Fra pochi giorni l’OF metterà in scena (impresa quanto mai ardua!) la rossiniana Semiramide, nell’allestimento del compianto Ronconi
presentato nel 2011 a Napoli. E fu proprio in occasione del trasferimento da
Napoli verso Parigi e l’Europa, in compagnia della sua Isabella, che Rossini,
di passaggio in laguna, dedicò alla città che lo aveva fatto conoscere al mondo
la sua opera forse più grande (quanto meno... fino all’arrivo del Tell); opera presentata in prima lunedì 3 febbraio 1823 alla Fenice.
Fu anche
l’addio di Rossini al librettista Gaetano
Rossi (che gli aveva fornito, sempre a Venezia, 13 e 10 anni addietro) i
testi della Cambiale e del Tancredi (due trionfi!) E proprio come
Tancredi, anche Semiramide fu ispirata da un’opera di Voltaire del 1748, Sémiramis, tragedia in 5 atti, 1682 versi in rima baciata.
Dramma e... melodramma! A volte si scambiano i
ruoli. Cosa c’è di più melodrammatico
di un moribondo tenore che, prima di tirare definitivamente le cuoia, si mette
a cantare l’aria più strappalacrime
dell’intera opera? Avete presente – tanto per citare solo Wagner e Verdi –
Siegfried e Otello? Bene, qui succede che nella tragedia di Voltaire la povera
(si fa per dire...) Semiramide, già mezza dissanguata per sbaglio da ben due
stilettate del pargoletto, dopo aver scoperto l’identità del suo uccisore si
produca in un nobile indirizzo per riconoscere la propria antica colpa,
dichiararsi meritevole della punizione estrema inflittale e infine congiungere
in matrimonio il ritrovato figlio e l’amata Azema, nelle cui mani consegnare il
futuro di Babilonia. Rossi-Rossini? Niente, Semiramide trafitta fa appena in
tempo ad esalare un Oh dio! e più non
emette suono. Tutto assai poco melodrammatico, ammettiamolo. (Per le
rappresentazioni parigine del 1825 Rossini rimaneggiò il finale per renderlo
più vicino a Voltaire, ma fu un’idea ben presto abbandonata.)
Le deviazioni di Rossi rispetto al dramma di
Voltaire non si riducono a questo (del resto lui già aveva manipolato il finale
del Tancrède, poi ripristinato per
Ferrara dal Lechi) e, almeno a prima
vista, pare inspiegabile come un soggetto così mirabilmente strutturato come
quello del grande letterato francese si sia potuto trasformare, nelle mani di
Rossi(Rossini) in un libretto mediocre, salvato solo dalle sontuose note del
pesarese.
Avec Voltaire tout-se-tient:
lì abbiamo la coppia di peccatori-criminali (Semiramide-Assur) che si
contendono il potere con tutti i mezzi; e la coppia di giovani puliti (Arsace-Azema) che – senza esser
mossi dalla minima bramosia di potere – coronano il loro sogno d’amore dopo aver
attraversato terribili momenti e ricevono in dono dal destino proprio quel
potere che mai era stato fra i loro obiettivi. Una specie di
Siegfried-Brünnhilde (del 1848) ante-litteram. In sostanza, un duplice lieto-fine: sul piano pubblico (Ninia che sale sul trono di
suo padre, finalmente liberato dall’ingombrante presenza di una spietata
uxoricida e del suo bieco sodale) e su quello privato, poichè Arsace può vivere felice e contento con la sua Azema
in virtù dell’amore che li unisce e
non, come sarebbe accaduto in assenza dell’uccisione di Nino, in forza di una decisione imposta a due infanti ancora
in culla! E poi abbiamo tanto di morale-della-favola che il severo ed austero
sacerdote Oroe ci propina in chiusura della tragedia: i criminali – soprattutto se potenti - possono magari sfuggire alla
giustizia umana, ma non a quella divina. E l’intero svolgimento dei fatti e
dei comportamenti di Oroe (ed anche dell’Ombra di Nino) altro non è, a ben
vedere, se non una sistematica e quasi scientifica trama divina volta a punire
Semiramide e Assur per il loro efferato crimine; non solo, ma a fare in modo
che a punire la madre sia proprio il figlio! (quanto ad Assur, per lui basta ed
avanza la giustizia umana...)
In Rossi-Rossini - sembra paradossale per un
melodramma – la coppia di amorosi (Arsace-Azema) viene invece separata in modo
e circostanze a dir poco grotteschi e la conclusione dell’opera ci propone un
prosaico e per nulla poetico trionfo della pura ragion-di-stato, perseguita quasi con protervia da un Oroe
rappresentante massimo della religione-di-stato.
