Ancora e sempre Russia (non
sovietica, però...) in Auditorium, con il gradito doppio ritorno del sempre più
convincente Stanislav Kochanovsky e
della russo-tedesca Lilya Zilberstein
in un programma tutto dedicato a Rachmaninov.
Meglio sarebbe dire: ai due Rachmaninov. Che sono quasi due
compositori diversi, divisi da quel drammatico evento (il clamoroso fiasco
proprio della sua Prima Sinfonia, che si ascolta in chiusura del concerto) che
gettò Rachmaninov in uno stato di prostrazione tale da sconvolgerne l’esistenza
e poi – una volta rimessosi in sesto grazie alle cure di un... medico dei matti
– lo portò a riprendere il cammino artistico su una strada praticamente opposta
a quella (di apertura e modernità) che aveva cercato di imboccare prima del
fattaccio. Una strada tutta rivolta indietro verso l’800, proprio mentre la
musica, nel ‘900, imboccava sentieri magari impervi e pericolosi, ma sicuramente
innovativi.
E una delle pietre miliari
della sua produzione post-crisi è proprio il famigerato Rach3 che si ascolta in
apertura del concerto. Sulla cui sostanza mi ero già dilungato circa tre anni
fa in occasione di un’esecuzione di Colli-Temirkanov,
e perciò rimando i curiosi a quel commento.
La Zilberstein (qui una sua performance di
13 anni orsono con Frühbeck-DeBurgos
agli Arcimboldi-Scala, preceduta da alcune sue interessanti esternazioni) ne dà
una lettura proprio carica di quel (tardo)romanticismo che impregna questa
partitura, fin dall’attacco dolente del primo tema. Splendidi i virtuosismi
della cadenza (la prima e più corposa delle due originali) mentre qualche rara svirgolata
nei tremendi passaggi a otto (!) tasti da toccare contemporaneamente non ha
intaccato una prestazione di eccellenza, accolta trionfalmente da un pubblico
tornato a livelli delle grandi occasioni, dopo la... vacanza della scorsa
settimana. Niente bis (ma lei non ne
concede spesso) anche perchè la fatica spesa in questo estenuante concerto si
leggeva chiaramente sul suo volto.
___
Dopo l’intervallo, ecco la
sfortunata Prima, sulla quale avevo
scritto alcune note nel marzo 2013, a fronte di un’esecuzione di Noseda alla
Scala. Sarà pure acerba fin che si vuole, anche velleitaria (ci si
sentono Ciajkovski, Scriabin, vi si anticipa persino Mahler) ma è musica
davvero diversa, il cui solo peccato
(ebbrezza alcolica di Glazunov a
parte) fu probabilmente quello di essere fin troppo originale (per l’anno di grazia 1897) se ancor oggi ci appare
ostica ed enigmatica da decifrare, ma proprio per questo interessante.
Kochanovsky l’ha diretta con grande profondità,
mettendone proprio in risalto tutti i pregi e difetti, senza attenuarne le
grossolanità e i momenti di retorica, che però non oscurano un disegno
complessivo di tutto rispetto: insomma, siamo di fronte ad un frutto ancora
acerbo ma, invece di farlo maturare, purtroppo l’albero si metterà a produrre
frutti direttamente... passati, ecco.
Grande prestazione dei
ragazzi dell’orchestra (ieri guidati da Dellingshausen)
davvero in stato di grazia, in tutte le sezioni.
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