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01 gennaio, 2023

Concerti di Capodanno

Da milanese (sia pur adottivo) e quindi dotato di prospettiva assai limitata (!?) mi limito (?!) a censire (non re-censire, sia chiaro!) i tre concerti che mi son passati sotto gli occhi-orecchi (dal vivo o tramite corrieri assortiti). 

È una classifica nettamente determinata dai rispettivi Kapellmeister:

 1° assoluto (e di gran lunga): Guggeis con la Nona de laVerdi;

 Harding con la Fenice;

 3° Il figlio-di-papà Welser-Mòst dal Musikverein.

 Diciamo pure che un 2022 come questo non meritava di più, ecco. Il guaio è che il 2023 già parte male nella culla...

01 gennaio, 2021

Capodanni...

Ai tre concerti che ho seguito in streaming e in TV darò le seguenti pagelle:

1. Sontuoso alla Fenice: nel pieno rispetto delle elementari regole anti-virus (mascherine, distanziamento) pareva quasi un teatro affollato di pubblico, con platea e (in parte) palchi occupati da orchestra e coro; Harding caricato e animazione, ottimismo, applausi... una festa!

2. ottimo a laVerdi: palco esteso a parte della platea per rispetto delle regole (mascherine incluse); programma beethoveniano assai impegnativo ed egregiamente eseguito sotto la bacchetta del promettente, caricatissimo Guggeis. Riprese sempre concentrate sugli esecutori, mai sull’Auditorium purtroppo deserto.

3. deludente al Neujahrskonzert: nessun rispetto di regole anti-virus, niente mascherine, orchestra disposta (e compressa, alla faccia del distanziamento) come al solito, sull’angusto palco; platea desolatamente vuota spesso inquadrata con effetto deprimente. Muti piuttosto freddo e quasi a disagio. Insomma: un Capodanno... gelido, appena mitigato dai contributi esterni, dei balletti e degli spettatori registratisi per lo streaming, che hanno inviato applausi, foto e cartoline di auguri.

30 dicembre, 2020

Capodanno con laVerdi e...altrove

Giovedi 31 dicembre l’Auditorium di Largo Mahler ospiterà, senza pubblico ma con platea e galleria occupata dai musicisti, il tradizionale Concerto di Capodanno.

Originariamente era in programma, come da 20 anni a questa parte, la Nona beethoveniana ma... il Covid ci ha messo lo zampino mettendo fuori causa alcuni membri del coro, e così si è dovuto ripiegare - sempre con Beethoven - con un programma alternativo. Che sarà visibile in streaming sui canali social della Fondazione.

Venerdi 1 gennaio, sempre a porte chiuse ma registrato su RAI2 (13:30) ecco il Neujahrskonzert viennese, diretto per la sesta volta dal nostro Maeschtre.

RAI1, come da qualche anno, irradierà in diretta il Concerto della Fenice (12:20). 

17 febbraio, 2019

Un Mozart ragazzo a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran (poco affollato in verità, ma d'altronde Venezia è immersa fino al collo nel carnevaleultima replica della serenata (sic!) mozartiana Il sogno di Scipione.

Opera del sedicenne Teofilo, opera di circostanza, da dedicare ad un personaggio e/o ad un avvenimento pubblico importante, verosimilmente il 50° (o 49°) di sacerdozio dell’Arcivescovo di Salzburg. Il soggetto - preso di peso da quel pozzo di sanPatrizio costituito dall’immensa produzione letteraria del poeta cesareo Pietro Metastasio - tratta di un sogno che lo Scipione, futuro conquistatore e spianatore di Cartagine, fa mentre dorme a casa del suo alleato Massinissa, in una regione oggi assimilabile all’Algeria orientale (va detto che nemmeno Metastasio ha inventato nulla, chè il soggetto viene da... Cicerone!)

Nel sogno incontra due intraprendenti signore che gli chiedono di scegliere fra loro due la sua compagna della vita. Insomma, uno scenario subito sospettabile di introdurre tematiche di natura non precisamente platonica, ecco (tanto è vero che qualche regista ha preso la palla al balzo ambientando l’operina in un ménage-à-trois in piena regola).

Le due signore in realtà se la tirano parecchio, presentandosi come esseri soprannaturali: una si definisce Fortuna e l’altra Costanza, magnificando ciascuna le proprie specifiche prerogative. Prima di decidersi Scipione vorrebbe sapere in qual posto sia capitato, e così gli vengono presentati nientemeno che i suoi due ascendenti nell’albero genealogico: il nonno adottivo, Publio; e il padre, Emilio. I quali gli spiegano cos’è l’aldilà, magnificandolo al punto che lui vorrebbe fermarsi lì con loro, ma i due lo spronano a completare le sue (e le loro) imprese con la definitiva distruzione di Cartagine.

Fortuna e Costanza non sono disposte ad attendere oltre e portano ciascuna i propri affondo per conquistare l’eroe. Il quale - ovviamente deve dimostrare di aver la testa sulle spalle, mica di essere un pazzo avventurista - sceglie la Costanza, suscitando le ire di Fortuna che lo riempie di saette e fulmini, provocandone il risveglio.

Adesso deve arrivare la conclusione-con-dedica. E capita che le opere dedicate a qualche personaggio (soprattutto se a potenti) a volte presentino problemi, come dire, di adattamento alla bisogna. E qui nello Scipione ne emerge uno la cui soluzione fa abbastanza sorridere. Dunque, il testo di Metastasio, da Mozart impiegato alla lettera, verso la fine prevede l’intervento di un particolare personaggio (la Licenza) che canta, prima della sua aria, un recitativo secco nel quale - al fine di esplicitare la dedica dell’opera - svela chi si celi, in realtà, sotto le spoglie dell’ultra-lodato Scipione. Metastasio scrive: Carlo. E perchè mai? Semplice: perchè Carlo VI Imperatore era il suo sponsor e protettore!