Cosicchè il lieto-fine conserva solamente il risvolto pubblico, chè sul piano privato
(leggi: dei sentimenti) il povero Arsace ridivenuto Ninia resta lì tristemente
- da solo e senza la persona amata - a (non) godersi il trono: una vita
letteralmente rovinata!
Può anche darsi che questo stravolgimento del
soggetto sia stato deliberatamente messo in atto da librettista e musicista per
manifestare una qualche (più o meno plausibile) critica della società loro
contemporanea: una critica alla corsa al potere fine a se stesso, al clima di
perenne instabilità (alla faccia di Metternich) dell’Europa di quel tempo, alle
lotte sotterranee fra pretendenti a troni e cancellerie. Sta di fatto che ciò
che ne è uscito fuori è – sul piano artistico-estetico – un soggetto abbastanza
risibile. E non perchè infedele rispetto al riferimento originale: ciò non
sarebbe per nulla condannabile e tantomeno illegittimo, tutt’altro, come
dimostrano tanti esempi di opere musicali (ciò vale oggi anche per quelle
cinematografiche) che dall’infedeltà al modello originale hanno tratto solo
vantaggi. Un titolo su tutti: Carmen,
che Meilhac-Halévy-Bizet trasformarono da crudo soggetto verista (impensabile
da proporsi all’Opéra-comique) in una
commedia - anzi quasi un’operetta per più di metà del suo svolgimento - con
finale tragico. No, la debolezza del libretto di Rossi sta nella sua
farraginosità, conseguente a scelte (magari obbligate, come si vedrà tra poco)
che hanno introdotto elementi estranei, fuorvianti e destabilizzanti nel
coerente impianto voltairiano.
Ora, atteso che Rossi e Rossini non fossero gli
ultimi arrivati, resta da individuare una plausibile ragione che spieghi i loro
interventi decisamente peggiorativi sul testo di Voltaire. Per me esiste una
spiegazione squisitamente pratica, attinente a quello che possiamo definire il capitolato tecnico del melodramma ed in
particolare alla composizione del cast
degli interpreti. Proviamo ad esaminare i personaggi della tragedia voltairiana:
vi troviamo la protagonista (Semiramide) che per Rossini non poteva che essere
un soprano drammatico (e lui ne aveva
sottomano... ehm... sotto le lenzuola... l’esemplare più famoso!); poi abbiamo
l’alter-ego di Tancredi, quell’Arsace che perciò viene canonicamente e senza alcuna
esitazione affidato al contralto
en-travesti. Quindi Azema, la fanciulla contesa fra Arsace e il cattivone
Assur (il quale sarà necessariamente un basso):
lei sarà, come deciso da librettista e compositore, un mezzosoprano piuttosto leggero (ma alcune edizioni la indicano come
soprano); quindi ancora il cupo
sacerdote (Oroe) che pure un basso
dovrà essere, così come la voce cavernosa dell’Ombra di Nino. Gli altri personaggi
di Voltaire (Mitrane, Otane e Cédar) sono dei comprimari, tanto che gli ultimi
due vengono bellamente ignorati dal libretto, mentre il primo, che canta in
tutto pochi versi, sarà un tenore. Fine del menu.
Ohibò, ma qui ci manca qualcosa, anzi qualcuno di essenziale: il primo tenore, l’amoroso, perbacco! E come si può proporre un’opera che non preveda
un ruolo così necessario e insostituibile, ruolo da gratificare come minimo di
un paio di arie di quelle toste,
oltre che di duetti e terzetti? Ecco quale dev’essere stato lo scoglio, a prima
vista insormontabile, per la coppia Rossi-Rossini. E per superare tale scoglio
non c’era che una strada: inventare
di sana pianta un nuovo personaggio
cui affidare la parte del primo tenore!
Ma dato che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che questa
decisione ha necessariamente indotto tutta una serie di ulteriori interventi e
rabberciamenti del plot, con nefaste
conseguenze anche sulla sua valenza e consistenza estetica.
Così ecco arrivare direttamente dal Gange un Re
indiano, tale Idreno, che
inspiegabilmente (o no, forse no...) invece di concorrere per la mano
dell’attempata vedova Regina, si innamora fulmineamente e perdutamente della
giovane gnocca Azema, diventandone addirittura il terzo pretendente, dopo il pipistrello
Assur e l’eroico Arsace. Questo quadrilatero
sentimentale (scenario piuttosto inconsueto, diciamolo pure: mezzosoprano
contesa da basso, tenore e contralto!) c’entra con il soggetto dell’opera come
i classici cavoli a merenda, salvo servire al Gioachino come pretesto per
propinarci qualche minuto (anzi, quarti d’ora!) di grande musica, ecco.
