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21 luglio, 2023

Muti con la sua Cherubini a Ravenna

Il Ravenna Festival si avvia alla conclusione e, come consuetudine, è toccato al padrone di casa (acquisito) Riccardo Muti di dirigere l’ultimo concerto sinfonico del 2023 alla testa della sua Cherubini.

PalaDeAndré pieno come un uovo, il che rende inspiegabile perchè due delle sei sezioni delle tribune laterali fossero chiuse al pubblico (che poi le ha in parte occupate…) 

L’apertura era riservata a Nino Rota - che fu tra i primi a scoprire in Riccardo Muti un futuro protagonista della vita musicale italiana e internazionale – con la Suite in 8 movimenti da Il Padrino (parti I e II).

1. Sicilian Pastorale (I)
2. The Immigrant (II)
3. The Pickup (I, non usato)
4. Kay (II)
5. Love Theme (I)
6. A New Carpet (II)
7. Waltz (I)
8. End Title (II)

Ecco qui come Muti la registrò nel 1997 con i Trepper PhilharmonikerE anche ieri ne ha cavato tutta la raffinatezza e la profondità.

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Ancora di Rota, Il 54enne Tamás Varga da Budapest, primo violoncello dei Wiener Philharmoniker (che il  Maeschtre evidentemente conosce assai bene…) ci ha poi offerto il bellissimo Secondo Concerto.  
  
Che fu composto nel 1973 e dedicato al sommo Mstislav, con uno sguardo retrospettivo (ma per nulla anacronistico) alla grande tradizione classico-romantica, come dimostrano l’impianto rigorosamente tonale (SOL maggiore, con tanto di accidenti in chiave) e la struttura solo apparentemente eterodossa: due soli movimenti espressamente indicati ma, come osserva Bruno Moretti nell’introduzione alla partitura Schott, il secondo (Variazioni e finale) è in realtà una micro-sinfonia. Nella quale si possono distinguere Andante(tema)/Scherzo(variazioni 1-5)/Adagio(variazione 6) e Finale (variazione 7).
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Seguiamo il concerto accompagnati dal grande Mario Brunello con la SantaCecilia diretta da Robin Ticciati.  

L’iniziale Allegro moderato (4/4) si struttura come una forma-sonata liberamente interpretata. Vi si distinguono due temi principali (T1 e T2) e un motivo di raccordo (R). Sono i primi violini (1’40”) ad esporre T1, dal carattere giocoso e danzante, su un accompagnamento ostinato in crome di viole e celli:

Dopo alcune modulazioni cromatiche si torna a SOL maggiore, dove compare (2’09”) il motivo R, esposto ancora (in pizzicato) dai primi violini (ora in unisono con i secondi e le viole) su un martellante tappeto dei corni:

Ecco quindi (2’30”) il maschio e puntato tema T2, nei legni (qui il primo oboe):

Proprio sulla chiusura di T2 (2’42”) attacca il solista, con una svolazzata di semicrome che porta (2’53”) alla ri-esposizione di T1, qui completato (3’20”) da una sua variante, che si snoda dal SI anziché dal RE, per portare quindi, dopo il passaggio da R (3’32”), a T2 (3’54”).

E proprio T2 viene manipolato assai, dando inizio a ciò che si può intendere come sviluppo. Dove infatti torniamo ad udire (4’32”) spezzoni di T1 nei fiati, accompagnati languidamente dal solista, poi ancora (5’23”) T2, protervo, fino ad una perorazione grandiosa (5’43”) dell’incipit di T1.

Il solista si imbarca in volate di semicrome mentre i corni ripetono T2, seguiti da oboe e tromba (6’09”).

Il tema T1 (6’21”) ritorna largamente per dare inizio ad una specie di ricapitolazione, dove gli segue (7’09”) il motivo R pizzicato. Poi il solista (7’30”) attacca crudamente T2, quindi tutti tornano (7’44”) su T1, con un finale sberleffo (8’15”) di violini e viole. 

