XIV

da prevosto a leone
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21 aprile, 2016

La cena degli obbrobri (di Martone)

 

Arrivato il mio turno in abbonamento (sennò, lo dico subito, al Piermarini stavolta non mi ci vedevano proprio, chè avrei dato il mio modesto contributo al computo degli innumerevoli posti vuoti in sala) eccomi a riferire della ripresa alla Scala, dopo nemmeno 92 anni (!) dell’ultima opera verista di Umberto Giordano: La cena delle beffe.  

Questa musica è di quelle che non ti fan venire la pelle d’oca, non ti sbudellano e non ti fanno piangere (nè ridere, per la verità). Insomma, entra dall’orecchio sinistro per uscire dal destro senza averti lasciato int-’a-capa tracce indelebili. Ma anche senza aver fatto danni cerebrali irreparabili, e di ciò va dato atto al compositore.

Carlo Rizzi per la verità non ci prova nemmeno ad aggiungere del sale, o pepe, o melassa agli ingredienti previsti dalla ricetta, e quindi raggiunge in pieno il risultato di cui sopra. Con l’aggravante di appiattire il tutto sul forte, salvo pochi squarci di... fortissimo.   

Il cast vocale è per definizione alle prime armi con quest’opera (gli specialisti di essa sono in pensione da tempo...) e quindi i cantanti fanno ciò che possono (e anche vogliono, a giudicare dai risultati) sicuri che nessuno potrà smentirli opponendo esempi di attualità. Anche loro sembrano seguire le orme del Direttore, e così di espressione, sensibilità e simili bazzecole non se ne parla proprio (salverei solo Alaimo, che peraltro non ha una voce proprio adattissima al ruolo di Neri e infatti mi dà l’impressione di scurirla artificiosamente). Insomma, tutti quanti concorrono a rendere abbastanza insopportabile una musica che è già di per sé indigeribile.
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Ho intitolato la mia cronaca scrivendo di obbrobri del regista. E non a caso, poichè davvero Mario Martone (recidivo oltretutto, vedi lo sfigato Oberto di 3 anni fa) ha equivocato totalmente la natura del soggetto. Quindi: se lo ha fatto in buona fede, merita di tornare a studiare per bene il libretto di Sem Benelli e di restituirci il maltolto; in caso contrario, sarebbe passibile di denuncia per adulterazione e contraffazione di prodotti preziosi o artistici (o pseudo- nella fattispecie) come chi smercia Lacoste, o Rolex, o VanGogh, o financo Fiat farlocche, ecco.

Il problema non è – al solito – il diritto del regista alla trasposizione geo-temporale del soggetto. Il che è tollerabile e financo apprezzabile, a patto però che del soggetto vengano conservate le fondamentali caratteristiche, e non soltanto la sottile epidermide che lo ricopre.

E di che tratta il testo di Benelli? Di una storia maturata sullo sfondo della rivalità fra rampolli di famiglie-bene; che ha come moventi il tasso di virilità e il possesso esclusivo o condiviso di qualche femmina dai costumi più o meno facili; rivalità che degrada dal piano poco più che goliardico a quello cruento, provocando gelosie, picche e ripicche, scherzi-da-prete e sentimenti di vendetta sempre più parossistici, fino a degenerare nel delitto e nel sangue. Quindi, gli effetti possono anche essere drammaticamente estremi, ma la causa che li ha generati è semplicemente risibile, proprio come per futili motivi di campanilismo si ingenerano spesso faide sanguinose fra contrapposte tifoserie.

Orbene, cos’ha a che fare tutto ciò con la criminalità organizzata? I mafiosi (a Manhattan come a Corleone) si dividono forse in cosche per contendersi qualche zoccola? O per stabilire chi ce l’ha più lungo? Ecco la domanda capitale da porre al regista, che in linea di principio nessuno potrebbe censurare per aver spostato di 700 anni in avanti e di 6.500Km a occidente il teatro della vicenda. Solo che lui non l’ha fatto per mettervi al centro una faida fra bande di giovinastri del Bronx (col che ci si sarebbe limitati a compiangere l’insulsaggine della trovata, visto che The warriors l’hanno già inventato altri) ma per lucrare sulla presunta pregnanza dell’ambientazione nel mondo del padrino, cosa che farebbe per definizione di un regista un genio! Mamma mia... E pensare che allora la soluzione di più profonda attualità era qui, a portata di mano, e proprio a Firenze! Bastava guardare un pochino dentro e fuori il giglio magico o a casa di Denis (tera-smile!)