Peccato che il tenore-inventato-di-sana-pianta
ben presto diventi un intruso piuttosto ingombrante da gestire: che fine gli
facciamo fare? devono essersi chiesti Rossi e Rossini. Annegato mentre si prende un bagno nell’Eufrate? (ma come, uno che viene dal Gange dev’essere un nuotatore
provetto...); ammazzato per sbaglio (al posto di Arsace) dal cattivone Assur?
(ma quanti omicidi fortuiti devono accadere in una sola opera?) O rispedito
d’urgenza in India a fronte di un sms
del suo vicerè?
La soluzione trovata ha davvero del grottesco: e si
materializza quando Semiramide annuncia il suo prossimo matrimonio
(inconsapevolmente, ancora, incestuoso) con Arsace (che ha la metà degli anni
della mammina e comprensibilmente stravede solo per Azema). Ecco che allora
Idreno si sente in diritto (essendo nel frattempo anche Assur finito in
fuori-gioco) di prendersi lui la bella gnocca. La quale, pora tapina, dopo aver
in un primo tempo maledetto persino Semiramide per averle rubato il suo
amatissimo Arsace, e mentre i cori già celebrano la felicità della loro unione,
pare sottomettersi neanche troppo di malavoglia all’indiano. Ma come fare per
renderci più plausibile questo suo non-rifiuto, che fa di lei, ai nostri occhi,
una donna piuttosto volubile e leggera (quando invece, in Voltaire, lei vive
solo per il suo Arsace)? Ecco: il librettista aveva già preparato per tempo il
terreno, facendoci capire come Idreno non stesse poi troppo antipatico alla
bella Azema, se è vero che, a fronte della di lui dichiarazione d’amore, lei ci
aveva confessato che l’indiano occupava chiaramente la seconda posizione nel suo cuore (!?)
In ogni caso, da lì in poi (non siamo nemmeno a metà
del second’atto e mancano ancora più di 50 minuti di musica!) mezzosoprano e
tenore (che si è appena esibito in una cabaletta con coro in LA maggiore e
magari – se ce la fa – si è pure inventato un paio di DO# sovracuti) svaniscono
letteralmente nel nulla, spediti a forza chissà dove in luna di miele. Passi
per Idreno, che il suo contributo sindacale all’opera lo ha già doverosamente e
ampiamente versato, ma l’uscita di scena, con lui, di Azema si porta dietro
altre conseguenze negative (ma anche positive, va detto) e stupide
incongruenze.
Fra le prime, ovviamente, è la caduta del ruolo
importante che Azema ha nel 4° e 5° atto di Voltaire, dove è lei a spiare e
smascherare Assur agli occhi di Semiramide. Rossi qui peraltro inventa la
mirabile scena delle visioni e degli incubi che assalgono Assur alla vista
della tomba di Nino. Sparisce però (e ciò è di incalcolabile gravità) anche il
fondamentale incontro fra Azema e Arsace, che avrebbe potuto ispirare a Rossini
nientemeno che un drammaticissimo duetto fra due innamorati travolti da
avvenimenti più grandi di loro (Rossi-Rossini decisero quindi di introdurne
ex-novo un altro, pure straordinario, ma fra una coppia di... attempati
rancorosi: quello Semiramide-Assur che apre il second’atto.) In quell’incontro Azema
rimprovera Arsace per la sua decisione di accettare la mano di Semiramide, il
che ha convinto la giovane della fatuità dei sentimenti dell’amato. Che lei
provoca, invitandolo a sacrificarla per adempiere al suo compito. E allora ecco
che abbiamo un colpo di scena, quando Arsace le confessa che in ogni caso loro
due non potrebbero rimanere uniti: voci segrete dal tempio (evidentemente...
Oroe) gli hanno rivelato che Ninia vive e sta ritornando in Babilonia! E a
Ninia, fin dalla culla, è destinata proprio Azema, che quindi mai potrà essere
sposa di Arsace, il quale dovrà invece servire il suo sovrano.
