Ieri sera il Piccolo Teatro di Milano – a 60 anni di
distanza dalle storiche rappresentazioni di Strehler
– ha tenuto a battesimo la prima delle
ben 44 recite di Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, presentata nella
traduzione italiana di Roberto Menin)
di Brecht-Weill e messa in scena da Damiano Michieletto. In buca elementi
dell’Orchestraverdi e sul podio uno
dei suoi Direttori quasi stabili, Giuseppe
Grazioli.
Teatro
affollatissimo (con balconata presa d’assalto da adolescenti, il che è un gran
bel segno) e a lungo plaudente per l’intera compagnia, interpreti, musicisti e
regia.
Sul piano
musicale la dozzina di strumentisti (fiati, tastiere e percussioni) de laVERDI
sotto la direzione di Grazioli ha svolto efficacemente il suo compito di
supporto alle canzoni e ballate che costellano questo particolare Singspiel, dove le parti recitate hanno
un peso preponderante su quelle musicate. E forse per questa ragione, dato che
il corposo testo di Brecht è stato impiegato in larghissima misura (pochi i
tagli o le variazioni) si è deciso di impiegare più attori-cantanti che cantanti-attori.
Di conseguenza sarebbe ingeneroso mettersi a giudicare gli interpreti sotto il
piano puramente musicale. L’importante è che tutti abbiano fatto del loro
meglio per rendere godibilissimo lo spettacolo. Mi limito a citare un nome per tutti: l’impareggiabile
Peachum di Peppe Servillo.
Michieletto – che viene dal
teatro di prosa, conviene ricordarlo – ha impiegato la sua fantasia per dare
all’opera un tocco di attualità, prendendosi quindi qualche libertà rispetto al
testo originale.
Le scene di Paolo Fantin hanno come base costante
l’aula-bunker di un tribunale (il processo a Mackie) dentro la quale vengono rivissute
le vicende dell’opera come fossero deposizioni di testimoni: la cosa può forse rischiare
di apparire monotona tanto che, per movimentare la scena, le varie
suppellettili (scranno del giudice, tribunetta della giuria popolare e
banchetti degli imputati) sono montate su rotelle per poter essere facilmente spostate
quà e là. Efficaci i costumi di Carla
Teti e le luci di Alessandro Carletti.
Chiara Vecchi è responsabile delle
coreografie che movimentano alcune scene dell’opera.
Dicevo delle
libertà che si è preso Michieletto, intese a dare qualche tocco di contemporaneità
alla storia, di per sé sempre attuale, di Brecht. Cito come esempio la scena -
terzo atto, invero di grandissimo impatto - dei mendicanti di Peachum che
vengono presentati come moderni migranti naufraghi a cui poi vengono a mancare
anche i giubbetti arancione di galleggiamento, facendoli colare a picco. E
soprattutto il finale, dove il regista è quasi più brechtiano di Brecht:
presentandoci la mancata esecuzione capitale di Mackie come effetto della
corruzione dei magistrati (con una gran nuvola di banconote sparate fuori dalla
classica 24ore-da-mazzette) prima ancora che dall’insperata grazia concessa
dalla corona britannica. Ma nel complesso mi sentirei di giudicare
l’allestimento fra il buono e l’ottimo.
In conclusione,
una proposta che fa onore al teatro che fu dei grandi Giorgio Strehler e Paolo
Grassi.
2 commenti:
Ecco uno spettacolo che vorrei vedere a Trieste, dopo l'allestimento faraonico di qualche anno fa. Mi consolerò con l'ennesima Bohème e - per fortuna - con La Favorite nell'orrida Venezia. Ciao!
@Amfortas
Beh, hai ancora 43 possibilità per una gita nell'orrida (!) Milano...
Invece, anch'io sarò nell'ottima (!) Venezia per Donizetti.
Ciao!
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