Ma quando Mozart compone la serenata, il dedicatario è l’Arcivescovo di Salzburg in carica al momento (1771): tale Sigismund III Christoph Graf von Schrattenbachautentico patron dei Mozart. E così, nel recitativo della Licenza, il nome Carlo viene sostituito da Sigismondo. Peccato che il prelato non faccia in tempo a godere della dedica, poichè tira le cuoia quando ancora Mozart deve completare l’operina. Al suo posto arriverà lo sbifido Hieronymus Franz de Paula Josef Graf Colloredo von Waldsee und Mels (quello che anni dopo licenzierà in tronco il povero Teofilo... ma così facendone senza volerlo la fortuna). E allora, prontamente Mozart (lui o il padre Leopold, ma fa lo stesso) cancella dal manoscritto il nome Sigismondo e ci scrive sopra: Girolamo!

Ora, siccome a noi frega nulla di Carli, Sigismondi e Girolami, imperatori e vescovi assortiti, si doveva pur trovare un nome adatto per attualizzare la dedica della serenata, qualcuno di nostra conoscenza e meritevole di panegirico. Bene, siamo a Venezia, Fenice, giusto? Qui non c’è un arcivescovo, ma comunque un capo della Fondazione. E quindi il fortunato prescelto (toh!) è proprio un... Fortunato!

(Diciamo che c’è andata pure bene: non hanno scelto un... Matteo.)

A proposito della Licenza, va detto che Mozart compose una seconda versione dell’aria, assai più elaborata di quella originale (che è stata eseguita a Venezia). In questa registrazione assai pregevole e ascoltabile in rete (fra l’altro senza una riga di tagli) a 1h36’41” viene eseguita l’aria originale e a 1h42’10” quella composta successivamente.

Per le 10 arie Mozart interpreta la classica struttura bistrofe metastasiana (A - B - A da-capo) con ampia libertà, mostrando un precoce istinto all’innovazione: l’esposizione della prima strofa è sempre assai articolata, con ripetizioni del testo in tonalità diverse (comunque adiacenti) mentre quella della seconda è sempre asciutta e senza riprese. Eliminato il meccanico e un po’ arido da-capo, la prima strofa viene riesposta con nuove varianti.

Particolare cura è messa nella caratterizzazione musicale dei personaggi; ad esempio Fortuna ha melodie vivaci e caratterizzate da ampi intervalli, Costanza invece è più riflessiva e posata, con melodie che si muovono senza troppi scossoni. Forse più convenzionali sono i due Cori, mentre la Sinfonia si distingue per la mancanza di una chiusura tradizionale, estinguendosi direttamente nel recitativo di apertura.

E a proposito dei famigerati (da noi) recitativi secchi, a Venezia si è tagliato parecchio (un quarto d’ora circa) come si desume dalle evidenziazioni presenti sul libretto pubblicato nel prezioso programma di sala. Mirabile invece il recitativo accompagnato (Fortuna-Scipione) che precede l’entrata di Licenza.  

L’organizzazione dei numeri musicali presenta una simmetria abbastanza spiccata. Se escludiamo i due cori e l’intervento asimmetrico di Licenza, ecco come si struttura la sequenza delle 9 arie affidate ai 5 protagonisti principali:





Emilio







Publio

Publio





Costanza



Fortuna



Fortuna





Costanza

Scipione







Scipione

Scipione apre e chiude, le due femmine - che trattano aspetti di carattere comportamentale - occupano le parti a ridosso del protagonista, mentre ai genitori - che si occupano di politica - è assegnata la posizione centrale.      
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Vengo ora a ieri, cominciando dalla musica. Le cinque voci in scena hanno tutte ben meritato. Volendo proprio fare una (mia personale) graduatoria, metterei in testa lo Scipione di Valentino Buzza e la Costanza di Francesca Boncompagni, poichè mi son parsi i più efficaci nei rispettivi ruoli e vocalmente non hanno mostrato limiti o pecche. Ma tutti hanno ricevuto applausi a scena aperta alla fine delle rispettive arie.

Federico Maria Sardelli ha guidato la (correttamente) sparuta pattuglia di orchestrali de LaFenice con grande autorevolezza e non a caso il pubblico ha riservato per lui, alla fine, l’accoglienza più calorosa. Bene anche il coro di Claudio Marino Moretti, che ha cantato il finale dalla buca dell’orchestra. Buca dove si sono distinti (in casi come questi il loro apporto è fondamentale) i continuisti Luca De Marchi (cembalo) e Alessandro Zanardi (cello). 
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Lo spettacolo è stato realizzato con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti veneziana e l’apporto di giovani studenti delle Scuole di scenografia e costumi. Tutti coordinati da Elena Barbalich, regista di fatto dello spettacolo. Un lavoro di gruppo encomiabile, tenuto conto delle caratteristiche dell’opera, dove non esiste la minima parvenza di azione, ma solo dissertazoni su filosofia, psicologia e politica. Del resto, non per nulla il pezzo si chiamava serenata: da eseguirsi - se non proprio sotto le finestre di una casa popolare - magari nel giardino di una residenza patrizia o in un salone dell’Arcovescovado...

Alcune trovate della messinscena possono essere apparse un filino goliardiche o sopra le righe, ma nel complesso si è trattato di uno spettacolo godibile, grazie anche alla supervisione dello scenografo Massimo Checchetto e del responsabile alle luci Fabio Barettin.
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In definitiva, una proposta quanto mai interessante, della quale il Fortunato dedicatario-patron può ben andare orgoglioso.

22 ottobre, 2018

Semiramide rinasce in laguna


È tornata nella sua casa natale la più grande opera (escludendo magari il Tell) di Rossini. Dopo la prima di venerdi scorso (trasmessa da Radio3) ieri pomeriggio(-sera...) è andata in scena la seconda recita, in un teatro non propriamente esaurito.

Prima dell’inizio ho fatto un giretto nella Sala Ammannati per dare un’occhiata a quell’autentico cimelio ivi esposto in questi giorni: la partitura autografa dell’opera. E si prova una certa emozione nel contemplare da vicino quelle carte da musica sulle quali il genio pesarese vergò le strabilianti note del suo capolavoro. Note che hanno ancora riempito gli spazi della Fenice, proprio come accadde per la prima volta quel lunedì 3 febbraio del 1823.   

