Li Huanhong (Alidoro) ha più che dignitosamente svolto il suo compito, che ha il culmine nell’aria La del ciel nell’arcano profondo, quella appositamente scritta da Rossini per un famoso basso dell’epoca (Gioachino Moncada).

Ma naturalmente non si possono dimenticare i contributi delle voci (singole e coro) ai pezzi concertati, che abbondano e rappresentano uno dei pregi in assoluto di questa partitura. Lascia sempre a bocca aperta il sestetto del second’atto (Questo è un nodo avviluppato) con quei versi di italica Stabreim, dove Rossini raggiunge vette davvero eccelse. O lo stupefacente Nel volto estatico del primo atto; o ancora il Parlar, pensar, vorrei, che anticipa l’irresistibile finale primo.

Insomma, una prestazione complessiva di grande spessore, salutata alla fine da un uragano di ovazioni, per tutti, culminato in un interminabile applauso ritmato all’uscita della Gaudenzi e poi di Capuano, che ha giustamente chiamato il pubblico ad uno speciale applauso per i valorosi strumentisti.

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Ecco, una serata di musica davvero da ricordare. Peccato che all’uscita i media ci abbiano ripiombato implacabilmente nelle quotidiane miserie di guerre e carneficine…