Siamo ora all’Andantino cantabile, con grazia (4/4, SOL maggiore) aperto da solista che ne espone (8’27”) il nobile tema conduttore, che poi verrà sottoposto a sette variazioni:

La seconda frase (8’50”) vira momentaneamente (8’56”) a REb maggiore, per poi modulare ancora (9’12”) a LAb maggiore, dove i violini, poi raggiunti dal solista, ri-espongono il tema. Che viene ulteriormente ripreso, dopo il ritorno al SOL maggiore di impianto, dal solista (9’45”) che però lo chiude anzitempo con una leggera accelerazione. È poi il fagotto (10’06”) ad esibirsi in una sommessa cadenza, prima che il solista (10’20”) riprenda solo l’attacco del tema, portandone la tonalità a LAb, su un tremolo che ne chiude l’esposizione.

Hanno ora inizio le variazioni sul tema. Come premesso, le prime cinque hanno un carattere mosso e nervoso, testimoniato dalla continua accelerazione del tempo (come da indicazioni metronomiche).

Il solista (10’37”) attacca la prima scendendo di un semitono per ripristinare il SOL maggiore, mentre il tempo accelera moderatamente (da 76-80 a 88 semiminime di metronomo). Assistiamo qui ad un serrato dialogo (a base di semicrome) fra solista e flauto, che si palleggiano spezzoni dell’incipit del tema, chiuso dal solista con il ritorno a LAb.

A 11’53” ecco quindi la seconda variazione, in buona parte in RE maggiore, con il tempo che ancora accelera (metronomo a 96) e che il solista esegue integralmente in pizzicato, frantumando letteralmente il tema principale, sempre rimbeccato da fagotti e corni, da ultimo anche dal flauto.

Chiude a 13’00” sul REb, da dove inizia (13’05”) in SIb maggiore, la terza variazione (3/4, Tempo di valzer calmo e cantabile) e metronomo ancora aumentato a 104-112:

È una variazione assai corposa, dove il solista è inizialmente accompagnato da oboe, clarinetto e corno, poi (13’28”) nella ripresa, anche dal flauto. La melodia viene successivamente sottoposta ad ardite modulazioni (come a 13’52”, SI maggiore, nel corno, poi a FA minore, 14’22” nel flauto e poi nel clarinetto). Si torna a 4/4 (Liberamente, con fantasia) e il solista chiude e infine sul LA.

Qui (15’30”) dal LA dominante parte la quarta variazione, in RE maggiore (Alla marcia, allegramente) con il metronomo ancora accelerato a 132-138. La melodia del solista si distende sull’arpeggio discendente di RE (da dominante a dominante) e viene accompagnata da oboe, poi da flauto e infine da squilli di trombetta. Il solista modula provvisoriamente a LAb maggiore (16’02”) poi l’orchestra torna sulla melodia in RE.

Siamo così arrivati alla quinta variazione, con il metronomo ancora accelerante a 144, dove il solista (16’23”) riprende i suoi arpeggi in SOL maggiore; quindi l’orchestra (16’45”) prepara il terreno per la lunga cadenza solistica (16’55”) che porta alla conclusione sul DO grave.

Nella sesta variazione (18’27”, Calmo, contemplativo) il metronomo torna a 76-80, quello dell’Andantino cantabile che aveva originato le variazioni. È una pagina di straordinaria bellezza, dove la melodia sale sempre più in alto per volute successive (cosa degna del Liebestod, per dire…) passando progressivamente dall’iniziale DO minore al celestiale SI maggiore (Tristan, appunto!) prima di ricadere sul SOL minore che la chiude.

SOL che torna maggiore a 21’57” (Allegro vivo) dove inizia la settima ed ultima variazione, un vero e proprio Finale, come indica la partitura. Qui il tema viene ripreso nella sua interezza, ma sottoposto a variazioni e modulazioni continue, affidate anche ai fiati (oboe, corni, flauto, trombe) e con squarci di virtuosismo per il solista. La conclusione è asciutta, due classici e semplici accordi (dominante-tonica) della smagrita orchestra.
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Splendida l’esecuzione di Varga, ben supportato dai ragazzi paternamente guidati da Muti. Bis con un nobile Adagio, concordato con il Maestro fra un bagno e l’altro (…)
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La seconda parte del concerto era tutta di marca spagnola. Ecco infatti di Manuel De Falla la Seconda Suite dal Cappello a tre punte, brano che Muti incise già nel 1980 con la Philadelphia.