Sulle diverse bizzarrie del libretto, che il Rossi ricavò da Voltaire (peggiorandolo assai) ho già scritto la mia un paio d’anni orsono, in occasione di una produzione del Maggio, quando ho anche sintetizzato la struttura dell’opera, appoggiandomi ad un’esecuzione in terra vallone del padreterno Zedda (che insieme al co-padreterno Gossett approntò l’edizione critica per la Fondazione Rossini). E ciò che viene presentato oggi è la versione praticamente integrale del lavoro, come testimoniano ampiamente le quasi 4 ore di durata netta della rappresentazione, che eguaglia praticamente al minuto secondo (anche nei singoli atti) quella della citata edizione di Zedda. 
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Segnalo subito la recensione di Amfortas, che mi sento di condividere largamente nella sostanza. 

Di Riccardo Frizza - da bresciano tifo per lui - non posso dir che bene: non che non lo conoscessi, ma qui passava dal cockpit di un chessna a quello di un A380! Che ha guidato con grande sicurezza e padronanza della... materia. E l’Orchestra della Fenice lo ha pienamente assecondato, reagendo sempre con precisione e compattezza ai suoi comandi.

Ottima anche la prestazione del coro di Claudio Marino Moretti, che è impegnato (maschi e femmine) in misura quantitativamente (nulla è tagliato) e qualitativamente massiccia. 

Jessica Pratt è ormai una beniamina della Fenice ed ha ottenuto un gran trionfo. Personalmente, riconosciuta la sua strabiliante forma, torno a manifestare le mie perplessità sull’aderenza vocale del soprano anglo-australiano al ruolo di Semiramide. Qui non si tratta di fare impropri e impossibili paragoni con una tale Isabella, però ci son pochi dubbi che Rossini abbia scelto il personaggio proprio per il profilo chiaramente drammatico, che richiederebbe una voce diversa da quella adatta ad una Astrifiammante, per dire. E così la voce spiccatamente lirica e i MI naturali e MIb sovracuti che la Jessica ha splendidamente sciorinato fanno restare il pubblico a bocca aperta, ma non sono - sempre a parer mio - perfettamente appropriati alla personalità del ruolo-titolo: una femmina che - contrariamente a ciò che certa tradizione tramanda, di ninfomane incallita - per Voltaire e Rossi-Rossini è una fredda creatura avida di potere, e quasi di null’altro. Gli uomini sembrano interessarla solo come marionette da impiegare ai suoi fini: Assur per farsi aiutare da lui a far secco il marito che la stava ripudiando... adesso Arsace (che lei crede un proletario fedelissimo e pronto a tutto per lei) da nominare Re (travicello) solo per garantire a se stessa la perpetuazione del suo potere. 

Chi invece mi ha abbastanza impressionato è la Teresa Iervolino, un Arsace dalla voce morbida ed intonata, cui manca (ancora?) un po’ più di profondità e di robustezza. Purtroppo di Podles non ne nascono tutti i giorni, ma il contralto romano (non ancora 30enne) è sulla buona strada per emergere nel panorama musicale. 

Alex Esposito è un Assur sufficientemente autorevole: la sua voce è forse un filino troppo chiara (sempre per i miei gusti) ma lui compensa con la sua proverbiale presenza scenica. A proposito: la regista lo presenta dapprima con problemi di deambulazione (bastone da passeggio perennemente imbracciato) poi nel finale il nostro mostra doti addirittura da acrobata (?!) 

Il ragusano (trapiantato per l’occasione in India) Enea Scala se la cava discretamente come Idreno, parte affatto facile, sia detto, anche se gli acuti (fino al RE, peraltro) sembrano un po’ ghermiti... alla sperindio. La sua partner... poco convinta, Azema, è una Marta Mari ben dotata di mezzi naturali, che deve (come il tenore) mettere meglio a partito. 

Rimarchevole, soprattutto per presenza (un filino meno per portamento vocale, stante qualche berciata di troppo) l’Oroe di Simon Lim

Completano degnamente il cast il Mitrane di Enrico Iviglia e (invisibile ma... ampiamente controfigurato) Francesco Milanese che dà voce alla spaventevole ombra di Nino, che si aggira minacciosa a partire dalla fine del prim’atto. 
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L’allestimento della giovane Cecilia Ligorio è essenziale nella scenografia (di Nicolas Bovey) che nel primo atto si riduce a uno scorcio di banlieu di Babilonia, che funge da tempio di Belo e poi da reggia di Semiramide, con ampio sfoggio di ori e piante... pensili; e nel secondo si riduce ad una piattaforma circolare all’interno di una scena totalmente buia e nera, direi appropriata allo scenario generale, che vede il compiersi della tragedia. Che anche l’intermezzo (teoricamente) idilliaco della definitiva unione (e conseguente... scomparsa) di Azema e Idreno sia ambientato in questa specie di girone infernale non è poi del tutto fuori luogo: credo che da buona femminista la Ligorio abbia voluto sottolineare come per una donna il dover seguire un uomo controvoglia sia, appunto, un inferno (qui però la regista ha dato retta più a Voltaire che a Rossi-Rossini, per i quali la fanciulla parrebbe accontentarsi anche di uno che fa l’indiano). 

Le luci di Fabio Barettin si adeguano perfettamente alla duplicità dello scenario: abbaglianti per rendere al meglio lo sfarzo della sfolgorante Babilonia e poi... assenti o quasi nel second’atto. 

I costumi di Marco Piemontese sono un pot-pourri di stili, mode ed epoche, una maniera come un’altra per rappresentare degli archètipi, senza dare precisi riferimenti: si va da abbigliamenti più o meno plausibilmente babilonesi (il popolo del primo atto) a uniformi militari austro-ungariche (Idreno) ad acconciature da barbie (Semiramide, Azema) e Rasputin (Assur); al bizzarro vestimento guerresco di Arsace, per finire ai completi neri (cappelli inclusi) degli scagnozzi di Assur, un autentico branco di pipistrelloni. 

