XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta rosenkavalier. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta rosenkavalier. Mostra tutti i post

13 ottobre, 2024

Il Rosenkavalier di Salzburg (2014) per la seconda volta alla Scala.

Ieri l’argenteo cavaliere straussiano, come originariamente prodotto a Salzburg nell’ormai lontano 2014, è tornato per la seconda volta a far visita al Piermarini, dopo la prima apparizione del 2016. Allora, teatro semideserto, ieri pieno come un uovo! Che sia perchè sul podio c’era il grande Kirill Petrenko?

Alla regìa, scomparso nel 2019 l’ideatore Harry Kupfer, Derek Gimpel. Superstiti delle recite del 2016 la Marescialla Krassimira Stoyanova e il buzzurro Ochs di Gunther Groissbock.

Non sto quindi a commentare la regìa, ennesima e discutibile ri-ambientazione del soggetto al tempo della composizione dell’opera o giù di lì, cosa che non condivido per varie ragioni, già in passato riassunte in queste mie considerazioni, ehm, filosofiche.

Il trionfatore della serata è stato (ma si poteva tranquillamente prevederlo) il Direttore russo, subissato da applausi e ovazioni ai due ritorni sul podio e al termine della recita

Ovviamente i suoi meriti sono squisitamente di natura musicale: non una battuta di Strauss è andata persa o manomessa, o deturpata: tutta l’opera è corsa via con quel carattere fluido che proprio l’Autore riconosceva essere nel DNA di questa musica. Nel saggio pubblicato sul programma di sala, Quirino Principe definisce il Rosenkavalier come opera dominata né da Apollo, né da Dioniso, ma da Hermes, il dio della musica. Ecco, mi verrebbe da dire che Petrenko abbia proprio interpretato così questo capolavoro.   

Di lui va celebrata la modestia e il riserbo: alle tre entrate sul podio ha dato solo un fugace saluto al pubblico; alla fine ha ringraziato ripetutamente l’orchestra, che ha sfoderato una prestazione davvero impeccabile, quasi senza neanche guardare la sala, che lo stava letteralmente sommergendo di ovazioni da stadio! E anche all’ultimissima uscita singola si è rivolto più alla buca che al pubblico.

Detto dell’onorevole prestazione del coro di Alberto Malazzi, rinforzato dai piccoli di Marco De Gaspari, resta da spendere poche parole sulle voci.

I due cugini più maturi non solo non hanno perso nulla rispetto alle loro prestazioni di 8 anni fa, ma mi sento di dire che abbiano acquistato (la Stoyanova in particolare) spessore sia vocalmente che scenicamente.

Kate Lindsey è stata un’ottima Octavian, e una superlativa Mariandel. Con qualche decibel in più di proiezione della voce le avrei assegnato la lode.

Johannes Martin Kränzle ha ben meritato come Faninal: anche per lui il Piermarini è forse troppo vasto!

Benissimo Sabine Devieilhe come Sophie, voce appropriata al personaggio, acuta (qui ha già fatto Zerbinetta!) ma rotonda, e soprattutto ben proiettata.  

Accomuno tutti gli altri (Gerhard Siegel, Valzacchi; Tanja Ariane Baumgartner, Annina; Caroline Wenborne, Jungfer Marianne Leitmetzerin; Bastian-Thomas Kohl, Notaio-Commissario e Jörg Schneider, Maggiordomo di Faninal – Oste) in un generale apprezzamento, ma con menzione per la Wenborne.

Per ultimo (italianità…) lascio Piero Pretti, interprete del Tenore, che deve cantare la famosa arietta di Molière (più… metà) nella sala dei ricevimenti del primo atto. Per dire che non se l’è cavata per niente male… salvo che anche lui, come il 90% dei tenori, non canta tutte le note di Strauss!

Si osservi il brano incriminato:

Il verso in un baleno viene cantato due volte, a breve distanza. La prima volta le parole in un ba… salgono dalla dominante LAb alla sesta SIb percorrendo croma, semiminima, semiminima, croma. Nella ripetizione quelle parole compiono lo stesso balzo in alto, ma con semiminima puntata più sei semicrome.

Della ventina almeno di esempi disponibili in rete, con i tenori più famosi di oggi e di ieri, io ho trovato ad eseguire precisamente il secondo passaggio solo Ben Heppner (59”), Fritz Wunderlich (1’53”) e Josef Traxel (1’25”). Gli altri al massimo, eseguono 4 o 5 delle sei semicrome.

Peccato, perché questa è una delle tante piccole ma preziose perle che Strauss ha disseminato nella sua straordinaria partitura, per evocare la consuetudine - tutta settecentesca - di lasciare all’interprete la libertà di variare le ripetizioni con propri abbellimenti.

Chiudo confermando comunque un voto di eccellenza a questa produzione, di cui il merito preponderante va al piccolo, grande… Cirillo!  

08 giugno, 2016

L’argenteo cavaliere ci riprova alla Scala

 

Ieri sera alla Scala seconda recita del redivivo Der Rosenkavalier, che a più di un secolo di distanza evidentemente continua a non convincere i milanesi (e non). Per carità, ora nessuno ha l’ardire – come accadde in quel lontano mercoledi 1° marzo del 1911 - di fischiare la musica del bavarese, accusandola di lesa maestà al nobile melodramma italico, perchè intrisa di eccessivo walzerismo viennese... O di irridere il testo del raffinato Hofmannsthal, che nella traduzione italiana doveva perdere parecchio dell’appeal che ha nella lingua originale, con tutte le sfumature del dialetto austriaco (che noi non crucchi ci perdiamo comunque anche ascoltando il tedesco). No, la disaffezione oggi si misura in numero di poltrone e di intere file di palchi andate deserte: una cosa, questa sì, al limite dello scandalo.