Vi sono incorporate tre danze del second’atto del balletto, e precisamente:

- una Seguidilla (I vicini)

- poi una Farruca (3’11”, Danza del mugnaio)

- e infine l’indiavolata Jota (6’14”, Danza finale)

Ha chiuso il concerto il brano più eseguito in assoluto nella storia della musica: il Bolerodiravel!

Che come al solito ha portato il pubblico ad un delirante entusiasmo. Prima di salutare tutti, Muti ha voluto sottolineare il valore della sua creatura, fatta di giovani e giovanissimi che ogni anno ne rinforzano i ranghi; e dando a tutti appuntamento per il 2024, quando si festeggerà il 20° compleanno di questa che ormai è a pieno titolo una delle più solide realtà nel panorama musicale italiano. 

20 settembre, 2017

laVerdi va in Spagna col MITO


L’Orchestra milanese ha fornito il suo contributo al MITO con un concerto (dato a Torino il 18 e replicato ieri in Auditorium) intitolato Paesaggi spagnoli, introdotto da Gaia Varon. Sul podio un giovane direttore, ovviamente iberico in omaggio al programma, il 34enne Andrés Salado da Madrid. 

Il primo brano in programma è una primizia per l’Italia, il Concerto per violino e orchestra, titolato Al-Andalus, del 32enne compositore americano Mohammed Fairouz (il nome ne tradisce chiaramente l’origine araba). L’Andalusia è quindi il soggetto ispiratore del concerto, composto nel 2013 per la violinista americana Rachel Barton Pine e l’Orchestra dell’Alabama e qui interpretato dalla 30enne cicciottella albionica Chloë Hanslip.

Che dire: che nel terzo millennio si può ancora comporre musica tonale come ai tempi di DeFalla e Ravel (che seguiranno nel programma) senza per questo apparire retrogradi e scopiazzatori... Un brano che nella forma, ma anche nei contenuti, è assai lontano da quella del concerto classico, in realtà si tratta di tre fantasie, scritte si direbbe con tecnica durchkomponiert, dove è difficile, almeno a primo ascolto, riconoscere temi ricorrenti o chiare strutture formali. I tre movimenti si ispirano programmaticamente ad altrettanti personaggi dell’epoca d’oro della civiltà islamica (800-1200) prosperata nella Spagna moresca e – ahinoi – inariditasi dopo la riconquista cattolica e mai più capace di un Rinascimento quale quello maturato da noi grazie alla progressiva conquista del principio di laicità delle istituzioni, tuttora pervicacemente negato dal mondo islamico. Che peraltro noi tendiamo a criminalizzare in-toto come ben sa lo stesso Fairouz, oggetto di tutti i sospetti che oggigiorno nascono su chi ha la sola colpa di avere nomi di origine araba.

Il primo movimento (Ibn-Firnas’ flight) è un’orgia sonora nella quale il suono del violino solista scompare, subissato da quelli dell’orchestra, salvo sporadicamente isolarsi in slanci... aerei con salite a note acutissime in armonici; deve durare 11 minuti, quanto il primo volo di Abbas Ibn Firnas, precursore nientemeno che dei fratelli Wright! Per contrappasso, il secondo movimento (The Ring of Doves, tratto da un trattato sull’amore di Ibn Hazm) è per lunghi tratti una melopea per violino solo, cui si accompagnano qua e là il violino di spalla, il clarinetto, il violoncello e la tromba, che ricorda scopertamente ambientazioni orientaleggianti. Il conclusivo movimento (Dancing Boy, poesia di Ibn Kharouf) mescola stilemi prettamente arabi ad altri andalusi e gitani, esposti dal violino (in quattro sezioni, corrispondenti alle stanze della poesia) che trascina l’intera orchestra verso un’esilarante conclusione.

