XIV

da prevosto a leone
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30 ottobre, 2010

Zauberflöte al Grande

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Ancora il Circuito Lirico Lombardo in evidenza, con la mozartiana Zauberflöte. Una recente co-produzione di Jesi-Treviso-Fermo che viene ripresa in Lombardia. Dopo le due rappresentazioni al Ponchielli di Cremona, è approdata al Grande di Brescia (poi a gennaio sarà a Como e Pavia). Come sempre, l'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, in questa occasione condotta dall'albionico Oliver Gooch, con il coro diretto da Antonio Greco.

La regìa e i costumi sono del pregiato marionettista Eugenio Monti Colla. Insieme a Roberto Gritti, che manovra le luci, ha allestito un Flauto in cui convivono in modo intelligente e piacevole i diversi aspetti dell'opera: quello magico, quello massone e quello popolar-leggero. Insomma, ha coadiuvato al meglio il grande Teofilo, che riuscì a padroneggiare mirabilmente con la sua divina ispirazione - cavandone uno dei capolavori più straordinari del teatro musicale - il bizzarro intruglio partorito dalla mente un po' troppo fervida di Schikaneder.

Da 220 anni studiosi, critici, recensori ed esegeti si sbizzarriscono a trovare - spesso inventandosele per mettersi in mostra – le altezze (e le magagne) e le più recondite e cerebrali significanze che si celerebbero nell'opera. Cercando ad esempio di spiegare (o di dimostrarne l'insussistenza) le palesi contraddizioni e bizzarrie del libretto. Chi – uno per tutti, Massimo Mila - attribuendole a un qualche incidente di percorso – accaduto durante la composizione dell'opera - che avrebbe portato il librettista-cantante-guitto-gaudente (e Mozart al seguito) a stravolgere tutta la trama originaria del Flauto – derivata dalla Lulu di Liebeskind – e nientemeno che a ribaltare, dopo 2/3 del primo atto, le personalità dei due sovrani. E chi - uno per tutti, Sergio Sablich - ad affannarsi a spiegare e dimostrare il contrario, e quindi la perfetta e mirabile concezione unitaria dell'opera, con argomentazioni tanto dotte e sottili, quanto poco razionali.

Quanto poi ai nobili fini etici e morali che sarebbero alla base dell'opera, basterà ricordare come le femmine ribelli (per così dire) vi fanno tutte una brutta fine, chè la teoria e pratica massonica relegava la donna a ruoli decisamente subalterni (le femministe avrebbero parecchio da ridire sul razionale presentato dal sapientone-massone Sarastro per giustificare la restrizione di libertà imposta alla povera Pamina: Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria. Le parole saranno anche auliche, ma il concetto resta quello che usava ripetere il simpatico Bracardi: la dona c'ha 'n cervelo de galina!)

Insomma, Monti Colla non ha cercato minimamente di coprire le magagne del libretto, che sono molte e piuttosto clamorose, e la sua regìa lascia perciò aperte tutte le domande che lo spettatore inevitabilmente si pone: perchè Astrifiammante ci viene presentata come regina del bene e madre offesa, nel primo atto, e poi campionessa del male e aspirante terrorista nel secondo? A proposito, se la Regina rappresenta il male, perché allora fa distruggere il male-serpente per salvare Tamino? E perché non ha usato le armi (che più tardi scopriremo possiede) per difendere Pamina dal sequestro di Sarastro? E perché presenta i tre fanciulli-angeli-custodi come suoi fedeli, se invece si scopre dopo che questi sono al servizio e alla corte di Sarastro? A proposito del quale, se non è (più) un tiranno sanguinario, ma il sommo sacerdote della nobile massoneria, perché ha commesso un odioso delitto (il sequestro di persona) per strappare Pamina alla madre prima di incontrare l'aspirante-iniziato Tamino, giudicato idoneo a guidare la principessa sulla retta via? E come mai ci sono degli schiavi nella sua reggia? E perché tiene al suo servizio Monostatos, un bieco aguzzino (per poi divertirsi a punirlo ripetutamente)?

Parliamoci chiaro, non ci fosse sotto la musica del divino Mozart, questa sarebbe una farsa, e pure mal riuscita, come un tale Richard Strauss, che di teatro musicale si intendeva appena un pochino, non esitò a rilevare. Monti-Colla si limita – meritoriamente – a presentarci ciò che troviamo scritto su libretto e partitura, mostrandoci il serpentone-drago con fumanti narici, fatto secco dalle tre dame (e questa è effettivamente una libertà) con colpi di bacchetta magica, i tre genietti che svolazzano sopra una bianca nuvoletta, i leoni di Sarastro che muovono le minacciose mascelle di cartapesta, le belve che fanno capolino al suono del flauto di Tamino, e i diversi paesaggi e palazzi dove si svolge la trama. I personaggi si muovono il minimo necessario, salvo Papageno che interpreta al meglio il ruolo da macchietta che Schikaneder si era costruito per sè.

