Il Circuito Lirico Lombardo, che riunisce alcuni Teatri di tradizione della Regione, in questo mese di ottobre sta portando in quattro città (nell'ordine: Cremona, Brescia, Pavia e Como) la Medea di Cherubini. L'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, diretta da Antonio Pirolli, con il coro di Antonio Greco e la regìa di Carmelo Rifici. Dopo le due applaudite recite al Ponchielli, ieri sera è stata la volta dell'apertura di stagione del bi-secolare Grande di Brescia, non proprio esaurito (ma con scarsissime defezioni nei due intervalli, meno male) per questa prima assoluta, nel teatro che lanciò la Butterfly, dell'opera del fiorentino che fece fortuna a Parigi, a cavallo fra '700 e '800.
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L'originale di Cherubini è in francese (Médée, testi di François-Benoit Hoffmann) ed è un Singspiel (detto alla tedesca) in piena regola e non per nulla tale Beethoven ne fu entusiasta. La versione che viene qui presentata è però quella in italiano (testi di Carlo Zangarini, dei primi del '900) e soprattutto ha i recitativi musicati da Franz Lachner a metà '800, il che significa che un buon 20% della musica che si ascolta non è precisamente farina del sacco di Cherubini (clamoroso in proposito il recitativo Numi, venite a me, di Medea e poi Neris, all'inizio del terzo atto, che dura più di 5 minuti, tutta merce contraffatta, che però continua ad essere spacciata per Cherubini!) E, a proposito di gusti del pubblico, certo che anche nell'800 erano ben strani: se, pur di avere meno parlati e più musica, si ricorreva a far musicare i parlati dal primo musicista che passava per strada (con tutto il rispetto per Lachner!) Di questa moda, oltre a Cherubini, fu vittima illustre – anni dopo – Georges Bizet con la sua Carmen. Ma, chiedo io, che cosa ci guadagna un'opera di un grande ad essere inquinata da qualche mestierante? Tanto varrebbe (come si è fatto) eseguire solo i numeri musicati dall'Autore. E poi, perché di questi scempi non furono vittime – tanto per esemplificare, che io sappia - Mozart (Die Entführung, Die Zauberflöte) e Beethoven (Fidelio)? Forse perché per essi (al contrario di un Cherubini o di un Bizet) vigeva il reato di lesa maestà?
Però la cosa paradossale – vedi un po' come va il mondo… - è che la versione inquinata è proprio quella che diventa celebre ovunque: vale per la Carmen adulterata da Guiraud, e vale per Medea, che con i testi di Zangarini e i recitativi di Lachner è divenuta (quasi) celebre anche in Italia, soprattutto dall'ultimo dopoguerra e grazie ad un'interprete straordinaria: la Callas dei primi anni alla Scala. Ed è quindi fatale che ogni soprano che si cimenti oggi nel ruolo debba in qualche modo passare sotto le forche caudine del confronto a distanza con la grande Maria, di cui ci sono rimaste diverse registrazioni, dirette da Gui, Serafin, Bernstein, Schippers, Rescigno. Maria Billeri ha affrontato l'impari sfida con gran coraggio e non solo non ha demeritato, ma è stata la trionfatrice della serata, ricevendo un'interminabile ovazione all'uscita singola. Ma (quasi) tutte le arie sono state applaudite a scena aperta, e tutti gli interpreti accolti calorosissimamente alla fine della lunga fatica.
In effetti tutti - singoli e Coro - si sono attestati su uno standard più che dignitoso. Eleonora Buratto è stata una brava Glauce (Dircé) cui tocca l'arduo compito di rompere il ghiaccio con la prima, lunga e difficile aria O Amore vieni a me: voce calda e pulita, ben adatta per la parte della giovane figlia di Creonte, presa tra la dolce prospettiva dell'amore e i cupi presentimenti di disgrazie. Luca Tittoto era Creonte, e ha tenuto la scena con grande autorità (proprio come si conviene ad un sovrano…) Il Giasone di Lorenzo Decaro ha una voce tenorile in alto e baritonale nella zona centrale-bassa, comunque si è ben portato, cantando in modo convincente la sua aria Or che più non vedrò, e sostenendo dignitosamente i confronti con Medea. Così come la Neris di Alessandra Palomba, bravissima nell'aria – mirabilmente introdotta dal fagotto obbligato - Solo un pianto con te versare del secondo atto. Le due Ancelle, Adriana Ballotta (vocina un poco tendente al metallico) e Maria Letizia Grosselli (voce più rotonda e gradevole) e Pasquale Amato (capo delle guardie del Re) coprono particine secondarie, che hanno comunque sostenuto al meglio. Come detto, il Coro di Antonio Greco ha mostrato grande compattezza e sicurezza, sia nelle scene serene – una delle quali sembra anticipare Lohengrin, nientemeno - che in quelle drammatiche.
Quanto a Pirolli, ha diretto con fiero cipiglio, senza mai abbandonarsi a slentatezze, sdolcinature o gigionerìe, e quindi nel pieno rispetto dell'austera e severa dottrina musicale cherubiniana (di quella di Lachner… meglio non far cenno). L'orchestra dei Pomeriggi, del resto, lo ha ben assecondato, sia nei sempre impervi passaggi strumentali (come i preludi dei tre atti) che nell'accompagnamento delle voci.
La messinscena di Rifici si muove nel filone – diciamo moderno, senza il post – del Regietheater, inteso come rivendicazione per il regista di libertà di ambientazione e di caratterizzazione di opere musicali. Una tipica scelta registica, ed è quella che Rifici compie, è di ambientare l'opera all'epoca in cui fu composta, quindi a cavallo fra '700 e '800 a Parigi. Un appiglio neanche troppo labile per scelta siffatta è costituito precisamente dallo scenario politico in cui Cherubini compose Médée, quello del post-rivoluzione, con tanto di richiami neo-classici al mondo della tragedia greca. Quindi non siamo in Corinto – comunque difficile a rappresentarsi adeguatamente in cartapesta – né in un indefinito tempo mitologico, ma in una specie di Louvre ai tempi di Napoleone. Dove i personaggi mitologici – ma anche gli oggetti della vicenda, vedi il vello d'oro - escono dalle relative rappresentazioni (pittoriche o scultoree) che la modernità ne ha dato. Insomma, un'idea non rivoluzionaria, men che meno dissacrante (penso già alla Salome di Carsen che vedrò domani al Maggio) ma nello stesso tempo per nulla banale. Il secondo e terzo atto sono forse meno efficaci, o forse troppo cerebrali: il museo che sbaracca e poi il museo che cambia destinazione, orientandosi alle scienze naturali (forse in omaggio ai serpenti che Medea vede nei figlioletti?) Però alla fine un quadro ritorna, nel generale sbigottimento: è quello che imprigiona l'immagine della sanguinante Medea, fresca assassina dei due figli: un'icona assai forte ed efficace.
È comunque una regìa intelligente, assecondata da collaboratori cui va il merito di aver saputo materializzare al meglio le idee del regista: Guido Buganza per le scene, Margherita Baldoni per i costumi di impronta napoleonica, Paolo Calafiore per le luci e Alessio Maria Romano per le non banali coreografie.
All-in-all, uno spettacolo degno in assoluto; e più ancora degno di approdare a ben più nobili lidi, dove ultimamente non si sta producendo granchè di meglio.
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