XIV

da prevosto a leone
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02 dicembre, 2017

Milano Musica chiude all'Auditorium


Largo Mahler ha ospitato ieri una delle tappe (anzi l’ultima, che si replica domenica) della rassegna Milano Musica, dedicata come sappiamo a Salvatore Sciarrino. Del quale era in programma la prima esecuzione italiana del Libro notturno delle voci, una specie di eterodosso Concerto per flauto dedicato all’esecutore di oggi, Mario Caroli (speriamo il flauto non si offenda, e nemmeno il concerto...) del 2009.

L’opera (!) si suddivide in tre parti, con tanto di sottotitoli:

1. In val d'abisso
2. Fauci dell'emozione
3. Mario Caroli e l'iridescenza di un Re

Purtroppo nè i titoli, nè (soprattutto) i contenuti musicali ci aiutano a distinguere chiaramente una parte dall’altra. Quindi possiamo sentenziare trattarsi di un’opera caratterizzata da grande unità tematica...

Sciarrino si è specializzato nel riprodurre in musica qualunque tipo di suono(/rumore) in ciò prendendo spunto dalla filosofia di Mahler (a proposito dei suoi Naturlaute) ma portandola all’estremo. Così non ascoltiamo più i classici cuculi, o le melodie stiracchiate di un violino di strada, o i campanacci di vacca su un alpeggio... ma arrivano alle nostre orecchie muggir di buoi, latrar di cani o miagolar di felini in calore, per citare solo qualche esempio. Poi ci sono anche sirene antifurto, porte metalliche di vecchi ascensori che sbattono, sinistri cigolìi, sgocciolar di rubinetti guasti... tutti suoni che rompono il silenzio notturno, ci pare di udirli nel dormiveglia, ritmato dal respiro affannoso di due violoncelli.

Il flauto qui è usato nel primo movimento come un fischietto di quelli che un tempo corredavano i nostri vestitini da marinaretto; nel secondo come strumento per produrre... starnuti; e nel terzo per emettere il suono che si ottiene naturalmente soffiando in una canna di bambù.

Che dire, restarne rapiti? Farci prendere da esasperazione? Sghignazzarci sopra? Beh, ognuno si attrezzi un po’ come gli pare... c’è libertà di scelta, di gusti e di critica; e per fortuna (dei compositori, soprattutto) non c’è in giro nessun nipotino di Zdanov, ecco. Però dobbiamo riconoscere che qualche progresso si è compiuto: rispetto alla registrazione della prima assoluta in terra tedesca (citata più sopra, del 2009) ieri la durata del brano ha superato di poco i 25 minuti. Grazie!

PS: Caroli deve avere comunque un buon rapporto con il suo flauto: per farsi perdonare di averlo bistrattato a quel modo, ha concesso un bis dove lo strumento è stato impiegato precisamente per lo scopo per il quale fu inventato: emettere suoni e non rumori (!)
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La serata era stata aperta (come da prassi che vuole che, in presenza di un brano moderno, gli si anteponga uno di tradizione, per in qualche modo obbligare il pubblico a sorbirsi il moderno...) da Ravel, con la sua Valse, ovviamente in versione orchestrale. Si tratta di un grottesco sberleffo alla Vienna presuntuosa e godereccia di metà ‘800, dove sentiamo raffinate atmosfere impressioniste intercalate a volgarità da fetida balera… Però il tutto è sempre un piacere per l’ascolto, e qui difficilmente si pone il problema di come reagire di fronte a ciò che arriva alle nostre orecchie. Va da sè che i ragazzi (e Angius ovviamente) han dato il loro fattivo contributo alla riuscita dell’impresa..
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Dopo la pausa ecco Debussy, con in suoi tre Nocturnes, una particolare variante di musica-a-programma.

Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Chissà se quella specie di Dies Irae esposto da clarinetti e fagotti è un riferimento voluto o casuale... 

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes si riallaccia in quache modo a Sciarrino, che ha trattato il mito di Orfeo più volte, non ultima la sua recente opera data in prima mondiale alla Scala. In più, è davvero raro ascoltare questo brano in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): così è un merito de laVerdi (che un coro, e coi fiocchi, ce l’ha) averci fatto questo bel regalo. Per la cronaca Angius ha schierato le signore di Erina Gambarini proprio in mezzo all’orchestra, scelta appropriata data la natura degli interventi canori.
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Ha chiuso la serata un ennesimo bolerodisciarrinoravel, che il tamburino militare del solito Ivan Fossati (rimastosene stavolta in piccionaia fra i colleghi percussionisti, invece di accomodarsi davanti al Direttore, come fa di solito) ha scandito imperterrito, dalla prima all’ultima battuta. Anche questa è musica discutibile e persino offensiva nella sua struttura, eppure - chissà mai perchè? - la si ascolta sempre con gran trasporto e alla fine la sala addirittura trema sotto lo scrosciare degli applausi.   