Non particolarmente eccitante la recitazione: salvo Esposito che ci mette del suo, gli altri paiono lasciati un po’ a se stessi e non è che brillino particolarmente. Brava la coreografa-ballerina Daisy Ransom Phillips con le quattro danzatrici che fungono da ancelle del gran sacerdote. 

In conclusione, uno spettacolo più che dignitoso, che il pubblico ha accolto con grande favore gratificando tutti e ciascuno di applausi e di bravi! Per me, una trasferta tutto sommato piacevole.

02 luglio, 2018

Battistelli porta Shakespeare alla Fenice


Ieri pomeriggio La Fenice (con ampi spazi deserti nei palchi, ma pure in platea) ha ospitato la seconda recita del Richard III di Giorgio Battistelli, opera che arriva in Italia dopo più di 13 anni dalla sua comparsa sulle scene fiamminghe e dopo aver compiuto altre tappe europee. (Non è dato sapere perchè nel frattempo non si sia pubblicato un DVD, che dico, un CD dell’opera, quasi fossimo tornati all’800, dove però gli organetti di strada supplivano alla mancanza di registrazioni, diffondendo per le piazze le arie e i duetti più famosi. Certo, se si diffondessero oggi con quei mezzi le arie di Battistelli, la gente passerebbe a vie di fatto con gli imprudenti organettari...)

Artefice dello spettacolo il trio Battistelli-Burton-Carsen, che tre anni orsono si è (recidivamente) ripetuto alla Scala con la produzione di CO2. Direttore e concertatore Tito Ceccherini, specializzato in musica contemporanea, che non dev’essere per nulla facile da dirigere ma che - rispetto a Beethoven, Brahms, Mahler e Wagner, dove il vasto pubblico è pronto ad osannare o stroncare l’interprete, ritenendosi preparato sull’autore - mette il direttore al riparo da critiche, dato che il pubblico medio, per scarsa conoscenza dell’autore, fatica a distinguere l’interpretazione del Ceccherini da quella di un Carneade di passaggio. Orchestra che occupava, oltre alla buca a lei destinata, anche i sei palchetti di proscenio (tanto ne restavano vuoti altri 20-30, quindi poco male) per far posto a percussioni, xilofoni, celesta, batteria e sampler (generatore di suoni artificiali, come non bastassero quelli naturali...)

E sulla componente strettamente musicale dell’opera devo in effetti manifestare ampie perplessità: lungi da me richiamare qui i giudizi sommari di tale Fantozzi, dico francamente che essa non è tale (almeno al primo ascolto) da suscitarmi particolari entusiasmi. Certo, quando il soggetto è quanto di più repellente si possa immaginare, allora la musica fatta di atroci dissonanze, fracassi gratuiti e rumori che sostituiscono i suoni sembra apparentemente la più adatta a supportarlo: ma se il teatro musicale degrada a crudo reportage di cronaca nera, credo che abdichi alla sua stessa natura. Nella fattispecie, non bastano (alle mie orecchie) alcuni corali o un finale strappalacrime a riscattare la mediocrità estetica della musica che supporta questo Richard III. Battistelli, come suo solito, impiega di tutto e di più, ma la quantità di mezzi e trovate nella forma spesso maschera la mancanza di profondità dei contenuti.

Invece lo spettacolo non è per nulla da buttare, anzi... grazie a Burton (in realtà Shakespeare) e a Carsen, che sa come presentare il testo di Burton-Shakespeare da par suo. La struttura del dramma è ben articolata, con i tre momenti delle incoronazioni e il ciclico ritorno della Boar-Hunt, all’interno dei quali momenti si accavallano le atrocità del protagonista, i piagnistei delle donne che lo condannano (ma pure lo esaltano) le pavide reazioni di nobilastri imbelli e quelle sempre cieche e telecomandate del popolino. Siamo ancora, lassù in Albione, in pieno medio-evo e sarà proprio l’avvento dei Tudor a far sbocciare anche là un rinascimento, con almeno un paio di secoli di ritardo rispetto a... Firenze.

Carsen, coadiuvato per scene e costumi da Radu e Miruna Boruzescu, ci porta in un ambiente fisso (mosso soltanto dalle luci che vi penetrano da ogni lato) in cui trova spazio una tribuna-anfiteatro sulla quale prendono di volta in volta posto i notabili o il popolo, o gli opposti eserciti delle due rose. In basso, sabbia rossa: insomma, ecco uno spazio adatto a questa particolare versione di sangue-e-arena, la cui cupezza è completata dagli abiti (e occasionalmente dagli ombrelli) rigorosamente neri e perfettamente uguali di tutti coloro che si muovono in scena. Ecco, siamo appunto ancora nei secoli-bui!

Passando agli interpreti, grazie a Carsen la recitazione di tutti, singoli e masse, è di grande efficacia e di sicuro impatto, nulla da eccepire. Sulle qualità vocali dei numerosi personaggi (e meno male che Shakespeare è stato abbondantemente tagliato!) il mio giudizio è più che positivo solo per il Richard di Gidon Saks, il cui vocione potentissimo e perfettamente impostato ha riempito con grande drammaticità lo spazio della Fenice. (Al proposito farò una battuta davvero dissacrante: ma non sarebbe stato più audace, da parte del compositore, affidare questa parte, invece che ad un basso-baritono che è perfetto per Hagen o Hunding, o magari per Jago, ad un castrato o - visto che oggi non ne circolano più - ad un controtenore o falsettista? Chissà se non avrebbe scolpito meglio, vocalmente, la personalità di questo individuo le cui propensioni animalesche dovevano nascondere preoccupanti segni di instabilità...)