Naturalmente non mancano nello spettacolo arditissime trovate, perchè bisogna pur ricordare al gentile pubblico (bue) che questa è un’opera verista, e cosa c’è di più verista del porno? Così ci sorbiamo la Cintia che si fa un solitaire eccitata dagli amplessi di Ginevra con Giannetto e poi la medesima Ginevra che accenna un - siamo a Manhattan, eh! - blowjob (in slang: fellatio) per farsi perdonare da Neri il suo tradimento. Evabbè... 

Non parliamo poi del rispetto che Martone dimostra per la musica. Giudicandola (e qui non ha tutti i torti) insignificante, si permette però di irriderla, facendo fermare l’intera orchestra, prima del celestiale accordo di SIb maggiore che si ode al calar del sipario, per propinarci una ben assestata salva di colpi di mitraglietta esplosi dalla santarellina Lisabetta, trasformatasi nella circostanza in vendicatrice dei torti subiti da tutte le femmine dell’universo. Evvai! Così quando metterà in scena Parsifal (ma speriamo... mai) farà entrare Kundry nella sala del Gral, armata di kalashnikov, per compiervi una carneficina (o questo finale l’ha già inventato qualcun altro?)

05 aprile, 2016

Chi non beve con me... serpente diventi

 

C’è una specie di (casuale o concordato, non saprei dire) filo rosso che collega di questi tempi Scala e Regio di Torino. Si tratta della riproposta di due titoli piuttosto desueti del novecento (‘20-‘30) italiano: La cena delle beffe di Giordano alla Scala e La donna serpente di Casella a Torino. In entrambi i casi le rappresentazioni in teatro vengono affiancate da iniziative diverse, volte a promuovere vuoi il titolo in programma (Milano, dove è stato proiettato nel Piermarini il film di Blasetti del 1942) o la figura del compositore (Torino, con il Festival-Casella). Ecco, questa necessità di attirare in tutti i modi l’interesse del pubblico rappresenta di per sè un’implicita ammissione del valore non proprio eccelso di quei titoli.

Però con alcune differenze: nel caso di Giordano – operista che deve la sua fama a Chénier e Fedora, venute alla luce quando ancora si era nell’800 -  si tratta di una delle opere decisamente minori, abbarbicata ad un verismo ormai decrepito ed oltretutto zavorrata da un libretto che magari 90 anni fa poteva ancora suscitare entusiasmi, ma che oggi fa francamente ridere...

Invece per Casella le cose stanno in modo un filino diverso: intanto lui non era propriamente un operista, e quindi concepiva la musica come arte pura, e non come supporto sonoro a drammi, men che meno a storie veriste. E il soggetto della sua prima e quasi unica opera fu volutamente individuato in una fiaba, quindi un soggetto fantastico che desse modo al compositore di liberare la sua ispirazione senza condizionamenti di sorta.

Insomma, si tratta di due riproposte che hanno in comune nulla più della data di nascita delle opere: delle quali la prima sostanzialmente guarda all’indietro, laddove la seconda perlomeno cerca di dire qualcosa di nuovo.  
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Domenica 3 aprile la Scala ha quindi ospitato la prima della Cena, ben 92 anni (!) dopo averla tenuta a battesimo con Toscanini. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che adesso lasciamo volentieri ai nostri pronipoti il piacere di risentirla nel 2108 (stra-smile!) Però è certo che siamo di fronte a qualcosa che è ben lungi dall’essere un capolavoro, e forse non è solo un caso se l’opera è praticamente caduta nell’oblio e se ne esistono soltanto tre edizioni in commercio (DeFabritiis-1955, Bonavolontà-1972 e Sanzogno-1988).

In attesa di assistere dal vivo, così da poter anche apprezzare (o criticare...) la messinscena di Martone, dirò che l’ascolto radiofonico non mi ha propriamente entusiasmato: discreta la prestazione dell’orchestra e la direzione di Rizzi, mentre gli interpreti principali mi son parsi un po’ a disagio, e non è una buona scusante il fatto che tutti fossero inevitabilmente alle prime armi con quest’opera: Marco Berti ha mostrato qualche problema di intonazione ed a volte è parso in difficoltà a sostenere la parte di Giannetto, oggettivamente dura, tutta incardinata sul famigerato passaggio. Non molto meglio si è portato Nicola Alaimo, che ha una voce chiara, adusa a Rossini ma che poco si attaglia ad un personaggio squisitamente verista come Neri. Passabile e non più la Ginevra di Kirstin Lewis, onesti gli altri comprimari.

Insomma, mi pare una proposta francamente discutibile, nulla a che vedere con le due opere del Verdi da galera che l’hanno preceduta nella stagione, meritandosi apprezzamenti quasi unanimi. Quanto alla prestazione complessiva, speriamo che le cose migliorino con qualche replica in più di rodaggio.