La nuova (per la Scala) produzione viene – tramite l’intermediario Pereira - da Salzburg ed è firmata dall’oggi 81enne Harry Kupfer. L’ambientazione – cosa che ormai supera il limite dell’abuso – è nella Vienna degli autori, non in quella di 150 anni prima. Quindi nei locali settecenteschi (su fondali di foto della Vienna novecentesca) lo scenografo Hans Schavernoch ci mostra – cito solo due esempi - un fonografo a manovella e una bellissima automobile (quella di Strauss doveva proprio essere così) e i costumi di Yan Tax sono pure da primo novecento, però con qualche tocco... vintage, come il taglio degli abiti di Octavian. (Delle scene c’è da elogiare la piattaforma che scorre da destra a sinistra e viceversa, assai efficace nel creare di volta in volta gli ambienti in cui si snoda la vicenda, mostrandoci anche ciò che avviene fuori scena, tipo l’ingaggio di Valzacchi-Annina da parte di Octavian). Naturalmente è un’ambientazione che deve fare i conti con la parrucca, e in particolare con quella di Ochs, oggetto fondamentale nel testo, poichè determina nientemeno che lo sviluppo della scena tragicomica del terz’atto: come sempre, anche qui il regista deve ricorrere al volgare parrucchino (perso e poi recuperato dal buzzurro di Lerchenau) che trasforma un’invenzione invero raffinata di Hofmannsthal in una gag da avanspettacolo. Come una gag diventa il duello Octavian-Ochs dell’atto secondo, con il nobilastro campagnolo ferito da una spada passatagli al volo dal ragazzo per invitarlo a combattere... O come la torma di ragazzini sedicenti-figli-illegittimi che nell’atto finale circondano Ochs, ben più numerosi dei 4 (quattro) previsti dal libretto. Tutte trovate abbastanza stantie – simili a quelle del precedente allestimento visto qui, a firma di Herbert Wernike, che avevo personalmente criticato assai a suo tempo - che non mi pare proprio valorizzino l’opera, ecco.   

Detto ciò, va comunque riconosciuto al vecchio Kupfer di averci presentato con grande equilibrio lo scenario socio-psico-esistenziale che caratterizza questo capolavoro: ci troviamo tutta l’apologia del regno di Maria Theresia, dal quale era nata l’Austria in cui vivevano (pieni di fama e... quattrini) gli autori, ma al contempo la meditazione sull’eterno fluire del tempo e sulla necessità di accettazione dei mutamenti che esso comporta per gli esseri umani. Tutto è un mistero, un grande mistero, ed esistiamo per questo, (sospirando) per sopportarlo. E nel “come” (con molta calma) sta la vera differenza. E parlo dei mutamenti a livello privato, come a livello pubblico: il futuro di Marie Theres’ come quello della nobiltà illuminata che lei impersona; quello della nobiltà retriva (Ochs); quello dell’emergente borghesia produttiva (Faninal); e infine quello dei giovani eredi (Octavian-Sophie). E al proposito la scena finale (indipendentemente dal mezzo di trasporto) è resa da Kupfer con perfetta aderenza allo spirito dell’opera.
___
A Krassimira Stoyanova va indiscutibilmente la rosa d’argento della serata. Un’interpretazione magistrale (grazie anche a Kupfer, certo) e una prestazione vocale di eccellenza, per potenza di suono coniugata con mirabile espressività.

Il travesti è Sophie Koch, che (per me) ha iniziato malissimo, per poi però ritrovarsi e fare una dignitosa figura in particolare nelle prove finali (terzetto e duetto) dove la sua voce (mi) è parsa trovare il giusto grado di morbidezza. Meglio di lei l’altra Sophie (il personaggio): quella di Christiane Karg, che ha sciorinato un bella voce squillante e appropriatissima alla figura della figlia-di-papà, caratterizzata al contempo da ingenuità e slanci battaglieri.

Günther Groissböck è finalmente un Ochs appropriato anche anagraficamente: ha solo pochi anni più del (probabile) 35enne bue che viene dalla campagna a nord di Vienna e che troppo spesso viene cervelloticamente presentato come un vecchio lurido e bavoso. Quanto alla prestazione vocale, mi è parsa più che apprezzabile, a partire dal timbro piuttosto baritonale, anche qui adatto ad impersonare un tipaccio esuberante e non un vecchio mezzo rincoglionito. Qualche decibel in più di volume non avrebbe guastato, tuttavia si son potuti (a fatica) udire anche i MI gravi (e persino l’impossibile DO sotto il rigo, proprio nel momento in cui si accommiata dalla Marescialla nel primo atto, mich tiefst beschämt).


Faninal è Adrian Eröd, che si comporta senza infamia a senza lode: voce non molto penetrante (dovrebbe essere da baritono acuto) che fatica ad arrivare su al loggione. Certamente più udibile (anche troppo...) invece la Silvana Dussmann che impersona la cameriera di casa Faninal, il cui vociferare non è però del tutto inappropriato al personaggio di zitella... accalorata, ecco.

Ora farò indebitamente di ogni erba un fascio, accomunando tutti gli altri numerosi personaggi in un generico apprezzamento per aver dato il loro onesto contributo. Faccio una piccola ma doverosa eccezione per il tenore italiano, che l’italiano di studi Benjamin Bernheim ha impersonato con bella prestanza e sfoderando al meglio gli squillanti SIb e il SI naturale che la particina comporta. Sempre efficace il coro (grandi e piccoli) di Bruno Casoni.