Degli altri, note positive per il Buckingham di Urban Malmberg, il Clarence-Tyrrel di Christopher Lemmings e la Anne di Annalena Persson. Assai meno per il Richmond di Paolo Antognetti, vocina piccola e poco udibile. Tutti gli altri su standard accettabili. Bene il coro di Claudio Marino Moretti, sia negli arcani interventi da fuori campo che nelle presenze in scena.

In definitiva, uno spettacolo coinvolgente ma - ripeto, questo è il mio personale giudizio - che ha il suo punto debole proprio nell’ingrediente che dovrebbe maggiormente caratterizzarlo: la musica...

16 aprile, 2018

La furia di Orlando in Laguna


Ieri pomeriggio il piccolo ma glorioso Malibran ha ospitato la seconda recita di Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Si tratta di un allestimento che fu presentato con gran successo la scorsa estate al Festival di Martina Franca, e di cui è ascoltabile in rete l’audio (pessimo, ahinoi, poichè piratescamente ripreso con mezzi di fortuna) grazie ai peripatetici melomani de L’impiccione viaggiatore.

Ultima delle tre opere dedicate da Vivaldi al soggetto ariostesco, si inserisce in pieno nella tradizione del barocco, sia dal punto di vista della grandiosità dello spettacolo, che da quello della struttura della parte musicale. Questa produzione di basa sull’edizione critica dello specialista Federico Maria Sardelli, che la coppia regista-concertatore (Fabio Ceresa - Diego Fasolis) ha poi liberamente rimaneggiato, attraverso qualche taglio (doloroso per la soppressione di alcune arie; meno critico, ma sempre dannoso per la coerenza del tutto, per quella di robusta parte dei recitativi) accompagnato a diversi arbitrari spostamenti di numeri all’interno della struttura del dramma. Lo spettacolo si riduce (per così dire...) a meno di tre ore lorde (20‘ di intervallo) rispetto alle più di 3 ore nette di un’esecuzione completa (come questa francese). In appendice un elenco dei principali numeri e della relativa ristrutturazione compiuta per questo allestimento: tra spostamenti di arie ed espunzioni (di arie e recitativi) sono il secondo ed il terzo atto ad essere pesantemente manipolati rispetto all’originale.   

La trama dovuta a Grazio Braccioli - da Ariosto, ma estremamente contorta - serviva (ai tempi) più che altro a giustificare le mirabolanti trovate sceniche (ippogrifi, mostri, naufragi, viaggi spaziali...) e le innumerevoli arie che consentivano agli interpreti di mettere in mostra le loro qualità di gorgheggiatori, oltre che di attori. Vi troviamo un quadrilatero e un triangolo sentimentali, rispettivamente rappresentati dai diversamente assortiti legami affettivi che a cascata collegano, da un lato, Bradamante<>Ruggiero<>Alcina<>Astolfo; e dall’altro Medoro<>Angelica<>Orlando.   

L’allestimento è piacevole e intelligente: non si perde alcunchè del classico clima dell’opera barocca, grazie alle scene di Massimo Checchetto, assai efficaci pur nella relativa essenzialità: la luna di Orlando, il mondo incantato e sexy di Alcina, l’ippogrifo di Ruggiero e il naufragio di Medoro... Insomma, un simpatico revival delle atmosfere che nel primo ‘700 caratterizzavano i teatri musicali. Il tutto impreziosito dai coloratissimi e raffinati costumi di Giuseppe Palella e ravvivato dalle luci di Fabio Barettin. Essenziali anche le coreografie di Riccardo Olivier.
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Sul piano musicale, doverose lodi a Diego Fasolis, che ha fatto valere la sua indiscussa esperienza in questo repertorio, accompagnando personalmente ad uno dei due cembali e trascinando strumentisti e coristi della Fenice a confermare a loro volta la dimestichezza con il barocco, raggiunta anche grazie alle esecuzioni monteverdiane di questi ultimi anni.

Le voci si sono dimostrate tutte all’altezza del compito. A partire dall’Alcina di Lucia Cirillo e dall’Angelica di Francesca Aspromonte. Subito dietro collocherei la Bradamante di Loredana Castellano e la protagonista Sonia Prina, che ho personalmemte apprezzato spesso in Auditorium a Milano con laBarocca di Jais, ma che ieri non mi è parsa al meglio (incassando anche un eccessivamente severo buh nel second’atto).  

Apprezzabili il Medoro di Raffaele Pe, il Ruggiero di Carlo Vistoli e autorevole l’Astolfo di Riccardo Novaro.

Pubblico non oceanico e freddino negli applausi a scena aperta dopo le arie (ha fatto eccezione Sol per te, grazie soprattutto all’accompagnamento del magico traversiere, collocato in un palchetto). Anche alla fine applausi calorosi ma... centellinati.

Comunque uno spettacolo sicuramente da consigliare.
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Struttura dell’opera in questa edizione-produzione

I
Ang Un raggio di speme
Alc Alza in quegli occhi
Ast Costanza tu m’insegni
Bra Asconderò il mio sdegno
Orl Sorge l’irato nembo (da atto II) sostituisce Nel profondo, cieco mondo, spostato in atto II
Ang Tu sei degli occhi miei
Orl Troppo è fiero il nume arciero (espunto)
Med Rompo i ceppi (Nel libretto originale: Se tacendo, se soffrendo)
Rug Sol per te mio dolce amore (flauto traverso)
Alc Amorose ai rai del sole

II
Alc Vorresti amor da me?
Ast Benchè nasconda la serpe in seno
Bra Taci, non ti lagnar
Rug Piangerò sinchè l’onda del pianto (assente nel libretto originale)
(Orl Sorge l’irato nembo, spostato in atto I)
Med Qual candido fiore
Ang Chiara al pari di lucida stella (spostata poco avanti)
Orl Nel profondo, cieco mondo (da atto I)
Rug Come l’onda (da atto III) sostituisce Che bel morirti in sen, espunto
Bra Io son ne’ lacci tuoi (da atto III) sostituisce Se cresce un torrente, espunto
Cor Al fragor de’ corni audaci
Cor Gran madre Venere
Cor Diva dell’Espero
Ang-Med Belle pianticelle (espunto)
Ang-Med Sei mia fiamma - Sei mia gioia
Alc Così potessi anch’io (spostato qui da prima del duetto Ang-Med)
Orl Ah sleale, ah spergiura

