La Scala sta ospitando una delle opere più affascinanti di Benjamin Britten: The turn of the
screw, arrivata ieri alla quinta delle sette rappresentazioni. Come
personalmente io vedo i tratti fondamentali dell’opera, anche in relazione al
racconto ispiratore di James, ho già avuto modo di esprimerlo anni fa, in
occasione di un allestimento veneziano, e a quel commento
rimando le falangi (?!) dei curiosi.
Parto dalla prima scena del second’atto (occupata dall’incontro fra i due fantasmi e chiusa dalla sconfortata confessione dell’Istitutrice) che ha il suo culmine nella famosa esternazione di Quint (poi di Jessel e quindi di entrambi): The ceremony of innocence is drowned:
Non viene per nulla da
James, ma è un verso preso di peso da una poesia di William Butler Yeats del 1919 (The
second coming, Il Secondo Avvento)
scritta subito dopo la Grande Guerra
e la Rivoluzione d’Ottobre, che erano
stati eventi di inaudita ferocia (il primo) e di violenta sovversione (il
secondo):
William Butler Yeats - 1919
Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer; Things fall apart; the centre cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world, The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere The ceremony of innocence is drowned; The best lack all convictions, while the worst Are full of passionate intensity. |
Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere; le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere; pura anarchia dilaga sul mondo, l’onda intorbidata di sangue dilaga, e ovunque il rito dell’innocenza viene sommerso; nei migliori manca ogni fede, mentre i peggiori sono colmi di fervente ardore. |
Yeats ci vedeva il prevalere dei peggiori istinti bestiali (oggi si
incarnano nell’ISIS, per dire) sui sani principii (l’innocenza) che dovrebbero governare le civiltà umane. Nel libretto
della Piper il concetto (evidentemente condiviso e magari suggerito da quell’anti-militarista-obiettore-di-coscienza
che rispondeva al nome di Britten) viene trasportato a livello privato: i fantasmi
Quint&Jessel sono i peggiori, ma dotati
di spietata decisione, mentre i migliori
(l’Istitutrice) hanno perso ogni fiducia nel bene (Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità, su di me incombono
solamente le pareti nebbiose del male, confessa la poveretta).
Questo rapporto di
sopraffazione dei cattivi sulla buona viene dal regista Kasper Holten proposto lungo l’intero
corso della storia, ma smaccatamente mostrato all’inizio del second’atto,
proprio nella scena in cui si proclama che il rito dell’innocenza viene sommerso.
L’Istitutrice, che già di suo è preda di oniriche visioni da incubo, si ritrova
ai suoi fianchi, nel letto, i due fantasmi che, appunto, la sommergono con le loro tentazioni.
È questo certamente il
momento-clou della messinscena di Holten, tutta incentrata sulle turbe
psichiche dell’Istitutrice, che diventa paradossalmente la cattiva della situazione, facendo prima ammattire Flora e spingendo
poi Miles al suicidio: a proposito l’ultima scena mi è parsa davvero...
spropositata, con il ragazzo che urla Peter Quint, you devil! proprio abbaiando contro l’Istitutrice,
per poi correre a buttarsi dal secondo piano per sfracellarsi al suolo, dove
verrà raccolto in una pozza di sangue dalla povera schizofrenica... Mah!
Avendo dato la priorità alla
schizofrenia dell’Istitutrice, vengono fatalmente messi in secondo piano gli
aspetti che verosimilmente stavano più a cuore a Britten: non è un mistero che
il compositore fosse particolarmente e in primo luogo interessato a presentarci
la problematica legata ai rapporti fra adulti e adolescenti (con annesse
implicazioni omosessual-pedofile); problematica assai più scabrosa di quella
legata alla labilità psichica di una donna chiaramente impreparata ad
affrontare certi compiti e quindi facilmente suggestionabile. Insomma: nel
soggetto di Piper-Britten il piccolo Miles deve essere stato vittima delle vessazioni materiali di un adulto maschio vivo (poco importa che poi
torni o no da morto...) e non delle paranoie di una donnicciuola bigotta e
inesperta di tutto (massimamente di sesso). Non altrimenti si spiega come
Miles, assai prima dell’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato cacciato dalla
scuola a causa di suoi comportamenti irriferibili, ma chiaramente spiegabili
soltanto con la frequentazione di cattive
compagnie... E che il rapporto Flora-Jessel, pur esso preesistente
all’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato tutt’altro che limpido ce lo
confermano le parole della governante quando narra dei vaneggiamenti onirici
della piccola, e si convince a portarla via da quella casa.
