C’è una specie
di (casuale o concordato, non saprei dire) filo rosso che collega di questi
tempi Scala e Regio di Torino. Si tratta della riproposta di due titoli piuttosto
desueti del novecento (‘20-‘30) italiano: La cena delle beffe di Giordano alla Scala e La donna serpente di Casella a Torino. In entrambi i casi le rappresentazioni in teatro vengono
affiancate da iniziative diverse, volte a promuovere vuoi il titolo in
programma (Milano, dove è stato proiettato nel Piermarini il
film di Blasetti del 1942) o la figura del compositore (Torino,
con il Festival-Casella). Ecco, questa necessità di attirare in tutti i modi l’interesse
del pubblico rappresenta di per sè un’implicita ammissione del valore non
proprio eccelso di quei titoli.
Però con alcune differenze: nel caso di Giordano –
operista che deve la sua fama a Chénier e Fedora, venute alla luce quando
ancora si era nell’800 - si tratta di
una delle opere decisamente minori, abbarbicata ad un verismo ormai decrepito ed
oltretutto zavorrata da un libretto che magari 90 anni fa poteva ancora
suscitare entusiasmi, ma che oggi fa francamente ridere...
Invece per Casella le cose stanno in modo un filino
diverso: intanto lui non era propriamente un operista, e quindi concepiva la
musica come arte pura, e non come supporto sonoro a drammi, men che meno a
storie veriste. E il soggetto della sua prima e quasi unica opera fu
volutamente individuato in una fiaba, quindi un soggetto fantastico che desse
modo al compositore di liberare la sua ispirazione senza condizionamenti di
sorta.
Insomma, si tratta di due riproposte che hanno in
comune nulla più della data di nascita delle opere: delle quali la prima
sostanzialmente guarda all’indietro, laddove la seconda perlomeno cerca di dire
qualcosa di nuovo.
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Domenica 3 aprile la Scala ha quindi ospitato la prima della Cena, ben 92 anni (!) dopo averla tenuta a battesimo con Toscanini. Con una battuta
di bassa lega si potrebbe dire che adesso lasciamo volentieri ai nostri
pronipoti il piacere di risentirla nel 2108 (stra-smile!) Però è certo che siamo di fronte a qualcosa che è ben
lungi dall’essere un capolavoro, e forse non è solo un caso se l’opera è
praticamente caduta nell’oblio e se ne esistono soltanto tre edizioni in
commercio (DeFabritiis-1955, Bonavolontà-1972 e Sanzogno-1988).
In attesa di
assistere dal vivo, così da poter anche apprezzare (o criticare...) la
messinscena di Martone, dirò che
l’ascolto radiofonico non mi ha propriamente entusiasmato: discreta la
prestazione dell’orchestra e la direzione di Rizzi, mentre gli interpreti principali mi son parsi un po’ a disagio,
e non è una buona scusante il fatto che tutti fossero inevitabilmente alle
prime armi con quest’opera: Marco Berti
ha mostrato qualche problema di intonazione ed a volte è parso in difficoltà a
sostenere la parte di Giannetto, oggettivamente dura, tutta incardinata sul
famigerato passaggio. Non molto
meglio si è portato Nicola Alaimo,
che ha una voce chiara, adusa a Rossini ma che poco si attaglia ad un
personaggio squisitamente verista come Neri. Passabile e non più la Ginevra di Kirstin Lewis, onesti gli altri
comprimari.
Insomma, mi
pare una proposta francamente discutibile, nulla a che vedere con le due opere
del Verdi da galera che l’hanno
preceduta nella stagione, meritandosi apprezzamenti quasi unanimi. Quanto alla
prestazione complessiva, speriamo che le cose migliorino con qualche replica in
più di rodaggio.
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