III
Ast Dove il valor combatte
Alc L’arco vuò frangerti
Alc Che dolce più (espunto)
Ang Poveri affetti miei (espunto)
 (Bra Io son ne’ lacci tuoi, spostato in atto II)
Alc Non è felice un’alma (espunto)
(Rug Come l’onda, spostato in atto II)
Med Vorrebbe amando il cor (espunto)
Orl No no ti dico no
Alc Infelice, ove fuggo
Alc Anderò, chiamerò
Cor Con mirti e fiori (Nel libretto originale: Vien dal cielo in noi l’Amore)

22 gennaio, 2018

Il Pasquale di Spontini rivive a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran di Venezia (molte le poltrone vuote...) è andata in scena la seconda recita della farsa Le metamorfosi di Pasquale di Gaspare Spontini, operina ritenuta perduta ma riscoperta l’altr’anno in Belgio.

In un precedente intervento avevo scritto di un soggetto, quello del Foppa, che mi pareva, almeno a prima vista, piuttosto deboluccio, e della conseguente curiosità di ascoltarne la resa in musica del grande (...ma non ancora, nel 1802) Spontini. Ecco, la curiosità è stata soddisfatta, naturalmente, ma non così... l’aspettativa. Non che (personalmente) sognassi di ascoltare Mozart e menchemeno Rossini, ma insomma, si è avuta la conferma che lo Spontini del 1802 era un musicista ormai involuto – come del resto doveva aver concluso il pubblico del San Moisè, rimasto assai freddo - e che solo il totale cambiamento d’aria (leggasi: Parigi) gli potè (e 5 anni dopo) ispirare cose davvero innovative e imperiture.

Federico Agostinelli, cui è stata affidata l’edizione critica (così recita la locandina, a me pare in termini un tantino pretenziosi, date le circostanze in cui la partitura è tornata alla luce) ha dovuto far fronte alla mancanza di una Sinfonia, così ha ipotizzato che Spontini abbia fatto ascoltare ai veneziani del 1802 quella tratta da La fuga in maschera, giustificando ciò con il razionale che Spontini aveva già impiegato (e avrebbe impiegato successivamente) tale sinfonia in altre opere, e che alcune sezioni tornano nel finale della farsa. Finale che Agostinelli ha dovuto anche integrare di suo in alcune parti mancanti nel tomo rinvenuto in Belgio. Sempre secondo Agostinelli, quest’operina mostrerebbe qualche elemento di novità rispetto alla produzione precedente di Spontini, come: modulazioni più ardite, cadenze evitate e accordi aumentati. Okay, ma il risultato, ripeto a mio modesto avviso, è quello che è...

Gianluca Capuano ha comunque fatto del suo meglio per... indorarci la pillola, con una direzione vibrante, ben assecondato dagli sparsi strumentisti della Fenice. Al proposito, al Malibran ieri è successo ciò che forse non capitava nemmeno nel 1802: per ben due volte è mancata improvvisamente l‘illuminazione nella buca! Nella prima occasione l’orchestra è riuscita miracolosamente a chiudere il numero, suonando nel buio più fitto e raccogliendo meritati applausi. Al secondo incidente, Capuano ha dovuto fermare tutti e riattaccare poi l’aria di Lisetta (quella col corno inglese). Evabbè...

Proprio Lisetta, al secolo Irina Dubrovskaya, è stata la mattatrice del pomeriggio, essendo anche il personaggio più impegnato da Spontini: un po’ censurabile il suo timbro di voce (nella Sonnambula di qualche tempo fa mi era parso più gradevole) ma apprezzabili i virtuosismi e le salite ai sovracuti che le hanno meritato un’ovazione alla singola. Meno impegnata e meno appariscente la Costanza di Michela Antenucci, che ha però sfoggiato una voce più rotonda di quella del soprano siberiano.

I cinque rappresentanti maschi hanno discretamente meritato, su tutti metterei il Frontino di Carlo Cecchi, voce ben impostata e buon portamento. Poi Giorgio Misseri (Marchese) una voce piccola e però sufficiente in un ambiente... piccolo, appunto.  Efficaci nelle loro non proibitive parti il Barone di Francesco Basso e il doppione (Cavaliere-Sergente) di Christian Collia. Quanto al protagonista Pasquale, Andrea Patucelli merita ampia sufficienza, anche se questa parte di buffo forse richiederebbe ancora più verve, ecco.
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Quanto alla regìa, Bepi Morassi ha scelto – in assenza totale di riferimenti spazio-temporali nel libretto del Foppa - un’ambientazione in epoca appena pre-primo-conflitto-mondiale e ha immaginato il barone come il ricco proprietario di un elegante caffè-bar. All’interno o nei pressi del quale (insegne luminose di entrata e uscita scambiate alla bisogna) collocare gli avvenimenti. Scene spartane, quelle di Piero De Francesco, e costumi più o meno plausibili quelli di Elena Utenti, tutti ideati – così come l’impiego delle luci - da allievi della Scuola di Belle Arti veneziana.

Morassi sa poi far muovere da par suo personaggi e comparse (avventori del bar) sulla scena, garantendo un buon livello di vivacità ad uno spettacolo i cui ingredienti di base lasciano effettivamente molto a desiderare.

Pubblico abbastanza ben disposto, con alcuni applausi a scena aperta e un doveroso apprezzamento finale per tutti i protagonisti. Insomma, un ritorno dopo 216 anni che difficilmente farà... storia. Viaggio che comunque si concluderà proprio a casa di Spontini, fra qualche mese, in occasione del Festival 2018. 

