Ritorno all’Adriatic Arena per questo
nuovo Barbiere.
Nuovo nell’allestimento (del venerabile Pier
Luigi Pizzi) e semi-nuovo nell’edizione, che è quella approntata nel 2010
dal compianto Alberto Zedda e da lui
già presentata al ROF in forma di concerto nel 2011 e poi in forma
quasi-scenica nel 2014.
Pizzi non si smentisce e - da scenografo
di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e
interno dove le curve sono ridotte al
minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e
il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito
e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo
Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta
solo dall’avvicinarsi del temporale.
Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e
direi, trova) un accettabile compromesso fra gli eccessi goliardico-sbracati di
certe interpretazioni che, da commedia
con venature di buffo, riducono il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato.
Non mancano certo le gag - una su
tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio
sul memorabile colpo-di-cannone - ma
siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il
Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi
nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso)
nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta
sempre assatanata come una ninfomane... non fanno mai scadere lo spettacolo in
farsa.
Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la
passerella (questa sì da avanspettacolo!) che ormai pare una dotazione fissa
del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i
vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo
atto.
Passerella che circonda la pseudo-buca
orchestrale, dove ha tenuto banco Yves
Abel, che ha affrontato la partitura con molta leggerezza (alla radio non
mi aveva entusiasmato) il che devo ammettere ha però il suo buon effetto,
armonizzandosi assai bene con l’approccio della regìa. L’OSN-RAI (rinforzata
per la chitarra dall’apporto del
pesarese - milanesizzato - Eugenio Della
Chiara) ha risposto alla grande, già dall’applauditissima Sinfonia.
Sempre efficace e compatto il coro del
Ventidio Basso (Giovanni Farina) nei
passaggi di insieme, come in quelli a
gruppetti.
Le voci. Come curiosità c’è da registrare
che quattro dei sette interpreti (Mironov, Wakizono, Luciano e Corrò) figuravano
un anno fa nel cast de La pietra del paragone. Faccio poi o una
premessa: lo scatolone ricavato nella pancia dell’enorme Adriatic Arena ha un’acustica
davvero pessima (non v’è chi non reclami e attenda con impazienza il ritorno al
glorioso Palafestival) però, accipicchia, le voci delle vecchie glorie Pertusi e Zilio vi passavano
attraverso in modo spettacoloso... le altre, ahiloro, assai meno. Ancora
accettabili quelle di Luciano e Spagnoli, ma quelle dei due protagonisti
(Mironov e Wakizono) davvero faticavano a raggiungere indenni il fondo della
sala (e va dato atto ad Abel di non aver mai coperto). Il che vorrà pur dir qualcosa (ricordo di aver mosso ai
due lo stesso appunto critico, a proposito di decibel, un anno fa, in occasione della Pietra...)
A parte questo rilievo, dirò che tutti (aggiungo
qui anche il bravissimo Corrò) si sono assestati su un livello più che discreto.
Il pubblico da parte sua ha dato un voto che rasenta la lode, a giudicare dagli
applausi (a scena aperta e poi alle uscite finali) riservati a tutti,
musicanti e allestitori.
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