Lascio da ultimo il venerabile Zubin Mehta, capitano di lungo corso su queste rotte straussiane e concertatore sopraffino. Se mi posso permettere un appunto, gli imputerei un filino di rilassatezza nei tempi, che avrei (personalmente, sia chiaro) preferito più spediti e garibaldini. Già l’attacco dei corni (uno dei quali purtroppo non è stato perfetto, ma pazienza...) mi è parso ad orecchio piuttosto al di sotto del metronomo di 60 minime prescritto da Strauss. Ma al grande vecchio si può perdonare questo ed altro, perchè tenere in pugno con consumata maestrìa un oggetto come questo non è da tutti.

Trionfo quindi meritato e... peggio per i disertori.

10 maggio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°33

 

Il singolare concerto di questa settimana è affidato al… fido Giuseppe Grazioli, che impersona nientemeno che Richard Strauss mentre dirige un’orchestra che accompagna la proiezione di un film muto, cosa accaduta realmente in un lontano 1926.
L’anno prima una casa cinematografica austriaca, già in concorrenza con Hollywood, aveva convinto Strauss e il suo librettista-principe Hugo von Hofmannsthal a collaborare (con il regista Robert Wiene e il famoso scenografo Alfred Roller, già curatore dell’originale del 1911) ad un’impresa apparentemente storica, in realtà ridicola: mettere in pellicola (muta, dati i tempi) Der Rosenkavalier ed accompagnarne la proiezione con la musica suonata da una vera orchestra e per di più diretta dall’Autore!

Erano proprio tutti ingenui e fuori-dal-tempo, chè di lì a poco il film sonoro mandò in pensione non solo le pellicole mute, ma pure tutti i musicisti, più o meno da strapazzo (Strauss escluso, s’intende!) che accompagnavano – al pianoforte o con altri strumenti – la proiezione priva di suoni.

A distanza di quasi 90 anni invece questa idea, ripensata con l’ottica del come eravamo (anzi com’erano i nostri nonni o bisnonni!) ha magari un suo senso e (applicata con giudizio e parsimonia) merita pure il plauso dello spettatore. Poche settimane fa è stata presentata a Palermo, con musica diretta dallo stesso Frank Strobel che ne fece la ripresa alla Semperoper di Dresda, in occasione degli 80 anni dalla prima tedesca, nel 2006, ai tempi in cui fra i leggii dei primi violini della Staatskapelle faceva capolino un volto oggi piuttosto familiare qui in Auditorium:


Strobel è anche responsabile della colonna sonora, avendola adattata ad una durata di quasi 2 ore (1h 45’ per la precisione) cioè assai più ampia di quella originale, che supportava una proiezione di meno di 90 minuti. Altri prima di lui si erano cimentati in simili imprese, come ad esempio lo svizzero Armin Brunner che nel 1986 aveva arrangiato per un’orchestra di 17 elementi musiche del Rosenkavalier insieme a quelle di altri autori, quali Johann Strauss e Richard Wagner per accompagnare un’edizione ridotta del film. Ma altre ricostruzioni erano state fatte a partire dall’ultimo dopoguerra, al ritrovamento di spezzoni del film e delle partiture di Strauss.

Il film senza sonoro ha una trama (sulla quale mise poco o tanto le mani lo stesso Hofmannsthal!) piuttosto divergente da quella dell’opera, così come la musica che Strauss preparò alla bisogna, che solo in parte (pur cospicua) riprende quella originale.

Lo specchietto sottostante riporta - con riferimento agli 11 video pubblicati sul tubo della citata ripresa di Dresda - i tratti salienti della trama del film, di cui chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’opera non faticherà a riconoscere le marcate distanze da quella del libretto originale. Essendo andate oltretutto perdute alcune delle bobine del film, la ricostruzione qui presentata ipotizza un finale che è ancor più distante (e invero anche assai più insignificante e dozzinale) rispetto a quello dell’opera.


Ora, è pacifico che schermo cinematografico e palcoscenico abbiano strutturali differenze e possibilità o vincoli tali da imporre soluzioni assai diverse per i due scenari. Si capisce quindi come nel film vengano introdotte scene spettacolari che in teatro sarebbero impossibili (o ridicole) a realizzarsi: feste all’aperto con centinaia di ospiti in parchi sterminati, o battaglie con cariche di cavalleggeri in sconfinate praterie: quest’ultima trovata si accompagna quasi automaticamente alla corposa presenza nel film della figura del Maresciallo, che nell’opera invece viene soltanto citato e mai compare di persona.

Così come è ovvio che in un film muto sia praticamente impossibile riprodurre scene dove, nell’opera, vengono cantate arie o concertati durante i quali gli interpreti se ne stanno normalmente impalati (o quasi) per interi minuti e minuti. Al contrario, le possibilità fornite dal mezzo cinematografico (basti pensare anche soltanto ai primi piani) e l’assenza, in questo caso, del canto, sono tali da consentire al regista infinite trovate a livello di interpretazione: sul terreno serio-drammatico, come su quello gigionesco-macchiettistico. E nel film ci sono innumerevoli esempi dei due tipi, riguardanti, nel primo caso, i personaggi della Marescialla, di Octavian e di Sophie, nel secondo tipicamente Ochs e Faninal.  

Però alcune divergenze del soggetto del film rispetto all’originale non sono spiegabili con le esigenze, come dire, del mezzo tecnico. Ad esempio il ruolo di Annina e Valzacchi, perfettamente delineato nell’opera (incluso il repentino passaggio di campo dei due, da Ochs a Octavian) qui nel film assume contorni grotteschi e incomprensibili: Annina che si fa spia di una Commissione del buoncostume, invenzione questa piuttosto banalotta a dir il vero, poi lei e Valzacchi che, invece di tramare per Ochs, fanno i delatori per il Maresciallo, salvo infine pentirsi in modo quasi inspiegabile; la loro finale riconciliazione è più inspiegabile ancora: dove mai c’era stata la rottura?