14 gennaio, 2018

Spontini resuscita a Venezia


Il glorioso Malibran di Venezia ospiterà fra pochi giorni cinque recite della farsa giocosa per musica intitolata Le metamorfosi di Pasquale, opera del grande Gaspare Spontini che è stata miracolosamente riportata alla luce poco tempo fa in Belgio (insieme ad altre due opere e ad una cantata) e che Venezia e Jesi (rispettivamente luogo della prima del 1802, e patria del compositore di Maiolati) hanno deciso di mettere in scena con sollecitudine.

La farsa, il cui testo è di Giuseppe Maria Foppa, è sottotitolata Tutto è illusione nel mondo, che non può non richiamare alla mente il boitiano Tutto nel mondo è burla che chiude Falstaff (non si può escludere che Boito conoscesse il testo di Foppa, il quale era famoso per aver scritto libretti su soggetti shakespeariani...)
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La vicenda – tipica del genere-farsa, basata su equivoci, scambi di identità e qui-pro-quo - è ambientata nel parco e poi nel castello del Barone, che ha una figlia (Costanza) da lui promessa al Cavaliere (del Prato). Ma Costanza (che ha la sua cameriera, Lisetta) ama ed è riamata dal Marchese (Alberto, che nessuno al castello, eccetto la padroncina, ha mai visto) il quale ha a sua volta un servo, Frontino, che si innamora di Lisetta. Il protagonista (gabbato) della farsa è Pasquale, un avventuriero, tipo senza arte nè parte, sedicente innamorato di Lisetta, e che sarà vittima della simpatica macchinazione del quartetto Marchese-Costanza/Frontino-Lisetta volta ad assicurare il positivo esito delle aspirazioni amorose delle due coppie.      

Nel vasto parco del castello

Scena I
Facciamo la conoscenza con le due coppie che alla fine si uniranno felicemente. Il Marchese e il fido Frontino si aggirano circospetti nel parco per incontrare Costanza, che infatti sopraggiunge, accompagnata dalla fida cameriera. Marchese e Costanza vorrebbero subito scambiarsi ardenti effusioni, ma ne sono impediti dalla saggia Lisetta, che li invita alla prudenza e poi respinge anche le avance di Frontino. I quattro esternano i loro tormenti d’amore, poi Lisetta informa il Marchese dell’inimicizia del Barone nei suoi confronti e delle intenzioni del suddetto di dare la figlia in sposa al Cavaliere. Frontino chiede aiuto a Lisetta, perchè metta la sua astuzia al loro servizio; cosa che Lisetta sembra apprestarsi a fare, ricordando al Marchese che lui al castello non è conosciuto... Ma in quel momento Frontino avverte tutti che lì sta arrivando proprio il Cavaliere, così Costanza e Lisetta se ne scappano in tutta fretta.

Scena II
Il Cavaliere, che ha osservato la scena, scopre subito l’identità del Marchese, lo invita a rinunciare a Costanza e, al suo diniego, lo sfida ad un duello alla pistola... a cavallo!

Scena III
Frontino osserva da lontano il duello: si ode un colpo, poi il cavallo del Cavaliere si impenna e disarciona il passeggero; il Marchese spara un colpo in aria, mentre il servo del Cavaliere corre al castello a chiamare aiuto per far arrestare il Marchese, che Frontino si ripropone di salvare.

Scena IV
Facciamo qui la conoscenza del protagonista, Pasquale, squattrinato ed affamato, che arriva lì sperando di incontrare la sua (un tempo) amata Lisetta. Ma si chiede: che matrimonio sarebbe quello fra uno sbandato nullatenente e nullafacente e una modesta cameriera? Ricorda i 10 anni di girovagare a vuoto ed anche la profezia di una maga, che gli aveva predetto fortuna a seguito della caduta del suo signore. Ma quando ciò era accaduto e lui dell’accaduto rise, il signore suo lo aveva licenziato in tronco, altro che fortuna! Adesso è pure stanco morto, si spoglia della sua casacca e si addormenta.

Scena V
Frontino e il Marchese si sentono ormai braccati, ma il servo ha un’idea geniale: vede l’abito di Pasquale addormentato e lo fa indossare al padrone, gettando le di lui vesti, più cappello e spada, accanto al dormiente. Il Marchese scappa e Frontino si apposta ad osservare gli eventi.

Scena VI
Pasquale, risvegliato dal trambusto provocato da Marchese e Frontino, si ritrova al fianco i lussuosi abiti del Marchese; crede di sognare, ma poi ripensa alla profezia della maga e si convince che la fortuna è finalmente arrivata anche per lui. Si veste di tutto punto e già si immagina nei panni di un gran signore che dà ordini ai suoi servi e lacchè.

Scena VII
Frontino si presenta a Pasquale trattandolo come il suo padrone e chiamandolo Marchese del Colle. Il poveraccio ci casca e si convince ulteriormente del miracolo di cui è beneficiario. Frontino si complimenta con lui per la vittoria nel duello contro il Cavaliere, che gli voleva sottrarre la ricca ereditiera. Pasquale ringalluzzisce ulteriormente, ma vien messo da Frontino sull’avviso che il padre della ragazza si oppone alle sue nozze. Arrivano frattanto le guardie del Barone. 

Scena VIII
Ecco le guardie, cui Pasquale tenta di resistere, persino dichiarando che lui non è il ricercato, ma nessuno gli crede e Frontino, fingendo commiserazione, lo compromette ulteriormente facendolo passare per vanesio, così il poveraccio deve arrendersi e viene portato via.

Una grande sala del castello

Scena IX
Costanza è preoccupata per l’esito del duello, quando il Marchese (nei panni di Pasquale) le si para dinanzi avvertendola che – essendo a tutti sconosciuto - rimarrà lì in giro e le indicherà via via come comportarsi. Poi canta la sua determinazione a fare sua Costanza.

Scena X
Costanza è preoccupata che il Marchese si esponga troppo e rovini tutto. Lisetta arriva tutta affannata e annuncia: il Barone e il Marchese si sono incontrati in giardino!  

Scena XI
Arrivano il Barone e il Marchese (che il Barone non ha riconosciuto, come Costanza e Lisetta comprendono). Il Barone annuncia che il Marchese (Pasquale) verrà portato lì per essere interrogato.

