Arrivato il mio
turno in abbonamento (sennò, lo dico subito, al Piermarini stavolta non mi ci vedevano proprio, chè avrei dato il mio modesto contributo al computo degli innumerevoli posti vuoti in sala) eccomi a riferire della ripresa alla Scala,
dopo nemmeno 92 anni (!) dell’ultima opera verista di Umberto Giordano: La cena delle beffe.
Questa musica è
di quelle che non ti fan venire la pelle d’oca, non ti sbudellano e non ti
fanno piangere (nè ridere, per la verità). Insomma, entra dall’orecchio
sinistro per uscire dal destro senza averti lasciato int-’a-capa tracce indelebili. Ma anche senza aver fatto danni
cerebrali irreparabili, e di ciò va dato atto al compositore.
Carlo Rizzi per la verità
non ci prova nemmeno ad aggiungere del sale, o pepe, o melassa agli ingredienti
previsti dalla ricetta, e quindi raggiunge in pieno il risultato di cui sopra. Con
l’aggravante di appiattire il tutto sul forte,
salvo pochi squarci di... fortissimo.
Il cast vocale è
per definizione alle prime armi con quest’opera (gli specialisti di essa sono in
pensione da tempo...) e quindi i cantanti fanno ciò che possono (e anche
vogliono, a giudicare dai risultati) sicuri che nessuno potrà smentirli
opponendo esempi di attualità. Anche loro sembrano seguire le orme del
Direttore, e così di espressione, sensibilità e simili bazzecole non se ne
parla proprio (salverei solo Alaimo,
che peraltro non ha una voce proprio adattissima al ruolo di Neri e infatti mi
dà l’impressione di scurirla artificiosamente). Insomma, tutti quanti
concorrono a rendere abbastanza insopportabile una musica che è già di per sé
indigeribile.
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Ho intitolato la
mia cronaca scrivendo di obbrobri del regista. E non a caso, poichè davvero Mario Martone (recidivo oltretutto, vedi
lo sfigato Oberto di 3 anni fa) ha
equivocato totalmente la natura del soggetto. Quindi: se lo ha fatto in buona
fede, merita di tornare a studiare per bene il libretto di Sem Benelli e di restituirci il maltolto; in caso contrario,
sarebbe passibile di denuncia per adulterazione e contraffazione di prodotti preziosi
o artistici (o pseudo- nella fattispecie) come chi smercia Lacoste, o Rolex, o
VanGogh, o financo Fiat farlocche, ecco.
Il problema non
è – al solito – il diritto del regista alla trasposizione geo-temporale del
soggetto. Il che è tollerabile e financo apprezzabile, a patto però che del
soggetto vengano conservate le fondamentali caratteristiche, e non soltanto la
sottile epidermide che lo ricopre.
E di che tratta
il testo di Benelli? Di una storia maturata sullo sfondo della rivalità fra
rampolli di famiglie-bene; che ha come moventi il tasso di virilità e il
possesso esclusivo o condiviso di qualche femmina dai costumi più o meno facili;
rivalità che degrada dal piano poco più che goliardico a quello cruento,
provocando gelosie, picche e ripicche, scherzi-da-prete e sentimenti di
vendetta sempre più parossistici, fino a degenerare nel delitto e nel sangue.
Quindi, gli effetti possono anche essere drammaticamente estremi, ma la causa
che li ha generati è semplicemente risibile, proprio come per futili motivi di campanilismo
si ingenerano spesso faide sanguinose fra contrapposte tifoserie.
Orbene,
cos’ha a che fare tutto ciò con la criminalità
organizzata? I mafiosi (a Manhattan come a Corleone) si dividono forse in
cosche per contendersi qualche zoccola? O per stabilire chi ce l’ha più lungo? Ecco
la domanda capitale da porre al regista, che in linea di principio nessuno
potrebbe censurare per aver spostato di 700 anni in avanti e di 6.500Km a
occidente il teatro della vicenda. Solo che lui non l’ha fatto per mettervi al
centro una faida fra bande di giovinastri del Bronx (col che ci si sarebbe
limitati a compiangere l’insulsaggine della trovata, visto che The warriors l’hanno già inventato altri)
ma per lucrare sulla presunta pregnanza dell’ambientazione nel mondo del padrino, cosa che farebbe per
definizione di un regista un genio! Mamma mia... E pensare che allora la
soluzione di più profonda attualità era qui, a portata di mano, e proprio a
Firenze! Bastava guardare un pochino dentro e fuori il giglio magico o a casa di Denis
(tera-smile!)
Naturalmente non
mancano nello spettacolo arditissime trovate, perchè bisogna pur ricordare al
gentile pubblico (bue) che questa è un’opera verista, e cosa c’è di più verista del porno? Così ci sorbiamo la Cintia che si fa un solitaire eccitata dagli amplessi di Ginevra con Giannetto e poi la
medesima Ginevra che accenna un - siamo a Manhattan, eh! - blowjob (in slang: fellatio)
per farsi perdonare da Neri il suo tradimento. Evabbè...
Non parliamo poi
del rispetto che Martone dimostra per la musica. Giudicandola (e qui non ha
tutti i torti) insignificante, si permette però di irriderla, facendo fermare l’intera
orchestra, prima del celestiale accordo di SIb maggiore che si ode al calar del
sipario, per propinarci una ben assestata salva di colpi di mitraglietta
esplosi dalla santarellina Lisabetta, trasformatasi nella circostanza in vendicatrice
dei torti subiti da tutte le femmine dell’universo. Evvai! Così quando metterà
in scena Parsifal (ma speriamo... mai) farà entrare Kundry nella sala del Gral,
armata di kalashnikov, per compiervi una carneficina (o questo finale l’ha già
inventato qualcun altro?)
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