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24 agosto, 2024

ROF-2024: chiusura con Il viaggio a Reims da… Piazza del Popolo.

È ormai tradizione da quando esiste quella diavoleria chiamata streaming che l’ultimo atto del ROF venga irradiato su maxischermo nella piazza principale di Pesaro, che su due dei suoi lati contigui (nord e est) ospita rispettivamente la sede storica e quella moderna del Comune della città, sponsor dell’iniziativa.

Quest’anno per il gran finale è stato proposto Il viaggio a Reims, in forma concertante, eseguito nel ritrovato Auditorium Scavolini. Ricorrono infatti i 40 anni dalla prima uscita al ROF di questo autentico gioiello, illustrato allora dalla prima edizione critica di Alberto Zedda e da una coppia di artisti semplicemente passata alla storia: Claudio Abbado e Luca Ronconi, coadiuvati allora da un cast che definire stellare è ancora riduttivo.  

E anche io ho deciso – non è la prima volta – di assistere allo spettacolo seduto su una (piuttosto scomoda) sedia nella Piazza, in mezzo a tanta gente che magari non frequenta abitualmente teatri e sale da concerto, ma che nondimeno segue questi eventi con passione e… applaude proprio come a teatro.

Per evidenti ragioni non farò qui alcun commento sulla parte musicale dell’evento, limitandomi a riferire dell’entusiastica accoglienza del pubblico, quello all’interno (dell’Auditorium) e quello all’esterno (in piazza).

Chiude così i battenti anche questa edizione particolare del Festival. Che ci ha riservato (come quasi sempre, del resto) interessanti novità, attese conferme e… un benefico e ubriacante diluvio di note rossiniane!    


17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

19 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Adina



Ieri al Teatro Rossini (con qualche vuoto di troppo, probabilmente dovuto al bizzarro orario di inizio, le 16:00, quando anche i melomani più incalliti sono ancora in spiaggia o in barca) è andata in onda la terza recita di Adina.

Prima dell’inizio si ode l’annuncio che la protagonista Lisette Oropesa canterà regolarmente, anche se afflitta da una non meglio precisata indisposizione (di certo non una scottatura...) Invece un doveroso minuto di raccoglimento per ciò di cui il Paese è ancora sotto choc è stato rispettato solo perchè uno spettatore ne ha urlato la richiesta a Diego Matheuz, che stava ormai dando l’attacco del preludio. E meno male che il Direttore venezuelano ha meritoriamente raccolto l’invito.
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Adina è opera notoriamente controversa, quanto alle origini e alle circostanze della sua composizione. Fabrizio Della Seta, che alla fine del secolo scorso ne curò l’edizione critica, ne ha ricostruito i contenuti musicali in un saggio pubblicato sul programma di sala. Da esso ho ricavato questo schema che sintetizza la struttura del lavoro, con l’indicazione della fonte di ciascuna sua parte, inclusi gli auto-imprestiti (dal Sigismondo). Come si nota, oltre al compositore, le musiche sono di mano di un non meglio identificato Collaboratore (così lo apostrofa Della Seta) e di copisti/collaboratori capaci di predisporre i recitativi secchi o di riprendere e adattare musiche auto-imprestate. Ma alcune parti sono di mano del compianto Philip Gossett e dello stesso Della Seta.

numero
Rossini
Collaboratore
copista / collab.
1. Introduzione
X


    recitativo


X
2. Cavatina (Adina)
(deriv. Gazza Ladra)
orchestrazione

3. Coro


(Sigismondo - Viva Aldimira)
    recitativo


Gossett - Dalla Seta (Coro 3b)
4. Duetto

X

    recitativo


X
5. Aria (Califo)

X

6. Sc.-Aria (Selimo)


(Sigismondo - Cavat. Ladislao)
    recitativo


X
7. Quartetto
X


    recitativo


X
8. Aria (Alì)


(Sigismondo - Rondò Anagilda)
    recitativo


X
9. Aria (Adina) - Fin.
X



Insomma, un bel pot-pourri che si spiega con la fretta di Rossini (che era occupato in ben più importanti impegni a Napoli) oltre che con le difficoltà relative al luogo della prima rappresentazione (Lisbona); difficoltà che spiegano probabilmente anche il ritardo di ben 8 anni fra composizione e andata in scena!
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La recita di ieri (mi) ha confermato le positive impressioni ricevute dalla prima ascoltata in radio. Lisette Oropesa ha sfoggiato la sua voce cristallina, oltre che una bella presenza scenica. Levy Sekgapane ha una vocina sottile-sottile, ma adatta a questo ruolo di ragazzo timido e ingenuo. Efficace Vito Priante nella parte del ruvido Califo, capace peraltro anche di slanci affettuosi. Di buona fattura le prestazioni dei due comprimari: Matteo Macchioni che impersona la... macchietta di Alì e Davide Giangregorio, un simpatico Mustafà. Eccellente il Coro della Fortuna (Mirca Rosciani) ben disimpegnatosi anche sul fronte dellla presenza scenica.