Beh, una cosa godibile, che anche il pubblico – ieri foltissimo, direi sopra la media delle presenze alla stagione principale, segno che MITO attira... – ha mostrato di apprezzare assai.
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Lilya Zilberstein, un’affezionata visitatrice dell’Auditorium, è poi arrivata per porgerci il celebre Noches en los jardines de España di Manuel  deFalla, già ascoltata qui meno di un anno fa (con altri interpreti). La pianista russa ma ormai cosmopolita ha sciorinato la sua solidissima tecnica e la grande sensibilità nel percorrere l’immaginario cammino notturno da Granada a Córdoba, dove la Spagna di deFalla, composta a Parigi, mutua atmosfere... francesi. Anche qui grande successo e ripetute chiamate.
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Ha chiuso in bellezza il BolerodiRavel, che laVerdi ormai suona a memoria (anche perchè le note da ricordare sono davvero poche, solo che vanno ripetute qualche dozzina di volte...) Ivan Fossati, primo percussionista dell’Orchestra, ha ancora una volta preso posto sul suo trespolo proprio davanti al Direttore e ha segnato per tutto il tempo il ritmo ai colleghi; sono (non una di meno) ben 169 ripetizioni di queste due battute:


Insomma, roba da uscirne praticamente pazzi! Ma il bravo Ivan non manca un colpo e si merita alla fine ben due chiamate al proscenio! Trionfo per tutti e... viva MITO!

15 ottobre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°30


Tutta Spagna – in occasione della Festa Nazionale - nell’appuntamento settimanale in Auditorium. Iberici sono i due autori presentati (DeFalla e Albéniz) come pure (almeno di origine) i due... presentatori: il Direttore José Antonio Montaño e il pianista (nato a Cuba da genitori spagnoli) Jorge Luis Prats. I due – lo dico con la massima simpatia – visti insieme paiono proprio Don Quixote e Sancho Panza!

Si inizia con una composizione per pianoforte e orchestra di Manuel deFalla, che ebbe una lunga gestazione: dopo aver composto alcuni notturni per pianoforte durante il soggiorno  parigino (1909-14) nel 1915, trasferitosi presso Barcelona in una villa del pittore Santiago Rusiñol, deFalla fu colpito da alcuni quadri aventi per soggetto diversi famosi giardini spagnoli. Da qui l’idea di trasformare i notturni in una grande composizione per solista e orchestra. Ecco quindi nascere Noches en los jardines de España, la cui prima esecuzione ebbe luogo a Madrid poco più di un secolo fa, domenica 9 aprile 1916: sul podio l’amico Enrique Fernández  Arbós, che ritroveremo poi a fianco di Albéniz.

La struttura sembra, ma è solo apparenza, quella di un concerto, con i classici tre movimenti; si può in realtà apparentare - come contenuti extramusicali - ai poemi sinfonici romani di Respighi (pini, fontane, folklore): ciasuno dei tre brani si ispira infatti ad un diverso giardino e a danze popolari dell’Andalusia. Ma è soprattutto all’impressionismo francese (Debussy, Ravel, che deFalla ben conobbe e frequentò nei suoi soggiorni parigini) che si richiama invece scopertamente l’orchestrazione.

I. En el Generalife - Allegretto tranquillo e misterioso. Siamo all’Alhambra, Granada, precisamente nel giardino dell’architetto, fra cipressi, frutteti, fiori, fonti e specchi d’acqua pura. La tranquillità vi regna sovrana, rotta soltanto da improvvise irruzioni sonore, quasi fossero zampilli d’acqua che si aprono nelle fontane del giardino, o cascatelle che si animano improvvisamente.

II. Danza lejana – Allegretto giusto. A differenza di quanto fece per gli altri due, deFalla non lasciò mai indicazioni specifiche riguardo il luogo ispiratore di questo secondo brano, una tipica danza gitana. C’è chi ipotizza che l’aggettivo lejana (lontana) stia a significare musica che arrivava all’orecchio dell’autore da Albaicìn (che si trova a nord-ovest dell’Alhambra) poco distante dalla sua casa di Granada.