Parliamo del rapporto Octavian-Sophie: nell’opera (secondo atto) è magistralmente scolpito in versi e soprattutto in musica il colpo di fulmine che li travolge al primo incontro, quando il Cavaliere reca la Rosa. Nel film invece tutto ciò è diluito in due successivi incontri (quello del Prater e poi quello della consegna della rosa) il che fa francamente scadere la vicenda a simpatica commediola delle sorprese a buon mercato. 

La scena del teatrino di strada, dove si rappresenta – toh, che combinazione! - una vicenda identica a quella vissuta da Sophie è francamente debole e gratuita, una trovata da avanspettacolo, così come la baruffa fra Ochs, Faninal e i rispettivi notai, che sembra proprio un debito a certi stereotipi del film muto, tipo Stanlio&Ollio, per dire.

Insomma, l’impressione che si trae è di un approccio che definirei quasi parodistico e persino bigotto (chissà se erano i costumi della metà anni ’20 ad essere arretrati rispetto a 15 anni addietro, o se era il pubblico delle sale cinematografiche ad essere considerato più arretrato di quello dei teatri d’opera): fatto sta che la scena iniziale – che nell’opera ci mostra nulla meno che l’ultimo amplesso fra la Marescialla e Octavian dopo un’intera notte d’amore – qui ci presenta il giovane che arriva di buon mattino ed entra dalla finestra per fare due innocue moine alla Marescialla, per poi andarsene presto. La conclusione del film, ricostruita di recente, ci presenta (ma certo non per responsabilità dei ricostruttori) accanto alla regolare costituzione della coppia Octavian-Sophie, una del tutto superflua quanto gratuita ricongiunzione fra Annina e Valzacchi, ma soprattutto la riconciliazione fra la Marescialla e il marito, che sembra fatta apposta per ottenere il nulla-osta del vescovo alla proiezione del film negli oratori dei paesini più arretrati della diocesi! Buttando così nel cesso tutta la straordinaria valenza psicologico-socio-politica dell’uscita finale della Marescialla al braccio di Faninal.

Quanto alla musica, il povero Strauss, mancandogli le voci, si vide costretto a ripetizioni di motivi non sempre appropriate o a inclusioni di musica estranea all’opera, come brani del Bourgeois gentilhomme (per la festa all’aperto) o addirittura scritta ad-hoc per supportare scene inventate per il film (vedi tutto ciò che riguarda il Maresciallo, battaglia compresa): insomma, un’operazione che complessivamente mi pare non faccia una buona pubblicità all’opera. Certo, gran parte della musica che si ascolta è proprio quella… e ciò è quanto basta ad accontentare l’orecchio!
___
laVerdi e Grazioli sono comunque da encomiare per la serietà e la diligenza con cui hanno affrontato la prova: dalla proiezione – sui due schermi laterali – della traduzione italiana delle didascalie, alla cronometrica precisione con cui l’orchestra ha illustrato le immagini. Oltre che al bellissimo suono (soprattutto il mitico argento straussiano) messo in campo. 

Quindi grande successo, pur in una serata caratterizzata da un’affluenza di pubblico decisamente sotto la media.

07 maggio, 2012

Un apprezzabile Rosenkavalier allieta il Maggio fiorentino


Ieri pomeriggio al Maggio – in una Firenze intristita dalla pioggia - seconda delle quattro recite del capolavoro straussiano. L’ascolto radiofonico della prima di venerdi aveva lasciato una buona impressione (parlo dell’opera e non certo dei deplorevoli interventi dei conduttori di Radio3) che ieri si è confermata in pieno, almeno ai miei occhi e alle mie orecchie.  

Teatro Comunale che presentava qualche vuoto di troppo (ci si aspetterebbe un tutto esaurito da titoli come questo). La crisi, i prezzi dei biglietti, i costi di trasferta per chi deve venire da fuori, forse il titolo stesso che (in Italia, ancor oggi) a molti purtroppo non dice molto, il cast (peraltro notevole) con nomi (in Italia, sempre) poco o punto conosciuti… o magari proprio il tempo uggioso, chissà… Di sicuro è uno spettacolo che merita anche qualche sacrificio materiale, di cui non ci si pentirebbe proprio!

Innanzitutto per la parte musicale. Che Zubin Mehta e l’Orchestra ci hanno sciorinato con grande cura e passione. Mi sento di fare solo un piccolo appunto al Maestro: aver alzato di una tacca di troppo il volume nelle ultime battute del delizioso terzetto finale, andando un filino a coprire le voci. Come contrappasso, il pubblico ha coperto lui a fine di second’atto, cominciando ad applaudire – a chiusura di sipario - quando ancora l’orchestra doveva esalare le ultime, mirabili, quattro battute in MI maggiore… così a lui non è restato che alzare le braccia verso i suoi professori, in segno di resa! (Forse da noi sarebbe bene contraddire la partitura e lasciare il sipario alzato fino a che il direttore non posa la bacchetta.)

Per il resto, una direzione accuratissima e un’interpretazione – per me – perfettamente in linea con lo spirito, oltre che con la lettera, della partitura. Perdonabili sono i diversi tagliuzzamenti - soprattutto della parte di Ochs nell’atto conclusivo - di cui fatico sempre a comprendere la ragione: che Strauss medesimo qua e là li abbia autorizzati o tollerati non li giustifica automaticamente. Ma tant’è.  