Diego Matheuz  ha diretto con sobrietà la Sinfonica Rossini, senza sbracature e con attenzione all’equilibrio fra buca e voci.
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La farsa fu originariamente definita come un’opera in un atto unico, di contenuto serio o comico. La trama si fonda tipicamente su equivoci, qui-pro-quo, malintesi, fischi-per-fiaschi, roma-per-toma e simili bizzarrie, che possono dar luogo indifferentemente ad esiti esilaranti o tragici. Con l’andar del tempo per farsa si è sempre più intesa una pièce di carattere umoristico e improbabile, e il termine farsesco è divenuto sinonimo di ridanciano, sboccato e cialtronesco.

E proprio in questa accezione Rosetta Cucchi ha interpretato il soggetto di Adina, a dispetto del suo sottofondo potenzialmente tragico. Così l’ambientazione è in un’allegra festa di matrimonio (fra Califo e Adina) e poco traspare del dramma della protagonista e del suo innamorato Selimo. Salvo il loro arresto al momento della tentata fuga, arresto peraltro eseguito da guardie abbigliate come nelle più classiche vignette di cartoon satirici. 

La scena di Tiziano Santi è assolutamente statica: una gigantesca torta nuziale a tre piani, sui quali si muovono protagonisti e figuranti (o coristi) e all’interno della quale si intravedono ambienti domestici. I costumi di Claudia Pernigotti nulla hanno a che vedere con il testo del Bevilacqua, riproducendo una fauna umana popolata da tamarri o capi-cosca (Califo) e moderni eunuchi (Alì, che calza scarpe da donna, peraltro con tacco basso per evitare... cadute) con la quale devono convivere i poveri Selimo e Adina (anche loro tutt’altro che sobri nei rispettiivi abbigliamenti). Anonimo invece il giardiniere Mustafà, con qualche vegetale in testa. Daniele Naldi firma l’impiego delle luci, piuttosto elementare: sempre chiaro abbagliante, salvo che nel siparietto notturno.

Tutto sommato uno spettacolo accattivante e scorrevole, che il pubblico ha mostrato di gradire assai, con calorosi applausi e numerose chiamate per tutti.

20 maggio, 2018

A Torino spopola Anna Caterina Antonacci


Ieri pomeriggio al Regio è andata in scena la seconda recita del dittico imperniato sulla figura di interprete di Anna Caterina Antonacci. (Mercoledi scorso Radio3 ha diffuso i suoni della prima.) Pubblico piuttosto scarseggiante (per illuderci che non sia puro disinteresse diamo la colpa alla contemporanea rappresentazione del settimo sigillo...) Regio che, negli ultimi tempi, ha visto la sostituzione dei principali livelli di responsabilità: Maestro del Coro, Direttore Musicale, Direttore Artistico e Sovrintendente! Il tempo dirà se sarà stato un bene... Intanto - battutaccia - perchè già che c’erano non sono saliti con le sostituzioni anche un gradino più su?

La produzione in onda in questi giorni è di stampo franco-belga-lussemburghese e risale a qualche anno fa; la si può apprezzare (in audio) anche in rete, nella versione parigina:

Il segreto di Susanna, di Ermanno Wolf-Ferrari e

La voix humaine di Francis Poulenc.

Due opere brevi venute alla luce nel ‘900 a 50 anni esatti di distanza (1909 e ’59) ma - o proprio per questo - totalmente diverse come concezione e contenuti. 
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Il segreto di Susanna vede la luce - per inquadrarne lo scenario musicale - nell’anno della straussiana Elektra, dalla quale non potrebbe essere musicalmente più distante. Di Strauss sembra casomai anticipare qualcosa del Rosenkavalier (vedi il tema d’amore per... la sigaretta) in fatto di delicatezze e frivolezza. Insomma, l’italo-tedesco di nascita sembra tenersi alla larga da certe tendenze contemporanee (niente verismo e niente espressionismo): casomai i modelli sono settecenteschi e gli ammiccamenti (vedi Chopin...) guardano al profondo ‘800.