III. En los Jardines de la Sierra de Córdoba - Vivo. La scelta del riferimento geografico per questa danza a sfondo erotico-spirituale potrebbe essere dipesa dalla conoscenza che deFalla aveva della figura del filosofo arabo Ibn Masarra, che aveva stabilito la sua dimora, circondata da giardini, appunto nella foresta attorno a Córdoba.
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Seguiamo la musica facendoci guidare dalla venerabile Martha Argerich.

I. C’é praticamente un solo tema che spazia lungo l’arco del brano, in forma originale e variata o derivata, prima in modo minore, poi in maggiore, ed è un tema languido dove la melodia si muove per gradi congiunti e continui ondeggiamenti. Il pianoforte la ripete, aggiungendovi, con l’arpa, figurazioni liquide, proprio ad evocare – con taglio decisamente impressionista - l’ambiente naturale.

In tempo Allegretto tranquillo e misterioso il tema conduttore viene subito anticipato da viole ed arpa, punteggiato da accordi dell’orchestra. A 29” il corno, poi il corno inglese e infine i violoncelli lo sviluppano ulteriormente, preparando l’ingresso del solista (1’06”) che espone il tema, insieme al clarinetto e poi al corno, subito ripetendolo e arricchendolo. A 1’44” ancora corni, poi flauti e clarinetti reiterano il motivo, finchè (2’08”, Poco più animato) arriva la prima irruzione: è il pianoforte ad innescarla, trascinandovi l’intera orchestra, che sembra rispondere con scrosci d’acqua.

A 2’34” sono i fagotti, con i violoncelli in pizzicato, a proporre una variante del tema, presto raggiunti dal pianoforte che prosegue in crescendo fino a tacere (3’01”, Tempo giusto) lasciando all’orchestra il compito di presentare un’ennesima variante del tema che porta (3’18”) al ritorno del solista con un motivo cantabile, in modo maggiore, chiaramente derivato dal tema principale. A 3’51” è l’orchestra a rispondere con piglio nobile (si noti la perorazione dei corni) alla sollecitazione del solista, per poi spegnersi (4’20”, Tranquillo, ma non tanto) in corni, clarinetti e flauti e, dopo un cupo intervento degli archi bassi in tremolo, riprendere il tema principale (4’44”) con l’accompagnamento arpeggiato del pianoforte. Due stentorei interventi (5’11 e 5’20”) di trombe e corni portano (5’28”, Poco calmo) ad un intermezzo orchestrale che richiama un classico stilema andaluso.

Poi (5’59”) il solista si imbarca in una specie di cadenza arpeggiante, con clarinetto e archi a cantare sempre il motivo principale; al termine della quale (6’37”) l’orchestra ribadisce la cadenza andalusa. Il solista (6’54”) e poi corno inglese e fagotto (7’34”) ripropongono spezzoni del tema, con tempi allargati, quindi (7’57”) accompagnato con discrezione da pochi strumenti dell’orchestra, il pianoforte riespone, sviluppato al massimo grado, il motivo principale, conducendolo... in braccio all’orchestra (8’40”).

Qui abbiamo un colossale crescendo orchestrale, che sviluppa il tema in volute sempre più alte portando (9’07”, Largamente, ma non troppo) ad una grandiosa perorazione, sfociante (9’35”) nella dimessa coda conclusiva, con il tema che si spegne lentamente, nel corno, fino agli accordi in pianissimo di DO# maggiore.

II. A 10’55” in tempo Allegretto giusto sono le viole su un sottofondo del contrabbasso solo che richiama ancora il tema del primo movimento, ad introdurre questa danza gitana, il cui nucleo di base (3/4) è costituito da minima, doppia croma e minima, terza minore ascendente e poi discendente. È esposto inizialmente (11’03”) da corno inglese e flauti, che al motivo di base fanno seguire uno svolazzo per terze (qualcosa che ci ricorda... Carmen, guarda caso!)

A 11’18” tocca al clarinetto ribadire il motivo elementare e poi, dopo quattro piccoli schianti dei legni, entra il solista (11’29”) che espone il nucleo di base e poi lo sviluppa ampiamente con una seconda sezione più ricca, dal sapore intensamente andaluso, ben supportato a turno dai diversi strumenti dell’orchestra. Si arriva così a 12’21”, Poco animato, dove l’orchestra (si noti l’ingresso della celesta) ripresenta la seconda sezione del tema. Questa (12’32”, Tempo giusto, molto ritmico) viene ribadita con protervia dal pianoforte e da tutta l’orchestra.