Quanto alla musica, Gooch ne dà un lettura convincente, nella qualità ed anche nella quantità, facendoci ad esempio ascoltare tutti i ritorni del Dreimalige Akkord previsti nella scena parlata all'inizio del secondo atto. A proposito di parlato, è pesantemente tagliato, come sempre, ma forse meno di altre volte. Francamente rimane sempre il dubbio sulla sua efficacia in generale e particolarmente nel caso di rappresentazioni davanti ad un pubblico di lingua non krukka. Assolutamente all'altezza il coro di Greco.

La compagnia di canto si è dimostrata di livello più che accettabile, a partire dai due principi innamorati, il Tamino di Leonardo Cortellazzi e la Pamina di Serena Gamberoni.

Filippo Bettoschi, assai bravo nella parte attoriale di Papageno, se l'è cavata piuttosto bene anche sul fronte voce, ricevendo un particolare applauso all'uscita singola.

L'Astrifiammante Regina della notte è Clara Polito. Che mostra qualche affanno nelle parti più spiccatamente virtuosistiche: per la verità arriva abbastanza bene ai diversi FA sovracuti che la sua parte comporta.

Il Sarastro di Stefano Rinaldi Miliani ha tutta la necessaria autorevolezza scenica: l'unico appunto che gli si può muovere è la scarsa udibilità del famoso FA sotto il rigo, sul doch della sua reprimenda a Pamina.


Dignitoso anche il Monostatos di Anicio Zorzi Giustiniani, forse meno cattivo di quanto servirebbe. Laura Catrani assolve bene il suo compito (del resto limitato nella quantità) nei panni di Papagena.

Le Dame Loredana Arcuri, Angela Nicoli, Lorena Scarlata e i Genietti Silvia Spruzzola, Beatrice Palumbo, Simona Di Capua sempre gradevoli nelle loro ripetute apparizioni. Han fatto del loro meglio anche Alessandro Calamai e Marco Voleri, nei panni dei Sacerdoti/Armigeri.

Dopo che, durante la rappresentazione, erano praticamente mancati applausi a scena aperta, grandi ovazioni e trionfo per tutti alla fine.

09 ottobre, 2010

La Medea lombarda passa da Brescia

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Il Circuito Lirico Lombardo, che riunisce alcuni Teatri di tradizione della Regione, in questo mese di ottobre sta portando in quattro città (nell'ordine: Cremona, Brescia, Pavia e Como) la Medea di Cherubini. L'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, diretta da Antonio Pirolli, con il coro di Antonio Greco e la regìa di Carmelo Rifici. Dopo le due applaudite recite al Ponchielli, ieri sera è stata la volta dell'apertura di stagione del bi-secolare Grande di Brescia, non proprio esaurito (ma con scarsissime defezioni nei due intervalli, meno male) per questa prima assoluta, nel teatro che lanciò la Butterfly, dell'opera del fiorentino che fece fortuna a Parigi, a cavallo fra '700 e '800.
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L'originale di Cherubini è in francese (Médée, testi di François-Benoit Hoffmann) ed è un Singspiel (detto alla tedesca) in piena regola e non per nulla tale Beethoven ne fu entusiasta. La versione che viene qui presentata è però quella in italiano (testi di Carlo Zangarini, dei primi del '900) e soprattutto ha i recitativi musicati da Franz Lachner a metà '800, il che significa che un buon 20% della musica che si ascolta non è precisamente farina del sacco di Cherubini (clamoroso in proposito il recitativo Numi, venite a me, di Medea e poi Neris, all'inizio del terzo atto, che dura più di 5 minuti, tutta merce contraffatta, che però continua ad essere spacciata per Cherubini!) E, a proposito di gusti del pubblico, certo che anche nell'800 erano ben strani: se, pur di avere meno parlati e più musica, si ricorreva a far musicare i parlati dal primo musicista che passava per strada (con tutto il rispetto per Lachner!) Di questa moda, oltre a Cherubini, fu vittima illustre – anni dopo – Georges Bizet con la sua Carmen. Ma, chiedo io, che cosa ci guadagna un'opera di un grande ad essere inquinata da qualche mestierante? Tanto varrebbe (come si è fatto) eseguire solo i numeri musicati dall'Autore. E poi, perché di questi scempi non furono vittime – tanto per esemplificare, che io sappia - Mozart (Die Entführung, Die Zauberflöte) e Beethoven (Fidelio)? Forse perché per essi (al contrario di un Cherubini o di un Bizet) vigeva il reato di lesa maestà?