Il soggetto oggi trasformerebbe gli autori in... perseguitati, accusati di istigazione a delinquere; ma ai tempi il fumo stava diventando una moda, anzi un distintivo di promozione sociale e uno dei primi (deteriori?) simboli di femminismo (!) Così il Regio immagino abbia dovuto ottenere qualche specialissima deroga per poter far accendere più di una sigaretta in un luogo pubblico. Insomma, l’attualità del soggetto sarebbe assai discutibile, e qualche regista in vena di genialate si potrebbe inventare segreti più... cool, diciamo.

Invece Ludovic Lagarde si attiene scrupolosamente al testo a ci presenta così questa storia che più inattuale non si può. Ma è la musica, ovviamente, a riscattare la banalità del soggetto. E la musica la fanno la Antonacci e il partner Vittorio Prato, ben coadiuvati dall’Orchestra del Regio diretta da quel prodotto del benemerito Sistema-Abreu che va sotto il nome di Diego Matheuz.

Encomiabile sul piano dello spettacolo anche l’apporto (muto) di Bruno Danjoux.
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Ecco poi La voix humaine, nella quale Poulenc mise in musica il testo di Jean Cocteau risalente al 1930. E qui tutto il mondo ruota attorno alla personalità della Antonacci, che in questi ultimi anni è diventata un punto di riferimento per il ruolo. La sua immedesimazione nel personaggio è totale, ma perfetto è il suo recitar-cantando, che coniuga mirabilmente l’essenziale musicalità di Poulenc con la crudezza del testo di Cocteau (che aveva da parte sua riconosciuto al compositore il merito di aver ricoperto il suo testo di suoni come meglio non si potesse).     

In questa edizione vengono tagliati (nella citata registrazione parigina a 32’24”) due passaggi consecutivi (e precisamente quello che inizia (cifra di lettura 79) con C’est entendu, mon amour; e il successivo (cifra di lettura 81) Voilà deux jours qu’il ne quitte pas l’antichambre… Si riprende (cifra di lettura 84) con Allô ! Allô ! Madam’ retirez-vous. Nel primo dei due passaggi la protagonista (che ha appena confessato il tentativo di suicidio) parla delle sue notti divenute insopportabili, costellate da sogni, e dei risvegli che la ripiombano in una vita senza prospettive. Segue il lungo passaggio dedicato al cane, anche lui divenuto intrattabile da quando l’amante della donna non si fa più vedere. Si tratta di tagli peraltro non infrequenti (chissà, forse messi in atto per evitare di dover conseguentemente portare in scena anche la pora bestia...): passaggi che si possono ascoltare (da 33’46” a 37’02”) in questa edizione integrale con Renata Scotto del 1996.

Anche qui Matheuz mostra di saper il fatto suo, guidando sapientemente l’orchestra sia negli accompagnamenti, che nei dialoghi con la protagonista, ma anche nei... silenzi, che caratterizzano questa difficile partitura dove non mancano, accanto alle prevalenti atmosfere cupe, strazianti se non disperate, anche momenti di serenità e vitalissimi slanci.

Lagarde, che nella Susanna aveva mantenuto la scena fissa (un soggiorno fiancheggiato da due corridoi e con un vano centrale comunicante con finestrella, il tutto illuminato con... 50 sfumature di rosa, fino al violetto) nella Voix impiega la piattaforma girevole per far comparire - oltre al soggiorno di cui sopra - anche altri due ambienti: la camera da letto e il bagno (dove una gran vasca viene riempita d’acqua fino a farla tracimare - chiara allusione allo sfacelo che si compie nella mente della protagonista). Il colore predominante è il bianco, con un po’ di grigio. La base girevole si muove spesso e volentieri, non sempre con motivazioni precise, ma questo è forse un ulteriore modo per sottolineare il girare a vuoto dell’esistenza della donna. I telefoni sono due (nero e rosso) ma senza fili (così si perde un po’ l’allusione al suicidio legata al cavo che la protagonista si dovrebbe avvolgere attorno al collo).
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Successo trionfale - meritatissimo - per Anna Caterina Antonacci, ma applausi anche per gli altri protagonisti: una proposta di alto livello, che ci si deve augurare che il pubblico voglia premiare con presenze più nutrite alle restanti tre recite.