Scena XII
Il Marchese (Pasquale) si presenta e subito ha un moto di sorpresa vedendo lì Lisetta, che da parte sua non sa trattenere lo stupore. Tutti se ne domandano la ragione e Frontino invita Lisetta a fingere che Pasquale sia il Marchese, cosa di cui si convince anche il Barone. Che chiede a Pasquale se intenda sposare la figlia. Il poveraccio risponde di sì, ma che lo fa per i suoi milioni! Il Barone lo fa accomodare in altra stanza con Lisetta, mentre lui se ne va con Costanza.

Scena XIII
Frontino e Lisetta si prendon gioco di Pasquale: il servo del Marchese gli canta sfacciatamente una dichiarazione d’amore per la cameriera di Costanza e se ne va.

Scena XIV
Lisetta e Pasquale restano soli. Pasquale, che crede Lisetta non lo abbia riconosciuto, cerca di presentarsi, pendendola alla lontana, ma Lisetta gli stronca ogni illusione, maledicendo il Pasquale che l’abbandonò dopo averle promesso di sposarla. Ora Pasquale si rivela apertamente, vantando il suo nuovo status di nobile, che le potrà dare ricchezze e onori. Lisetta finge di restare colpita dalle sue avance, ma quando lui se ne va, non manca di schernirlo.  

Scena XV (?) non indicata sul libretto

Scena XVI
Il Marchese annuncia a Lisetta che il Cavaliere, rimessosi dai postumi del duello, desidera incontrarlo. Contrariamente alla cameriera, lui sembra fidarsi del gentiluomo. Sopraggiunge di corsa Costanza annunciando l’arrivo del padre. Il Marchese e Lisetta escono.  

Scena XVII
Il Barone rimprovera la figlia per essersi invaghita del Marchese (Pasquale) che lui non è assolutamente disposto ad accogliere come genero. Costanza lo rassicura: alla fine tutto si aggiusterà, il suo amore avrà anche la benedizione del padre.

Scena XVIII
Restato solo, il Barone si interroga sul significato delle parole della figlia, poi, all’arrivo del Marchese (Pasquale), lo licenzia sdegnato e se ne va.

Scena XIX
Pasquale è raggiunto da Lisetta (e fugacemente dal Cavaliere). Sta cominciando a temere pericoli e pensa di svignarsela con la cameriera, promettendole nobiltà e ricchezze. Lei finge di seguirlo.

Scena XX
Sopraggiunge in gran fretta Frontino, che blocca la fuga dei due e poi notifica al suo (finto) padrone che su di lui si spargono voci assai compromettenti. Lisetta finge ancora di provare grande attrazione per Pasquale, rivolgendogli frasi appassionate, che però indirizza anche a Frontino, prima di lasciarli soli.    

Scena XXI
Pasquale si sincera che Frontino sia davvero e tuttora suo servitore. Alla risposta affermativa gli confessa di aver sentito in giro voci non proprio edificanti su di lui. Poi però si rassicura, e chiede al servo di aiutarlo a svignarsela, promettendogli ricchezze. Frontino chiama in causa Lisetta ed entrambi si avviano verso di lei.

Scena ultima
Il Cavaliere riconosce la nobiltà d’animo del Marchese (che nel duello, sparando in aria, gli ha risparmiato la vita) e si dice disposto a farsi da parte nella corsa a Costanza, avendo già convinto anche il Barone. Arriva Lisetta che annuncia la messinscena di uno scherzo ai danni di Pasquale, scherzo che dovrà peraltro avere conseguenze incruente. Lisetta canta la sua morale contro i maschi che troppo spesso si prendono gioco delle femmine. Arrivano Frontino e Pasquale, cui sono stati fatti indossare i panni di una anziana malconcia, per facilitarne la fuga. Ma arriva gente e a Pasquale viene consigliato di assumere atteggiamenti da vecchia in preda a crisi epilettiche. Al sopraggiungere di Barone, Marchese, Cavaliere e Costanza, Pasquale cerca maldestramente di fuggire, ma così rivelando a tutti la sua vera identità. Il Marchese racconta al Barone dello scambio d’abito con Pasquale (al momento del duello). Pasquale, assurdamente, chiede la mano di Lisetta, la quale lo smerluzza davanti a tutti per la sua passata infedeltà, notificandogli di aver già sposato Frontino. Pasquale balbetta ancora giustificazioni, poi si rassegna, mentre tutti gli altri annunciano un gran pranzo matrimoniale per festeggiare le due coppie che convolano a giuste nozze.
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Mah, un soggetto – a prima lettura – non propriamente entusiasmante, per non dire di peggio; che siamo tutti curiosi di giudicare vestito dalle note del grande Spontini. Teniamo presente che a Venezia (ma anche a Napoli e Roma) a cavallo del 1802 si era ancora lontani dalla strepitosa irruzione (1810) di un 18enne pesarese che letteralmente rivoluzionerà il genere farsa (e dopo di questo pure l’opera buffa e quella seria!) Un esempio di produzione musicale di quei tempi è questa farsa di Mayr, tutt’altro che disprezzabile, ma un poco troppo... prevedibile, ecco, senza veri spunti di genio.

Pasquale è verosimilmente l’ultima opera composta da Spontini prima del suo trasferimento in Francia, dove videro la luce quasi subito lavori di grande rilievo (Milton, La Vestale, Fernand Cortez) che decretarono l’incontrastato successo parigino del musicista marchigiano. È quindi di grande interesse scoprire se e quanto il Pasquale anticipi la successiva evoluzione francese di Spontini. E all’uopo si adopereranno Gianluca Capuano, che ha grande consuetudine con il ‘700 (non solo barocco) e strumentisti della Fenice, che supporteranno le voci di Irina Dubrovskaya, Michela Antenucci, Giorgio Misseri, Christian Collia, Carlo Checchi, Franceesco Basso e di Andrea Patucelli (nel ruolo-titolo).