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05 aprile, 2016

Chi non beve con me... serpente diventi

 

C’è una specie di (casuale o concordato, non saprei dire) filo rosso che collega di questi tempi Scala e Regio di Torino. Si tratta della riproposta di due titoli piuttosto desueti del novecento (‘20-‘30) italiano: La cena delle beffe di Giordano alla Scala e La donna serpente di Casella a Torino. In entrambi i casi le rappresentazioni in teatro vengono affiancate da iniziative diverse, volte a promuovere vuoi il titolo in programma (Milano, dove è stato proiettato nel Piermarini il film di Blasetti del 1942) o la figura del compositore (Torino, con il Festival-Casella). Ecco, questa necessità di attirare in tutti i modi l’interesse del pubblico rappresenta di per sè un’implicita ammissione del valore non proprio eccelso di quei titoli.

Però con alcune differenze: nel caso di Giordano – operista che deve la sua fama a Chénier e Fedora, venute alla luce quando ancora si era nell’800 -  si tratta di una delle opere decisamente minori, abbarbicata ad un verismo ormai decrepito ed oltretutto zavorrata da un libretto che magari 90 anni fa poteva ancora suscitare entusiasmi, ma che oggi fa francamente ridere...

Invece per Casella le cose stanno in modo un filino diverso: intanto lui non era propriamente un operista, e quindi concepiva la musica come arte pura, e non come supporto sonoro a drammi, men che meno a storie veriste. E il soggetto della sua prima e quasi unica opera fu volutamente individuato in una fiaba, quindi un soggetto fantastico che desse modo al compositore di liberare la sua ispirazione senza condizionamenti di sorta.

Insomma, si tratta di due riproposte che hanno in comune nulla più della data di nascita delle opere: delle quali la prima sostanzialmente guarda all’indietro, laddove la seconda perlomeno cerca di dire qualcosa di nuovo.  
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Domenica 3 aprile la Scala ha quindi ospitato la prima della Cena, ben 92 anni (!) dopo averla tenuta a battesimo con Toscanini. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che adesso lasciamo volentieri ai nostri pronipoti il piacere di risentirla nel 2108 (stra-smile!) Però è certo che siamo di fronte a qualcosa che è ben lungi dall’essere un capolavoro, e forse non è solo un caso se l’opera è praticamente caduta nell’oblio e se ne esistono soltanto tre edizioni in commercio (DeFabritiis-1955, Bonavolontà-1972 e Sanzogno-1988).

In attesa di assistere dal vivo, così da poter anche apprezzare (o criticare...) la messinscena di Martone, dirò che l’ascolto radiofonico non mi ha propriamente entusiasmato: discreta la prestazione dell’orchestra e la direzione di Rizzi, mentre gli interpreti principali mi son parsi un po’ a disagio, e non è una buona scusante il fatto che tutti fossero inevitabilmente alle prime armi con quest’opera: Marco Berti ha mostrato qualche problema di intonazione ed a volte è parso in difficoltà a sostenere la parte di Giannetto, oggettivamente dura, tutta incardinata sul famigerato passaggio. Non molto meglio si è portato Nicola Alaimo, che ha una voce chiara, adusa a Rossini ma che poco si attaglia ad un personaggio squisitamente verista come Neri. Passabile e non più la Ginevra di Kirstin Lewis, onesti gli altri comprimari.

Insomma, mi pare una proposta francamente discutibile, nulla a che vedere con le due opere del Verdi da galera che l’hanno preceduta nella stagione, meritandosi apprezzamenti quasi unanimi. Quanto alla prestazione complessiva, speriamo che le cose migliorino con qualche replica in più di rodaggio.  

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