Ora, cosa risponde qui Azema a questa sensazionale
rivelazione? Bene, che Ninia arrivi, si palesi a me e a sua madre... ma anche
dimostrasse per me lo stesso amore tuo, mai potrebbe estorcere dalla mia anima
un’abiura! Piuttosto, io financo calpesterei lo scettro che fosse posto ai miei
piedi! Perchè, Arsace, io vivo solo per te, e se tu tradisci il nostro amore, sarai
per me l’unico colpevole qui dentro! ... Accipicchia! Una determinazione assoluta, che
fa di Azema una donna di principi e sentimenti inossidabili, laddove nel
libretto di Rossi, come abbiamo visto, la sua figura degrada a quella di una
povera donnicciuola sballottata dai marosi del destino, e quindi liquidata
anzitempo e senza misericordia...
La cassazione della suddetta scena ha provocato poi
nel libretto di Rossi un’evidente (per quanto veniale) falla: quando Oroe, prima di rivelargli la sua vera
identità, incorona Arsace con il serto di Nino, Arsace lo rifiuta mostrando di
sapere che Ninia esiste... particolare a noi noto in Voltaire, ma qui del tutto
gratuito ed inspiegabile, essendo appunto mancata in precedenza la scena con
Azema.
A proposito di rivelazioni,
in Voltaire troviamo una sequenza assai articolata, che Rossi semplifica molto,
sempre a causa della prematura liquidazione di Azema: dapprima (1) quella già
segnalata di Arsace ad Azema (Ninia vive); poi (2) quella di Oroe ad Arsace
(Ninia sei tu); quindi (3) quella di Arsace a Semiramide (sono tuo figlio) e
infine (4) quella di Semiramide ad Azema (Arsace è Ninia). In Rossi rimangono
forzatamente soltanto la (2) e la (3). Ma soprattutto la sparizione di Azema
lascia il povero Arsace-Ninia con un pugno di mosche, a fronteggiare da solo i
grattacapi del trono: come finale mi pare proprio miserello.
E a proposito di finale, ben diversamente
strutturate (a vantaggio, toujours,
di Voltaire) sono le due scene-madri
che hanno come teatro l’inaccessibile tomba di Nino. Partiamo dal francese:
Semiramide, avvertita da Azema che Assur si prepara a violare la tomba per
farci secco Arsace, comprende che questo è il momento che l’Ombra di Nino ha
scelto per chiamarla a sè, giù nel sottosuolo. Quindi si arma e scende, per
proteggere Ninia da Assur. Azema da parte sua cerca di dissuadere Ninia
dall’impresa, temendo che lui finisca vittima di Assur, ma ciò ancor più
convince il giovane a scendere nella tomba per punire l’omicida di suo padre.
Orbene, noi veniamo a sapere – a cose fatte – che Assur non ha fatto in tempo a
penetrare laggiù: lo certifica Otane (guardia del corpo di Semiramide) che lo
ha arrestato (su mandato di cattura della Regina) proprio mentre cercava di
inoltrarsi nel luogo proibito. Ergo giù nella catacomba immersa nell’oscurità
si trovavano soltanto Ninia e Semiramide! E quindi l’uccisione, per quanto
involontaria, della madre da parte del figlio era l’unico possibile esito della vicenda, come precisamente programmato
dalla volontà divina, di cui Ninia doveva essere l’inconsapevole esecutore. Chapeau, monsieur Voltaire!
Il finale di Rossi, ahinoi, sa invece quasi di farsa
(o di commedia, tipo la scena notturna nel giardino delle Nozze mozartiane). Nella catacomba inaccessibile sono infatti penetrati:
uno stuolo di Magi, che si nascondono sotto le volte; Semiramide, in difesa del
figlio; Assur, per far secco Arsace (ancora non sa essere Ninia) e poi Ninia
stesso e Oroe! Quindi abbiamo una vera e propria pantomima, con tre personaggi
che si aggirano alla cieca (par di vederli: chi avanzando, chi rinculando, chi
ruotando su se stesso) alla ricerca dell’avversario da infilzare e nel
frattempo trovano modo di cantare un ultimo – strepitoso, dobbiamo dirlo -
terzetto (!) Finchè il supremo volere degli dei deve essere, per così dire,
pilotato dal Sommo Sacerdote, che ordina il fuoco!
a Ninia proprio quando vede la madre pararsi davanti al figlio! Beh, vien quasi
da sorridere...
Ma a noi sta bene così, e del resto proprio Voltaire
era il primo a riconoscere che il teatro musicale si può permettere qualunque
bizzarria, poichè lì ciò che conta è la musica, il resto è accessorio. E Rossini
ciò ben sapeva da sempre, e quindi anche quando scrisse le sue mirabili note su
un improbabile testo come quello del Rossi.
___
(1. continua)
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