La compagnia di canto non sarà proprio stellare, ma mi è parsa benissimo assortita e all’altezza del compito. Angela Denoke impersona - nel canto e nel portamento scenico – la Feldmarschallin in modo egregio e commovente: il suo finale del primo atto è proprio una cosa sbudellante (ovviamente grazie al birraio bavarese!) Caitlin Hulcup è a sua volta un’efficace Octavian, bella voce che passa tranquillamente e si complementa a meraviglia con quella della Denoke, nei diversi momenti di dialogo fra le due. Forse meno pulita la Sophie di Sylvia Schwartz, una voce squillante… fin troppo (negli acuti a volte un filino pigolati). Però il duetto finale è stato un vero gioiellino… Kristinn Sigmundsson è un Ochs praticamente perfetto nella parte scenica, non certo nel canto, dove le parti in piano e nella cosiddetta ottava bassa lasciano un poco a desiderare. Eike Wilm Schulte è un onesto Faninal, anche lui meglio nel lato attoriale. Mi ha ben impressionato Ingrid Kaiserfeld, una Duenna altrettanto efficace come attrice che come canto, una bella voce, intonata e sempre pulita in tutta la gamma.

Rimando alla locandina per gli altri interpreti (cosiddetti minori) che hanno tutti ben meritato. Solo un cenno speciale per Celso Albelo, data la rilevanza qualitativa (non certo quantitativa) della sua particina: che lui ha compitato in maniera apprezzabile, mancandogli forse un tocco di espressività… I Cori del Maggio (Piero Monti) e di Fiesole (Joan Yakkei) hanno egregiamente svolto il loro non improbo compito.   

Per tutti – orchestra compresa, salita sul palco con Mehta - alla fine un gran trionfo con minuti e minuti di applausi e ripetute chiamate.

Quanto alla regìa di Eike Gramms devo dire che non mi ha convinto del tutto. Il regista medesimo, nelle note sul Programma di sala, ammette di avere ambientato l’opera tra la metà del XVIII secolo e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ora, a parte le scene che richiamano vagamente il settecento, il resto (i costumi, ad esempio) sono invece più da inizio novecento. Un po’ come nella regìa di Herbert Wernike ripresa tempo fa alla Scala, sui cui avevo manifestato le mie personali perplessità.

Della quale regìa Gramms ha persino copiato alcuni dettagli: come il parrucchino di Ochs (che non ha alcun significato, salvo quello di rendere vagamente plausibile – in realtà incomprensibile - il riferimento che vi fa il Commissario) al posto della parrucca (simbolo preciso della nobiltà settecentesca); oppure la pletora di ragazzini (in luogo dei quattro prescritti) sedicenti figli del medesimo Ochs, che trasforma in parodia ciò che per il librettista era un aspetto grottesco sì, ma serio!

Per fortuna Gramms non copia da Wernike il sottofondo pessimistico generale; ad esempio sottolineato dall’uscita di scena finale di Marie-Therese e di Faninal (in direzioni opposte) per la quale Gramms invece rispetta in pieno il libretto (facendoli uscire sottobraccio, il che ha un precisissimo e positivo significato sociologico, oltre che esistenziale!)

Per il resto, quanto a rispetto del libretto e delle didascalie di cui abbonda la partitura, soprattutto nei movimenti e nelle posture dei personaggi, va dato atto a Gramms di averne molto: sempre a differenza di Wernike, tanto per fare un esempio banale, noi vediamo Rofrano ferire il barone al braccio destro, non ad una natica (smile!) Utile anche l’esplicitazione sceneggiata del passaggio di campo (da Ochs a Rofrano) di Valzacchi-Annina nell’atto secondo.

In conclusione: uno spettacolo complessivamente apprezzabile, di quelli che in Italia – credo io - andrebbero programmati più di frequente (*).

(*) Ps: come concorda anche Amfortas

05 ottobre, 2011

Un Cavaliere della rosa (con spine) alla Scala


Ieri sera Der Rosenkavalier ha avuto la sua seconda recita alla Scala, tutto sommato accolta assai favorevolmente da un pubblico non foltissimo, e con parecchi… disertori lungo il cammino delle quasi 4 ore e mezza di spettacolo.

Ecco invece come Bruno Walter (il 13 aprile 1911) descrisse la prima viennese dell'opera (avvenuta 5 giorni avanti) ad un Mahler che si trovava a Parigi, arrivato ormai ad un passo dalla fine:

Caro amico! Vi volevo raccontare della prima del Rosenkavalier, che si è appena tenuta qui. Il mio parere riguardo a Strauss non è cambiato. Di fatto, sono ancora più disgustato di prima. L'opera è in tutto e per tutto un fallimento. L'insincerità assoluta del libretto, la fuga da quelle rare qualità che Strauss ancora padroneggiava: arguzia, estro e un certo qual gusto. Si tratta di un tentativo penoso e mancato di inventare melodie e walzer degni di Lehar, un lurido ammasso di sentimento, o piuttosto di sentimentalismo (…) in breve: una penosa e macchinosa volgarità (…) Ma questi walzer! Queste 'melodie' di terze! Queste dolcezze nauseabonde! Nessun cognac al mondo potrebbe rimettere a posto lo stomaco di chi le ha ingurgitate!

Una decina d'anni o poco più tardi lo stomaco di Walter si doveva essere parecchio irrobustito, visto che a Londra il nostro diresse alcune recite dell'opera rimaste memorabili, con la grande Lotte Lehman nella parte della Marescialla.