30 giugno, 2014

Altri libertini a Venezia


Dopo il Regio di Torino è la volta della Fenice a cimentarsi con Stravinski. Impresa peraltro non proibitiva, a suo tempo (1951) essendo stato proprio il teatro lagunare a tenere a battesimo l’ultimo ruggito neo-classico dell’orso russo transumato in occidente. Ieri pomeriggio seconda rappresentazione in un teatro assai gremito. Anche qui si è fatto un solo intervallo che – a differenza di Torino - è stato posto fra il secondo e il terzo atto.

Segnalo subito la – come sempre – brillante recensione di Amfortas, che ha seguito la prima di venerdi. E anche il magnifico programma di sala, già scaricabile via web, vero fiore all’occhiello del teatro veneziano.
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Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a
Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…

La regìa del suo Rake la definirei superficiale, riscattatasi soltanto nelle due scene finali (quelle oggettivamente più facili da valorizzare e/o più difficili da… rovinare). Vediamo perché.

La prima scena, che almeno inizialmente dovrebbe essere – seriamente e poeticamente! – idilliaca, viene trasformata da Michieletto in una prosaica giornata di week-end in campagna, con tanto di barbecue, dispetti con spruzzi dell’irrigatore e lavaggio di auto. Quest’ultima operazione serve al regista per rappresentare il lavoro alienante (di contabile) proposto a Tom dal futuro suocero, e che il (potenziale, per ora) libertino disprezza nel suo recitativo con aria di sortita. Magari l’autoveicolo può anche evocare il viaggio maledetto di Tom che toccherà diverse tappe per condurlo finalmente alla perdizione, dopodichè si può sorridere dell’ingenuità di portare in scena una vecchia Peugeot 204 degli anni ‘60 (in Inghilterra poi, un’auto francese con guida a sinistra?) come simbolo del viaggiare! Dal che intanto si deduce quale sia il periodo storico in cui Michieletto cala la sua ambientazione; quanto al luogo, effettivamente pare più yankee che british.   

Shadow compare in scena fin da subito e in pratica mai ne uscirà, costituendo una presenza costante e persin troppo asfissiante. Poco giustificate le sue attenzioni (e molestie in piena regola) nei confronti di Anne, forse ai suoi occhi una nemica, in quanto potenzialmente in grado di strappargli dalle grinfie la sua vittima Tom (nulla di tutto ciò si desume, nemmeno lontanamente, dal libretto, manco a dirlo).

L’enorme piscina in cui è ambientata la seconda scena del primo atto (il bordello di Mother-Goose) fa venire in mente LasVegas più che Londra: è riempita di monete d’oro e sopra di essa incombono sette scritte al neon rappresentanti gli altrettanti vizi capitali. Questa scelta è di sicuro impatto, anche se sembrerebbe attribuire surrettiziamente a Tom tutti i vizi possibili e immaginabili (vedremo che non sarà così, ma che ciò provocherà altri problemi). Inoltre è poco appropriata a dipingere un postribolo frequentato da bad-boys (o hooligans violenti, oggidì) dove in definitiva è quasi solo la lussuria ad imperare, contornata magari da accidia e ira: si deve perciò da subito sospettare che questa scena farà da sfondo – via via deteriorandosi - anche a tutte le successive tappe del cammino di Tom. E di volta in volta si accenderanno solo alcune scritte al neon per sottolineare i vizi in quel momento aleggianti sulla scena.

Ecco, l’associazione di taluni vizi a personaggi diversi da Tom finisce però per togliere enfasi e per sfuocare proprio quelli del protagonista, che dovrebbero essere l’oggetto dell’opera. Che ira, gola, invidia e superbia siano attribuibili a Baba (scena 3 dell’atto secondo) può essere tecnicamente plausibile, ma è del tutto fuorviante nell’economia dell’opera, che è focalizzata sui vizi di Tom! Al quale Tom essi vengono anche attribuiti a sproposito: ad esempio la sua infatuazione per la macchina del pane andrebbe imputata a superbia (diventare famoso e meritare l’amore di Anne) non come fa Michieletto ad avarizia (=avidità) vizio che Tom ha già ampiamente dismesso nella prima scena di quello stesso atto, in cui lui manifesta la sazietà e il disgusto per cibo, gioco e donne, cioè gola, avarizia e lussuria. Un discorso a sé meriterebbe l’accidia: la scritta luminosa si accende nella prima scena del second’atto (dove vediamo Tom schifato dell’esistenza da ricco) e quindi comunica il concetto che tale vizio sia un effetto della sua nuova vita a Londra, quando invece sappiamo benissimo che esso è per lui la madre di tutti i vizi e quindi la causa prima e unica di tutte le sue disavventure! Se si voleva chiarire il concetto allo spettatore sprovveduto, allora quella scritta luminosa doveva essere mostrata già nella prima scena del primo atto!