Però la cosa paradossale – vedi un po' come va il mondo… - è che la versione inquinata è proprio quella che diventa celebre ovunque: vale per la Carmen adulterata da Guiraud, e vale per Medea, che con i testi di Zangarini e i recitativi di Lachner è divenuta (quasi) celebre anche in Italia, soprattutto dall'ultimo dopoguerra e grazie ad un'interprete straordinaria: la Callas dei primi anni alla Scala. Ed è quindi fatale che ogni soprano che si cimenti oggi nel ruolo debba in qualche modo passare sotto le forche caudine del confronto a distanza con la grande Maria, di cui ci sono rimaste diverse registrazioni, dirette da Gui, Serafin, Bernstein, Schippers, Rescigno. Maria Billeri ha affrontato l'impari sfida con gran coraggio e non solo non ha demeritato, ma è stata la trionfatrice della serata, ricevendo un'interminabile ovazione all'uscita singola. Ma (quasi) tutte le arie sono state applaudite a scena aperta, e tutti gli interpreti accolti calorosissimamente alla fine della lunga fatica.

In effetti tutti - singoli e Coro - si sono attestati su uno standard più che dignitoso. Eleonora Buratto è stata una brava Glauce (Dircé) cui tocca l'arduo compito di rompere il ghiaccio con la prima, lunga e difficile aria O Amore vieni a me: voce calda e pulita, ben adatta per la parte della giovane figlia di Creonte, presa tra la dolce prospettiva dell'amore e i cupi presentimenti di disgrazie. Luca Tittoto era Creonte, e ha tenuto la scena con grande autorità (proprio come si conviene ad un sovrano…) Il Giasone di Lorenzo Decaro ha una voce tenorile in alto e baritonale nella zona centrale-bassa, comunque si è ben portato, cantando in modo convincente la sua aria Or che più non vedrò, e sostenendo dignitosamente i confronti con Medea. Così come la Neris di Alessandra Palomba, bravissima nell'aria – mirabilmente introdotta dal fagotto obbligato - Solo un pianto con te versare del secondo atto. Le due Ancelle, Adriana Ballotta (vocina un poco tendente al metallico) e Maria Letizia Grosselli (voce più rotonda e gradevole) e Pasquale Amato (capo delle guardie del Re) coprono particine secondarie, che hanno comunque sostenuto al meglio. Come detto, il Coro di Antonio Greco ha mostrato grande compattezza e sicurezza, sia nelle scene serene – una delle quali sembra anticipare Lohengrin, nientemeno - che in quelle drammatiche.

Quanto a Pirolli, ha diretto con fiero cipiglio, senza mai abbandonarsi a slentatezze, sdolcinature o gigionerìe, e quindi nel pieno rispetto dell'austera e severa dottrina musicale cherubiniana (di quella di Lachner… meglio non far cenno). L'orchestra dei Pomeriggi, del resto, lo ha ben assecondato, sia nei sempre impervi passaggi strumentali (come i preludi dei tre atti) che nell'accompagnamento delle voci.

La messinscena di Rifici si muove nel filone – diciamo moderno, senza il post – del Regietheater, inteso come rivendicazione per il regista di libertà di ambientazione e di caratterizzazione di opere musicali. Una tipica scelta registica, ed è quella che Rifici compie, è di ambientare l'opera all'epoca in cui fu composta, quindi a cavallo fra '700 e '800 a Parigi. Un appiglio neanche troppo labile per scelta siffatta è costituito precisamente dallo scenario politico in cui Cherubini compose Médée, quello del post-rivoluzione, con tanto di richiami neo-classici al mondo della tragedia greca. Quindi non siamo in Corinto – comunque difficile a rappresentarsi adeguatamente in cartapesta – né in un indefinito tempo mitologico, ma in una specie di Louvre ai tempi di Napoleone. Dove i personaggi mitologici – ma anche gli oggetti della vicenda, vedi il vello d'oro - escono dalle relative rappresentazioni (pittoriche o scultoree) che la modernità ne ha dato. Insomma, un'idea non rivoluzionaria, men che meno dissacrante (penso già alla Salome di Carsen che vedrò domani al Maggio) ma nello stesso tempo per nulla banale. Il secondo e terzo atto sono forse meno efficaci, o forse troppo cerebrali: il museo che sbaracca e poi il museo che cambia destinazione, orientandosi alle scienze naturali (forse in omaggio ai serpenti che Medea vede nei figlioletti?) Però alla fine un quadro ritorna, nel generale sbigottimento: è quello che imprigiona l'immagine della sanguinante Medea, fresca assassina dei due figli: un'icona assai forte ed efficace.

È comunque una regìa intelligente, assecondata da collaboratori cui va il merito di aver saputo materializzare al meglio le idee del regista: Guido Buganza per le scene, Margherita Baldoni per i costumi di impronta napoleonica, Paolo Calafiore per le luci e Alessio Maria Romano per le non banali coreografie.

All-in-all, uno spettacolo degno in assoluto; e più ancora degno di approdare a ben più nobili lidi, dove ultimamente non si sta producendo granchè di meglio.
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