La quale è la protagonista assoluta dell'opera, pur essendo in scena soltanto (si fa per dire) per un atto e un quarto: tutto e tutti in fondo si muovono in funzione sua, come pianeti e satelliti di una stella di prima grandezza. Inoltre – e la cosa potrebbe sembrare paradossale, parlando di una signora sposata che se la fa con un cuginetto di quasi 20 anni più giovane – lei ha una moralità profonda, che le deriva in primis dalla presa di coscienza della sua stessa condizione e della sua propria vicenda esistenziale. E di conseguenza possiede anche – a suo modo – una certa religiosità, magari ereditata dalla passata vita monastica, che non soltanto si materializza nel suo andare in chiesa e nel suo far visita al vecchio zio paralitico, ma che tocca il punto più alto quando la Bichette spiega al suo Quinquin che il crudele tempo proviene, come tutto, dallo stesso e unico creatore:

Però non dobbiamo neppure averne timore. Anche il tempo è una creatura del Padre che tutti noi ha creato.(Parli come un prete, l'ammonirà di lì a poco l'ingenuo, acerbo Quinquin…)

Certo, qualche complesso di colpa lo deve avere anche lei se, mentre dorme accanto al giovane amante, sogna il ritorno improvviso del marito! E se ancora ne sospetta l'arrivo, sentendo un trambusto in anticamera, mentre fa colazione con Quinquin:
Ma sono poche battute dell'Introduzione, riprese poi letteralmente nella prima scena (dopo Ich hab' dich lieb) a descrivere - meglio di pagine e pagine di parole - lo stato d'animo della Marescialla, combattuta fra la lancinante prospettiva dell'invecchiamento (e quindi della perdita dell'amore di Octavian) e la serena rassegnazione di una donna che ha capito i misteri dell'esistenza:
Sono quattro battute in cui sono evocati: il settimo cielo dell'amore (carnale e spirituale insieme) raggiunto con quel salto di ottava ascendente sulla dominante di MI (SI-SI) che ha il coraggio di spingersi ancora più in alto, fino alla sesta (DO#) ma che subito ricade per più di un'ottava (sul DO naturale sottostante) a mostrarci lo strazio di chi vede sempre più vicina l'ineluttabile fine (lo stesso intervallo discendente sottolineerà l'ebete constatazione del povero Ochs, nel terzo atto, di fronte alla rivelazione dell'identità Octavian=Mariandel); ma poi ecco una caparbia ripresa – il ritorno alla sesta giusta e la risalita alla quarta superiore – per dar luogo infine ad un rientro nella normalità delle leggi fisiche, musicali ed… esistenziali, con la discesa sulla dominante. Che porta, nelle battute successive, ad un sereno ritorno a casa (la tonica MI). Qui pare davvero condensarsi l'intera vicenda dell'opera e l'intera vicenda umana della protagonista, che passa dall'estasi amorosa alla depressione sconfortata, per poi imboccare il suo viale del tramonto nella serena rassegnazione ed accettazione di ciò che il buon Dio (Der liebe Gott) deciderà. E il motivo, carico di significati, torna (abbassato di un semitono, tonalità MIb) nei primi violini e nel violoncello solo alla chiusa del primo atto, a sottolineare l'ordine che la Marescialla impartisce a Mohammed di consegnare la rosa d'argento al Conte Octavian.


Sappiamo che la vicenda narrata nell'opera è tutta un'invenzione, e a prima vista ci pare fuori luogo che la Vienna della nobiltà del 1740-45 sia musicalmente caratterizzata dal walzer, cento anni prima del dovuto. Ma dietro queste apparenze c'è parecchia sostanza. Perché in realtà Hofmannsthal e Strauss hanno voluto individuare in quella Vienna alcuni caratteri, ancora in nuce, della Vienna dei giorni loro.


E non solo nella musica (a metà del '700 il ballo dei nobili era il casto menuetto, ma il ländler, poi walzer, cominciava a farsi largo, anche fra le classi non plebee, come ci dimostra il nobile buzzurro Ochs) ma anche nei rapporti sociali: quale differenza fra la vicenda personale di Marie-Theres, mandata prima in convento (ed è difficile pensare ad una genuina vocazione, in una donna come lei!) e poi tolta da lì per essere data in sposa ad un nobile sconosciuto (per quanto ricco) e la vicenda di Sophie (che non pare proprio un modello di ragazza pia e arrendevole) e Octavian (che è quello che oggi chiameremmo un figlio-di-papà, piuttosto viziato e facilitato nei suoi vizi dall'avere anche un aspetto attraente… ricco e pure bello, insomma). Il fatto nuovo, rispetto alle consuetudini di quella civiltà - tanto felice quanto decadente - è che i due ragazzi si uniscono perché – toh! - si sono innamorati (quanto poi fallace o duraturo sia questo sentimento conta relativamente) e non perché qualche architetto-di-interessi o ingegnere-di-pedigree abbia così deciso in laboratorio! Il duetto che sottolinea il loro primo incontro, nel second'atto, è – parole e soprattutto musica – la più straordinaria espressione di questo new-deal nel campo dei rapporti personali e sentimentali all'interno delle classi dominanti.

Interessante notare che, poco prima, al momento delle presentazioni, Sophie aveva cantato Ich kenn' Ihm schon recht wohl, mon cousin! (ti conosco già molto bene, mio cugino) su un motivo che arriva direttamente dalla quarta sinfonia di Mahler, primo verso del Lied dell'ultimo movimento Wir genießen die himmlischen Freuden (noi godiamo le gioie celestiali) persino nella stessa tonalità di SOL maggiore:
Un riferimento – testuale oltre che musicale - per nulla peregrino.

Invece la figura invereconda che vien fatta fare ad Ochs (davvero un bue) è quella che tutta la nobiltà retriva e parassitaria farà qualche decina d'anni più tardi. Mentre l'uscita di scena di Marie-Theres al braccio di Faninal rappresenta mirabilmente il feeling nascente fra la nobiltà illuminata e la borghesia produttiva.

Insomma, dietro l'apparente frivolezza e vacuità del soggetto si celano contenuti di una certa profondità, e soprattutto una visione positiva e apologetica (magari patetica e ottusa… nel 1910) della società viennese e mitteleuropea, in cui gli autori peraltro erano inseriti con grande successo, non dimentichiamolo: da qui l'idea di rappresentare con una commedia leggera i fermenti e i sommovimenti che avevano portato la società settecentesca ad evolversi verso quella di cui loro vedevano e godevano ancora gli aspetti positivi.