Adesso il solista tace e Accelerando pochissimo, ma gradualmente (12’42”) sono i corni e poi le trombe con sordina a ribadire la seconda parte del tema, sopra un ribollire degli archi e i secchi accompagnmenti di arpa e legni. A 12’51”, Poco più vivo che prima, è ancora il solista a subentrare, rimbeccato poi (13’16”) dall’orchestra.

A 13’24” (Doppio meno vivo) tocca ai corni esporre la cellula di base, successivamente ripresa con il seguito (13’34”) arricchito ulteriormente dai legni sull’accompagnamento del pianoforte.

Si arriva così (14’34”, Stringendo sempre, ma gradualmente) ad un culmine (Tempo giusto, ma vivo, 14’45”) chiuso dal classico stilema andaluso in arpa e archi bassi. Adesso il tempo torna Tranquillo (14’59”) e sul tremolo dei violini è la celesta (con flauti e ottavino) a riproporre il motivo di base, con agogica dilatata, seguita e poi accompagnata da trombe, corno inglese e flauti.

A 15’40”, Poco animato, il pianoforte si imbarca in un crescendo che porta direttamente, senza alcuna soluzione di continuità al...

III. Tempo Vivo (15’53”, 3/4). L’Andalusia qui la fa davvero da padrona, fin dall’attacco di archi e legni che prefigurano il primo tema, esposto poi (16’15”) dal pianoforte che lo reitera e lo chiude con un classico stilema gitano.

Violini e strumentini (16’36”, Calmando appena e gradualmente) con una scala discendente portano verso un secondo tema (Allegro moderato) introdotto da corni, violini e viole (16’52”) con un motivo di chiara matrice andalusa. È il pianoforte (17’00”) ad esporre il nuovo tema, tipicamente fandango di Malaga, la cui prima sezione è seguita dal motivo introduttivo (corni, violini e viole) mentre poi la seconda (17’21”) si dispiega compiutamente, intercalata (17’33”, Tenuto e pesante) da accordi di archi, corni e fagotti prima di procedere (17’37”) ad una discesa plagale, autentico stilema flamenco. L’episodio si chiude su una specie di cadenza del pianoforte, caratterizzata da ubriacanti svolazzi, prima che torni (17’59”) il motivo che ha introdotto il secondo tema.

Ora (18’08”) gi archi ritornano al primo tema, assai variato e mosso da veloci figurazioni del pianoforte e dei legni, con i corni a contrappuntare con possenti figurazioni di sapore andaluso. Si arriva quindi ad un accordo generale (18’51”) che dà il via all’esposizione di un terzo tema (18’51”, Ben misurato) molto pesante, ripreso poi (19’14”) dal pianoforte in continuo dialogo con l’orchestra.

 A 19’52” (Più liberamente, con espressione) il tema viene reiterato dal solista, accompagnato da incisi dei fiati. A 21’10” ecco una transizione dove il tempo rallenta gradatamente, portando (21’12”) ad una stasi in cui il tema viene esposto con grande larghezza, finchè (22’05”) il pianoforte riprende il tema del fandango.

A 23’01” (Con ampiezza, ma non troppo) l’orchestra riprende il terzo tema, seguita dal solista, e il suono si perde in lontananza nei corni e in tre sommessi rintocchi di piano, timpani e pizzicato degli archi bassi. 
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Prats ci dà dentro come un forsennato, mettendo a dura prova le corde dello strumento, e garantendo così il posto di lavoro all’accordatore (!) Si tiene lo spartito sul leggìo, il che evidentemente significa che il pezzo non è proprio nel suo repertorio abituale, ma non significa che la sua interpretazione sia improvvisata o approssimativa, al contrario: per dire, la sua esposizione del tema di fandango del movimento conclusivo è stata davvero trascinante.