E poi che i fantasmi (come
minimo quello di Quint) non siano soltanto proiezioni della psiche alterata
dell’Istitutrice ce lo conferma un indizio assai scoperto: dalla sommaria
descrizione che l’Istitutrice medesima fa della persona comparsale davanti già
due volte (e mai vista prima) Mrs.Grose decifra senza alcuna esitazione l’identità
di Peter Quint! Dopodichè vuota il sacco su una serie di fatti e comportamenti
riprovevoli di cui lei stessa era stata testimone, protagonisti Quint e Jessel.
Ecco quindi che un aspetto
fondamentale del soggetto originale qui viene messo in secondo piano, poichè
continuamente schermato dalla presenza ingombrante e soffocante dell’Istitutrice
e della sua psiche malata: ne è chiaro esempio la scena finale del primo atto, al
centro della quale vi è proprio l’Istitutrice, che pare quasi telecomandarla (o
magari immaginarla in sogno) invece di sopraggiungere solo a cose fatte (gli abboccamenti fra i due fantasmi e i due
fanciulli).
Insomma, una lettura, quella
del regista danese, a mio modo di vedere troppo sbilanciata sul versante freudiano, che rappresenta una parte, ma
non il tutto del racconto di James e ancor meno centrale (per quanto rilevante)
è nel libretto dell’opera.
Vanno apprezzate le scene, con la suddivisione dello spazio in celle di
dimensioni diverse: due grandi, sovrapposte, che occupano il centro e il lato
sinistro del palco, e traslano in verticale per scoprire o far scomparire un
sotterraneo (ambientazione del lago) che comunica con il salone del maniero
attraverso una scala a chiocciola; e tre piccole sovrapposte e fisse sul lato
destro, che rappresentano le camere dei due piccoli e della governante. Così diventa
efficace mostrare al pubblico anche quei personaggi (i fantasmi) che spesso
devono essere invisibili agli altri protagonisti. Inoltre, la chiusura alla
vista, ottenuta con pareti mobili, consente al regista di zoomare quando necessario su una sola (o alcune) delle celle.
Costumi e luci
contribuiscono a creare efficacemente le ambientazioni delle diverse scene:
certo, gli aspetti (pur non trascurabili, anche perchè magistralmente
sottolineati dalla musica) legati alla natura
(il tramonto, il lago...) vengono qui totalmente ignorati, in un
bianco&nero permanente e soffocante. Qualche eccesso, come il già citato
suicidio di Miles, e un manichino (? della governante?) che pende impiccato dal
soffitto durante il Prologo si potevano evitare, credo.
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Ottime notizie sul fronte
dei suoni, dove i magnifici 13 strumentisti
della Scala, tutti di fatto dei solisti
in questa partitura da camera, si meritano un encomio per l’accuratezza della
loro esecuzione. Christoph Eschenbach
li ha guidati con la sua proverbiale e maniacale attenzione ad ogni dettaglio: molto
opportuna quindi la loro apparizione finale sul palcoscenico, a prendersi i
meritati applausi insieme ai protagonisti vocali, tutti indistintamente da
lodare, grandi e soprattutto piccoli!
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Ultima nota (dolente):
pubblico scarso e smagritosi ulteriormente all’intervallo; captati qua e là commenti
irriferibili sull’inclusione di questo titolo nel programma in abbonamento. Che
dire? In questi casi torna sempre e invariabilmente la nostalgia per la cara Piccola Scala (ambiente semplicemente
perfetto per questo tipo di rappresentazioni) e la rabbia per la fine che le è
toccata... amen.
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