Invece l'ormai ammuffita regìa di Herbert Wernike – scomparso da qualche anno – purtroppo non fa che riproporci il vecchio e piuttosto cervellotico stereotipo del Rosenkavalier come opera decadente e pessimista, in cui si prefigurerebbe l'imminente tracollo di una civiltà della quale sarebbero messi in evidenza tutti gli aspetti grotteschi e farseschi.

Di questa visione (per me) distorta è testimonianza l'ambientazione nella Vienna del primo '900 (quando l'opera venne composta e rappresentata) dove quei fenomeni - che 150 anni prima erano solo in gestazione – avevano avuto ormai il loro sviluppo e dove casomai se ne preparavano di completamente diversi e non certo rassicuranti. Un esempio minuscolo, ma significativo: nell'atto conclusivo ha – o dovrebbe avere – una certa importanza la parrucca che Ochs si è tolto per iniziare i suoi approcci amorosi con Mariandel, e che non riesce più a trovare dopo l'acciaccapesta in cui è stato coinvolto. Di quello speciale tipo di copricapo lui avrebbe un bisogno assoluto per convincere l'Unterkommissarius del suo status di nobile, ed infatti l'ufficiale di polizia gli domanda subito perché un barone non l'abbia in testa, la parrucca. Ecco, il senso di questa scena – e del testo che continuiamo ad ascoltare! - si perde irrimediabilmente se l'ambientazione è diversa, in un mondo dove la parrucca con il suo significato di classe non esisteva più ormai da un bel pezzo e dove – per supportare in qualche modo il libretto – la parrucca viene sostituita da un volgare parrucchino!

Ma anche il walzer, se viene ambientato ai tempi di Strauss, viene contemporaneamente svilito a puro simbolo di una società in via di putrefazione (da qui tutte le accuse di meschino conservatorismo rivolte da sempre al compositore) mentre in realtà ai tempi di MariaTeresa era una forma musicale che stava diventando uno dei motori del nuovo assetto sociale, nientemeno.

E anche l'uscita della Marescialla e di Faninal, che se ne vanno in direzioni opposte sullo sfondo di un viale del tramonto, ci rappresenta lo specchio della società asburgica ormai in pieno disfacimento, perdendo tutto il (positivo) significato sociologico e di costume che possiede quando correttamente ambientata e presentata come da libretto.

In più dobbiamo registrare le solite trovate pseudo-intelligenti, come l'arlecchino, che pare messo lì dal regista tedesco per rincarare la dose di sberleffi sugli sbifidi italiani. O la pletora di bambini (invece dei quattro previsti) fatti passare per figli illegittimi di Ochs (l'unico aspetto positivo qui è l'occasione data al Coro di voci bianche di Casoni per mettersi in mostra…) Non parliamo poi dello scalone da Wanda Osiris impiegato per l'arrivo di Octavian in casa Faninal. E infine dello spostamento della ferita che Octavian ha inferto ad Ochs, dall'omero alla chiappa!

Per la verità l'allestimento ha anche qualche aspetto interessante, come l'impiego degli specchi, che consente al pubblico di vedere dietro (i separé, le tende, i paraventi, dove si svolgono parti importanti della scena). In particolare, nel secondo atto questa trovata consente al regista di mostrare i movimenti dalla coppia Valzacchi-Annina che si appostano per cogliere in flagrante i due innamorati; e poco dopo anche per spiegare allo spettatore in modo esplicito (cosa non riscontrabile nel libretto) come, dove e quando avvenga il passaggio di casacca dei due faccendieri italiani dal campo di Ochs a quello di Octavian (+Marescialla.)

In definitiva, una regìa per me abbastanza deludente proprio nell'impostazione di fondo.
___

Sul fronte musicale, notizie abbastanza confortanti da orchestra e direttore. I professori per lo meno non hanno combinato guai, e dati i tempi grami la cosa è già un successo. Philippe Jordan – al contrario del regista – mi è parso prendere l'opera dal verso giusto. Cito un piccolissimo, ma per me significativo particolare: l'accompagnamento del tamburo militare al walzer che chiude il secondo atto. Di solito (da 4'09") non lo si sente quasi, forse in omaggio all'idea che quello sia un walzer da nobilitare. Jordan invece ci fa sentire chiaramente (e correttamente, non come l'esagerato, oltre che pentito, Bruno Walter, qui a 5'50") quello strumento, che sottolinea con discrezione la rozzezza di quei primi walzer settecenteschi e campagnoli.

Di tutta la compagnia cantante mi sentirei di citare con ampia sufficienza la DiDonato (Octavian) dei primi due atti (nel terzo si deve essere spiritualmente trasferita al teatro Smeraldo, smile!) e Rose (Ochs) e di non censurare i comprimari. Degli altri interpreti principali, passabile Ketelsen (Faninal) con il suo vocione in fondo abbastanza appropriato al personaggio, e appena appena sufficiente la Archibald (Sophie) che non è andata esente da qualche urletto; quanto alla Schwanewilms (Marescialla) canterà anche bene, ma più che altro mi è parsa una grande attrice di film muti (smile!): a parte gli scherzi, dal loggione si faticava a sentirla. Álvarez ha sparato i suoi SIb e SI naturale senza apparente fatica, vuol dire che può ancora sostenere ruoli dove debba cantare per un paio di minuti (!)

Tirando tutte le somme – a mio modestissimo avviso – oltre ad un poco di profumo della rosa si sono sentite (ahi-ahi!) anche parecchie punture di spine.
--

29 settembre, 2011

La Marescialla torna alla Scala



Il penultimo titolo della stagione scaligera 2010-2011 è Der Rosenkavalier, il capolavoro di Richard Strauss che sarà in cartellone da sabato 1 ottobre.

