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21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

12 novembre, 2018

La Fille è ritornata a Bologna


Ieri pomeriggio la bomboniera del Bibiena ha ospitato la terza delle sei recite de La Fille du régiment, una ripresa della fortunata produzione del 2004. Sala con parecchi vuoti (ahinoi) ma pubblico ben disposto e propenso all’applauso.

Sul podio il simpatico Yves Abel (qui una sua interpretazione a Vienna nel 2007, con siparietto della Caballè che canta – alla faccia di Donizetti – il suo amato 'g Schätzli) ha guidato l’orchestra con autorevolezza, confermando le sue buone qualità (quest’estate mi era piaciuto nel Barbiere al ROF).

La compagnia di canto (primo cast) ha dignitosamente fatto il suo dovere, per così dire, grazie allo spilungone Maxim Mironov (Tonio) che, a dispetto di una voce poco squillante e non potentissima (rilievi da me fattigli anche in occasione del citato Barbiere di Pesaro) ha però dato spessore al personaggio, sciorinando anche senza difficoltà i diversi DO dell’aria del prim’atto (Pour mon âme) e pure il DO# della romanza del secondo (S’il me fallait). Certo, chi ha ancora nelle orecchie il Florez del 2004 forse non ne sarà stato entusiasta, ma il pubblico, dopo l’aria dei 9 DO gli ha tributato almeno 3 minuti di orologio di applausi e richieste di bis.    

La protagonista Hasmik Torosyan a corrente alternata: bene nei passaggi più ispirati (esempio la cavatina con cello obbligato Par le rang del second’atto) con acuti ben portati; quando invece c’è da forzare, allora gli acuti escono stimbrati e vetrosi. Anche a lei si applica la constatazione di una voce non proprio penetrante.

Discreta la Marchesa di Claudia Marchi; passabile il Sulpice di Federico Longhi. Tutti gli altri li accomuno in una ampia sufficienza.

Encomiabile la prestazione del Coro di Andrea Faidutti, che in quest’opera è forse più protagonista ancora degli stessi singoli interpreti.

Un discorso a parte (e la musica c’entra poco, a dir il vero) riguarda la presenza di Daniela Mazzucato nel ruolo (solo recitante) della Duchessa. Non mi capacito davvero di come questa straordinaria cantante (certo, a fine carriera, a 72 anni!) abbia accettato di fare da comparsa (perchè di ciò si tratta) per 10 minuti nei quali ha giusto emesso un urlo e nulla più (oltretutto è stato tagliato il suo ingresso in scena all’inizio del second’atto). Presentata poi (qui c’entra anche la regìa) come duchessa di Casalecc, fra uno stuolo di altre comparse... del circondario bolognese. E forse gran parte del pubblico manco l’ha riconosciuta, così che a lei sono andati pochi clap all’uscita finale. Insomma, una cosa (per me, ma forse anche per lei) umiliante. Vero è che questo particolare ruolo lei lo sta ricoprendo da un paio d’anni, in giro per il mondo, ma almeno dovrebbe essere riempito con qualcosa di speciale: proprio come fecero a Vienna con la grande quanto vetusta Caballè nella citata edizione del 2007.

E a proposito di allestimento, quello originale di Emilio Sagi è oggi ripreso da Valentina Spinetti: chissà se è lei l’autrice del misfatto nella scena dell’arrivo degli ospiti per il matrimonio... una trovata piuttosto discutibile, ecco. Per il resto si tratta invece di uno spettacolo piacevole, in un’ambientazione (di Julio Galan) primo-novecento: in un’osteria dove si ritrovano gli svizzeri e poi i soldati del 21° reggimento (primo atto) e una vasta sala del palazzo della Marchesa (secondo atto). Simpatici i costumi ed efficace l’impiego delle luci.

In definitiva, una proposta godibile, a parte le citate cadute di stile.

20 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Il barbiere di Siviglia



Ritorno all’Adriatic Arena per questo nuovo Barbiere. Nuovo nell’allestimento (del venerabile Pier Luigi Pizzi) e semi-nuovo nell’edizione, che è quella approntata nel 2010 dal compianto Alberto Zedda e da lui già presentata al ROF in forma di concerto nel 2011 e poi in forma quasi-scenica nel 2014.

Pizzi non si smentisce e - da scenografo di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi, trova) un accettabile compromesso fra gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni che, da commedia con venature di buffo, riducono il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato. Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane... non fanno mai scadere lo spettacolo in farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che ormai pare una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto.

Passerella che circonda la pseudo-buca orchestrale, dove ha tenuto banco Yves Abel, che ha affrontato la partitura con molta leggerezza (alla radio non mi aveva entusiasmato) il che devo ammettere ha però il suo buon effetto, armonizzandosi assai bene con l’approccio della regìa. L’OSN-RAI (rinforzata per la chitarra dall’apporto del pesarese - milanesizzato - Eugenio Della Chiara) ha risposto alla grande, già dall’applauditissima Sinfonia.

Sempre efficace e compatto il coro del Ventidio Basso (Giovanni Farina) nei passaggi di insieme, come in quelli a gruppetti.

Le voci. Come curiosità c’è da registrare che quattro dei sette interpreti (Mironov, Wakizono, Luciano e Corrò) figuravano un anno fa nel cast de La pietra del paragone. Faccio poi o una premessa: lo scatolone ricavato nella pancia dell’enorme Adriatic Arena ha un’acustica davvero pessima (non v’è chi non reclami e attenda con impazienza il ritorno al glorioso Palafestival) però, accipicchia, le voci delle vecchie glorie Pertusi e Zilio vi passavano attraverso in modo spettacoloso... le altre, ahiloro, assai meno. Ancora accettabili quelle di Luciano e Spagnoli, ma quelle dei due protagonisti (Mironov e Wakizono) davvero faticavano a raggiungere indenni il fondo della sala (e va dato atto ad Abel di non aver mai coperto). Il che vorrà pur dir qualcosa (ricordo di aver mosso ai due lo stesso appunto critico, a proposito di decibel, un anno fa, in occasione della Pietra...)

A parte questo rilievo, dirò che tutti (aggiungo qui anche il bravissimo Corrò) si sono assestati su un livello più che discreto. Il pubblico da parte sua ha dato un voto che rasenta la lode, a giudicare dagli applausi (a scena aperta e poi alle uscite finali) riservati a tutti, musicanti e allestitori.