Ma ora vedo profilarsi minacciosa all’orizzonte un’affilatissima ghigliottina...

01 novembre, 2014

Il Quartetto di Cremona a MilanoMusica

  

L’Auditorium SanFedele ha ospitato ier sera il sesto dei dieci concerti del 23° Festival (Percorsi di musica d’oggi 2014).

Siccome a me non piace usare giri di parole o espressioni politically-correct o, peggio, ipocrisie, dico subito che mi sono recato al concerto esclusivamente perché l’ultimo dei brani in programma era (in origine almeno) l’ottavo quartetto di Shostakovich, poi rimpiazzato dal decimo, che personalmente metto un filino al di sotto dell’altro, ma sempre grande musica è.  E come fioretto per meritarmi quel premio ho ascoltato, con vivo interesse ed altrettanta delusione, gli altri tre brani in programma.

Il primo dei quali era un altro quartetto, il Terzo, di Helmut Lachenmann (nato nel 1935) che è sottotitolato Grido, composto nel 2001. Qui lo si può ascoltare eseguito dai dedicatari del Quartetto Arditti (1., 2., 3.) A Lachenmann Alex Ross dedica ben… una pagina del suo The rest is noise, prima per citarne una specie di programma etico (La mia musica si occupa di un negazionismo rigidamente strutturato, con esclusione di ciò che mi appare come l’aspettativa di ascolto che si forma nella società); poi per ricordarne le idee di estrema-sinistra-estrema, che si materializzano (nel libretto della sua opera La piccola fiammiferaia) persino in una citazione della terrorista Gudrun Ensslin, della banda Baader-Meinhof (Rote Armee Fraktion), che inneggia a se stessa e ai suoi complici come distrutti che si ribellano alla distruzione; infine, bontà sua, gli riconosce di sapere ancora darci degli shock, dopo un secolo di rumore! A ribadire il concetto: di simili shock farei volentieri a meno, mi bastano ed avanzano quelli procurati da giornali, tv e web.

Ecco poi due pezzi di giovani (30enni) autori italiani, presenti in sala, composti a margine di una sessione di studio proprio con Lachenmann, e che gli interpreti avevano dato alla luce pochi mesi fa.

Dapprima ci viene proposto Come di tempeste di Daniele Ghisi. Sul suo sito, dove il brano può essere ascoltato nella sua interezza, il compositore ce ne descrive una specie di programma: che per fortuna ha come protagonisti quattro grammofoni, e non i quattro… elicotteri di funesta memoria… E va bene così (faccio per dire).

Poi Grammar Jammer di Alessandro Perini. Il titolo suggerisce un’intrusione non propriamente delicata all’interno di un discorso. Secondo Giorgio Pestelli il contenuto…  si riferisce alla funzione di disturbo o meglio di inceppamento esercitata su un flusso di parole o di note, alla ricerca di un rapporto tra suono e rumore entro i limiti di una grammatica che tende a costituirsi a partire da trasformazioni lineari di elementi diversi. Oh, così sì che si capisce tutto (stra-smile!) E no-comment.

Il pezzo forte – sì, almeno per me – della serata è stato il Quartetto n°10 di Dimitri Shostakovich. Un brano apparentemente disimpegnato, ma che in realtà lascia emergere tratti nobili e soprattutto, una narrativa chiara e convincente: che non ha bisogno di spiegazioni legate a grammofoni o ideologie assortite, perché si fa benissimo apprezzare come musica!

I quattro movimenti presentano temi ben riconoscibili ed efficacemente dialoganti: ci troviamo reminiscenze mahleriane (nell’Andante iniziale) e stilemi inconfondibili del compositore (i due Allegretti). Magistrale anche la passacaglia dell’Adagio, che ritorna, seguita dal tema del primo movimento, nella sezione conclusiva (in Andante) del quartetto, che viene così ad assumere anche caratteri di ciclicità.

I cremonesi si sono confermati compagine di grande valore e il successo è stato pieno, in un SanFedele che vedeva deserte pochissime delle sue 350 (circa) poltrone.