In attesa di assistere allo spettacolo, qualche considerazione su libretto e trama, troppo spesso liquidati come pura (per quanto mirabile) forma senza contenuto. E l'apparenza effettivamente è quella di una commedia comico-patetica, un divertissement se non addirittura un vaudeville, che avrebbe come unico obiettivo quello di permettere a Strauss di sbizzarrirsi con i suoi walzer e i suoi temi erotico-eroici.

A me pare invece che, sotto la scorza dell'effimero, si nasconda qualcosa di serio e degno di attenzione: alludo precisamente al ruolo e alla personalità di Marie-Theres, la Marescialla. Tutta la vicenda dell'opera, a ben guardare, è da lei pilotata verso il raggiungimento di un obiettivo primario, privato ed esistenziale (potremmo chiamarlo la soluzione del problema-Quinquin) e, in subordine, di un obiettivo per così dire di civiltà (la soluzione del problema-Ochs). È l'irrompere nella sua vita del problema-Ochs che le dà l'occasione per affrontare e risolvere, con intuito geniale, anche il problema-Quinquin, che la perseguita e la tormenta da tempo, portandole qualche ora d'amore sfrenato e interminabili notti d'angoscia.

Il disgusto che prova per i comportamenti del cugino di Lerchenau e, insieme, l'incarico che lui le affida (individuare il Rosenkavalier che consegni la rosa d'argento alla giovane Sophie) fanno immediatamente balenare nella mente della Marescialla il mirabile piano – dapprima sfuocato, ma che si andrà via via precisando nei minimi dettagli – che le consentirà di pilotare, anziché subire passivamente, il pur doloroso distacco da Octavian.

Nel momento stesso in cui indica ad Ochs – mostrandogliene il ritratto – che sarà Octavian Rofrano il Rosenkavalier, lei già ha davanti agli occhi almeno il primo passo (ma il più importante) della vicenda che si svilupperà nelle ore successive: Octavian e Sophie che si innamorano a prima vista. Il resto verrà di conseguenza e sarà ancora e sempre lei a guidare le danze. Ma intanto, in quel preciso momento, il suo subconscio già le dice che la notte d'amore appena trascorsa col suo Quinquin (di cui abbiamo avuto uno straordinario riassunto in musica nell'Introduzione orchestrale) è stata anche l'ultima; se ne renderà conto compiutamente nel momento in cui Octavian si congeda da lei (che gli ha dato appuntamento per una passeggiata al Prater nel pomeriggio) e lei si dispera (sussulta appassionatamente) per non avergli dato un (ultimo) bacio: e lo schianto che sentiamo in orchestra (Heftig bewegt) ci trasmette mirabilmente tutta la pur momentanea disperazione della donna.

Un altro piccolo, ma non insignificante particolare: allorquando Ochs le consegna il cofanetto con la rosa, il buzzurro lo vorrebbe aprire per mostrargliela, ma lei glielo impedisce, e lo prega di appoggiarlo da qualche parte. Capiremo nel secondo atto che quel gesto non è casuale, né irrispettoso: sulla rosa d'argento sono state versate alcune gocce di olio persiano, il cui inebriante profumo si libera non appena si apre il cofanetto; e quel cofanetto dovrà essere consegnato da Octavian e aperto davanti alla bella Sophie, che rimarrà turbata da quel profumo non meno che dall'affascinante Rosenkavalier!

Le vicende tragi-comiche del secondo atto nel palazzo-Faninal non sono per nulla casuali: l'innamoramento a prima vista fra i due giovani e la pessima figura che lo sbifido barone fa agli occhi di Sophie non lasciano spazio a dubbi su quale sarà l'esito della cerimonia. Ma è in quello che accade dopo che ritroviamo lo zampino della Marescialla: il biglietto con cui Mariandel invita il barone ad un incontro amoroso non può non essere opera (o idea) sua! È parte del piano per la soluzione del problema-Ochs: dare una bella lezione al disgustoso barone, che tratta il sesso femminile come carne da macello e come fonte di arricchimento.

E tutta la messinscena del terzo atto non può certo essere opera esclusiva di Octavian, anzi. A cominciare dalla taverna dell'appuntamento, che non si trova in un posto qualunque, ma guarda caso in un sobborgo viennese dove il vice-commissario della Polizia è uno dei più fidati attendenti del Feldmaresciallo, marito di Marie-Theres… Per non parlare poi dell'ingaggio del duo Valzacchi-Annina, dove la mano della Marescialla si vede da lontano. Ed ancora, il tempestivo invito (a firma falsa Ochs) a Faninal e figlia di recarsi sul posto e infine l'arrivo – proprio sul più bello, e persino sorprendendo lo stesso Octavian – della Marescialla in persona ci confermano che è lei ad aver architettato il tutto.

Raggiunto abbastanza facilmente l'obiettivo secondario (annichilire lo spregevole Ochs) alla Marescialla resta da portare a termine l'impresa più difficile: risolvere nel migliore dei modi per tutti (e senza traumi per se medesima) il problema-Quinquin. Cosa per nulla facile, giacchè proprio il ragazzo, come l'asino di Buridano, si ferma a metà strada fra lei e Sophie, rendendole il compito ancor più penoso. Ma è qui che lei dimostra tutta la sua nobiltà d'animo, ricordando di aver promesso a se stessa di amare il suo Quinquin in der richtigen Weis', nel modo giusto: amando lui, ma anche chi lui avrebbe successivamente amato! E persino la sua uscita finale, al braccio di Faninal, ci lascia intravedere qualcosa del suo futuro.

Insomma, una bella lezione di autentico femminismo, non c'è che dire…
--