Grandi applausi per lui, che regala non uno, nè due, ma addirittura tre encore, a base di... cubalibre, con un’ammaliante malagueña e un pirotecnico glissando!
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Seguono le due Suite da El sombrero de tres picos, il balletto che deFalla aveva derivato (su richiesta di Diaghilev) da una sua precedente pantomima. L’esilarante storiella – vittima il Corregidor (Podestà lo chiameremmo noi...) - che fa da soggetto al balletto fu opera di Gregorio Martinez Sierra, che si ispirò ad un racconto di Pedro Antonio de Alarcòn. Per la prima londinese del 1919 venne ingaggiato anche Pablo Picasso, che disegnò i fondali e i costumi.

Gli 8 numeri delle due Suite (5 + 3) rispettano fedelmente la sequenza dei brani delle due parti del balletto, come riportato nel seguente schema:

balletto
suite
I-1
Introduzione
1-1
Allegro ma non  troppo

  voce



  Introduzione (ripetuta)


2
Meriggio



  Il mugnaio e il merlo



  La moglie del mugnaio



  La fonte



  Il bellimbusto



  La processione
2
Allegretto mosso (dal segno 11)
3
Danza della mugnaia
3
Allegro ma non troppo (Fandango)

  Il Podestà
4
Moderato

  I grappoli d’uva
5
Vivo

  Danza della mugnaia (ripresa)

Vivo
II-1
Danza dei vicini
II-1
Allegro ma non troppo (Seguidilla)
2
Danza del mugnaio
2
Poco vivo (Farruca, fino al segno 12)
  
  La guardia del corpo



  La  mugnaia



  voce



  Il Podestà


3
Danza del Podestà


  
  Il Podestà e la mugnaia



  Il mugnaio


4
Danza finale
3
Poco mosso (Jota)

  Il mugnaio braccato dalla guardia

Poco più mosso

  Il lancio in aria del Podestà

Più vivo ancora, ma non troppo

Complessivamente le due Suite incorporano circa i 2/3 (di durata) dell’intera musica del balletto, che contiene anche un paio di interventi cantati (per mezzosoprano).

Montaño guida con sicurezza un’Orchestra in gran forma, che non perde un colpo nell’affrontare una partitura davvero difficile come questa. La jota conclusiva in particolare trascina il pubblico all’entusiasmo.
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Di Isaac Manuel Francisco Albéniz ecco infine le Cinque impressioni da Iberia nell’arrangiamento per orchestra di Enrique Fernández Arbós. Composta fra il 1905 e il 1909, l’opera originale è costituita da 12 pezzi pianistici raggruppati in quattro quaderni. Dopo un abortito tentativo di orchestrarli, il compositore, ormai vicino alla morte prematura, chiese all’amico Arbós di farne una versione strumentale, e costui ne cavò una suite di 5 brani.

La tabella sottostante riporta la struttura dell’opera originale e la sequenza dei 5 brani orchestrati da Arbós:

quaderno
Albenìz
Arbós
tempo
I
1. Evocación 
1
Allegretto espressivo

2. El Puerto 
4
Allegro comodo

3. Fête-Dieu à Séville
2
Allegro gracioso
II
4. Rondeña 

Allegretto

5. Almería

Allegretto moderato

6. Triana 
3
Allegretto con anima
III
7. El Albaicín
5
Allegro assai, ma melancolico

8. El Polo 

Allegro melancolico

9. Lavapiés 

Allegretto bien rythmé mais sans presser
IV
10. Málaga

Allegro vivo

11. Jerez

Andantino

12. Eritaña 

Allegretto grazioso
  
Come per le Noches di deFalla, anche Albéniz si focalizza sull’Andalusia, che ispira la quasi totalità dell’opera (l’eccezione è Lavapiés, piazza di Madrid). L’orchestrazione di Arbós è forse troppo carica e spesso fa perdere leggerezza e freschezza ai quadretti di Albéniz che, come testimoniano le indicazioni agogiche, si muovono quasi sempre in punta di piedi e raramente lasciano spazio ad enfasi e affettazione. 

Il pubblico – non proprio oceanico, direi – riserva comunque a tutti applausi calorosi: fuori, dopo le note dell’assolata Andalusia, lo attende la fastidiosa pioggerella milanese di un inverno precoce.