Veramente debole la seconda scena dell’atto 2, con Baba (alias Conchita Wurst) che assiste a volto (e corpo!) scoperto all’arrivo di Anne, ai preparativi delle nozze e all’incontro di Anne con Tom: come minimo va a farsi benedire la sorpresa dello scoprimento della sua fluente barba!

Ridicola anche la terza scena del second’atto, con canotti, salvagenti e pupazzi di plastica a rappresentare i cimeli di Baba: insomma tutto il personaggio e il mondo della donna barbuta vengono banalizzati e irrisi in modo volgare (e non raffinato, come si dovrebbe e potrebbe fare rispettando il libretto!) Bambinesca anche la parte finale della scena, con la macchina del pane ridotta ad una pila di salvagenti, metafora piuttosto ingenua delle bolle economiche dei nostri giorni, gonfiate artificiosamente.

Di conseguenza anche la prima scena del terz’atto (l’asta) diventa tutta una pagliacciata che finisce per metterne in ombra, annegandoli in una generale caciara, proprio tutti gli aspetti più grotteschi.

Come detto, le ultime due scene, dove si materializza il dramma, sono le meglio riuscite: guarda caso, lì Michieletto segue il testo originale in modo quasi pedestre, senza inventarsi nulla. Tranne il due di spade della scena del cimitero, che magari si giustifica proprio per facilitarne la miglior comprensione da parte dello spettatore italiano. E poi – ultima scena – il mostrare il suicidio di Tom che si soffoca infilandosi in testa un sacchetto di plastica. Invece la bambolina-Venus che il regista mette in braccio a Tom (e gli fa rubare da Shadow) è un’idea coerente con lo spirito (se non la lettera) dell’originale e come tale è da apprezzare.

Nell’Epilogo fanno un poco sorridere le quattro coltellate inferte al povero Shadow (che tanto se ne fa un baffo…) dai quattro protagonisti.

In definitiva, un allestimento con parecchie ombre e qualche luce nel finale. Dal confronto diretto, per me McVicar esce vincitore per 3-1!

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Diego Matheuz ha diretto la pregevole orchestra della Fenice con diligenza e compostezza; devo dire che a Torino Noseda mi aveva dato l’impressione di maggior cura dei dettagli (ma sono proprio impressioni…) Bravissimi anche i membri del Coro di Claudio Marino Moretti, a partire dalle sguaiatezze del bordello per finire al mirabile canto funebre conclusivo.

Fra i protagonisti, su tutti un ottimo Juan Francisco Gatell, che ha proposto in modo assai efficace il personaggio di Tom. Accanto a lui una più che discreta Carmela Remigio, efficace in tutta la gamma, che va dal SI sotto il rigo al DO acuto (nella chiusa della cavatina lo ha esploso come nulla fosse). Le perdonerei la forzatura di altri acuti, con tendenza a vetrosità di emissione. 

Lo sbifido Shadow era Alex Esposito, attore consumato in cui Michieletto ha di sicuro trovato il suo diavolo. Ma anche vocalmente se l’è cavata assai bene (la parte peraltro non è proibitiva).

La Baba di Natasha Petrinsky si è meritata ai miei orecchi una larga sufficienza, che sarebbe diventata ancor più solida se le note dell’ottava bassa (tocca il LA sotto il rigo) fossero risultate più udibili.

La Mother Goose Silvia Regazzo e il Sellem Marcello Nardis hanno ben meritato: in particolare il secondo, che ha una parte molto radicata al centro dell’estensione (MI-SOL) ma deve cantare con la voce petulante caratteristica degli imbonitori da strada.

Michael Leibundgut (Trulove) e Matteo Ferrara (guardiano del manicomio) più che onesti nelle loro parti di contorno.

Alla fine il pubblico ha tributato meritati applausi a tutti, per uno spettacolo che evidentemente lo ha divertito ed emozionato.