XIV

da prevosto a leone
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23 febbraio, 2020

Il Turco (svizzero) convince Milano


In un Piermarini non proprio stipato (chissà... lo sbifido virus, si son visti spettatori con tanto di mascherina) la prima del Turco in Italia in salsa svizzera (Fasolis) è passata con un franco successo ed ha così rialzato la media della qualità della stagione scaligera, che un Trovatore-così-così aveva un filino abbassato.

Merito della coppia Fasolis-Andò, che ha confezionato uno spettacolo assai godibile e soprattutto ben equilibrato in tutti i reparti: voci, orchestra, coro e messinscena.

A Fasolis mi sento di rimproverare (ma solo nel primo atto) una certa eccessiva sostenutezza di tempi e alcune sbracature bandistiche (copertura di voci inclusa) che sono per fortuna state corrette dopo l’intervallo: la sua è stata comunque una direzione complessivamente apprezzabile, come pure le scelte filologiche del ripristino delle arie di Narciso del primo atto (Un vago sembiante) di Geronio (Atto II, Se ho da dirla) oltre a quella di Fiorilla che segue la cacciata da casa. Condivisibili i numerosi tagli e taglietti ai sempre noiosi (per noi) recitativi secchi.

Andò ha saputo da parte sua trovare il giusto equilibrio fra le componenti buffe e farsesche dell’opera e i risvolti patetici e pure... filosofici del libretto. In particolare è centrata la figura del Poeta, onnipresente in scena ma sempre in balìa degli avvenimenti che si accavallano sotto i suoi occhi. Azzeccata la scelta di far distruggere, nel finale, i fogli del suo lavoro da parte dei protagonisti della vicenda: un modo efficace per mostrare la loro indipendenza dagli stereotipi che il letterato gli ha cucito addosso.
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Bene in generale le voci. Mattia Olivieri è un Prosdocimo autorevole, a dispetto della mancanza, nella sua parte, di vere arie: ma i suoi numerosissimi contributi sono stati esposti con voce solida, senza sbavature, e sempre passante su tutta la tessitura. Stesso discorso per il Selim di Alex Esposito, apprezzatissimo dal pubblico anche per le sue note qualità di attore consumato. Il terzo basso, Giulio Mastrototaro, già buon Sciarrone nella Tosca che ha aperto questa stagione, è stato un po’ la rivelazione della serata, con una maiuscola interpretazione del complesso personaggio di Geronio: che lui ha proposto con proprietà di fraseggio e senza facili e farsesche sbracature da macchietta. Andò lo ha fatto pure cantare in platea (che non è proprio il posto migliore per farsi... sentire) ma lui ha superato brillantemente anche questa difficoltà.

Rosa Feola tornava in Scala dopo l’Elisir dello scorso autunno, ed ha confermato quanto di buono emerso allora: la voce è calda e senza sbavature, gli acuti ben portati; forse le note gravi sono da... rendere più udibili, ma poi anche la sua presenza scenica le ha garantito ampi consensi. La parte di Zaida non è certo proibitiva, ma Laura Verrecchia ce l’ha porta con calore e con quel pizzico di patetismo che ben si addice al personaggio.

I due tenori: Edgardo Rocha (Narciso) si conferma in progresso (lo avevo sentito nel ruolo 5 anni fa a Torino, dove non mi aveva proprio entusiasmato, poi meglio aveva fatto due anni dopo qui in una Gazza ladra): voce sottile, ma che riesce a passare anche in un ambiente come quello del Piermarini. Manuel Amati (Albazar) invece, oltre a voce piccina, fa pure fatica a farla arrivare su in loggione, dove la sua Ah, sarebbe troppo dolce si fatica davvero a udirla come si deve.

Si ode invece benissimo, e fin troppo, il coro di Casoni, che travolge, nei pezzi d’insieme, anche le voci dei protagonisti. Sui suoi livelli l’Orchestra, a parte le citate escandescenze impostele da Fasolis.   
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Roberto Andò - benissimo coadiuvato da Gianni Carluccio per scene-luci e Nanà Cecchi per i costumi - come detto firma una regìa sapiente ed elegante, che il pubblico alla fine ha mostrato di apprezzare assai (che scarto rispetto all’accoglienza riservata al Trovatore di Hermanis!)

La scena è praticamente spoglia, vi trovano posto sporadicamente piccole suppellettili (un divano, un tavolo, sgabelli) tutte rigorosamente dello stesso legno (tinta beige-noisette) del tavolato. Dal quale emergono come dall’aldilà (per poi scomparirvi) attraverso ampie botole i vari personaggi, che altre volte entrano ed escono di scena trascinati da sottili pedane traslanti da sinistra a destra o viceversa. Sul fondo onde di un mare dipinto o una muraglia penetrabile; ai lati e frontalmente scendono e risalgono pannelli raffiguranti interni o esterni di abitazioni; nulla più.

I costumi sono appropriati all’ambientazione dell’opera, tutti assai sgargianti ma raffinati. Le luci ben impiegate, anche a supportare i risvolti psicologici di alcune scene (ad esempio quella del ballo mascherato e del ripudio subito da Fiorilla).

Intelligente e sempre equilibrata la recitazione dei personaggi: niente facili sguaiatezze o cachinni, il tutto sempre mantenuto entro limiti di buongusto, perfettamente appropriati al soggetto agrodolce dell’opera.
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I definitiva, una proposta che si è meritata i lunghi applausi e le ripetute chiamate che il pubblico ha riservato a ciascuno e a tutti. Tre ore ben spese, se non altro per esorcizzare la psicosi della quarantena (!)

Adesso però mi preparo partire per Roma, dove mi aspetta un Onegin dal quale mi... aspetto molto.

16 agosto, 2016

ROF-37 Un Turco e ½ con... brivido finale

 

Ieri sera al Teatro Rossini terza recita de Il Turco in Italia, la nuova produzione (quinta finora nella storia) di cui il ROF ha gratificato questo dramma buffo uscito dalla felice penna di Romani Felice.

Erano appena terminati gli applausi dopo l’aria con coro di Fiorilla e la Scappucci si era seduta alla tastiera per accompagnare il successivo recitativo di Prosdocimo, quando l’Olivetti Lettera-22 del poeta-regista-(Anselmi-Mastroianni) impersonato da Pietro Spagnoli, probabilmente per un brusco e involontario movimento del cantante, è finita direttamente dal proscenio, dove era collocato il deschetto che la reggeva, giù nella buca dell’orchestra, proprio sotto il palco del Sovrintendente! Sul momento si è pensato all’ennesima gag di Livermore, ma poi la cosa si è rivelata in tutta la sua gravità. Per fortuna pare (credo e spero, perlomeno) non ci siano stati danni a persone (prendersi in testa una macchina da scrivere non sarebbe piacevole davvero!) e la recita è potuta riprendere e concludersi felicemente.

Questa seconda delle tre opere del cartellone principale 2016 è stata affidata a complessi strumentali e coristici e a un Direttore (pardon... una Direttora) di serie A2, per così dire e senza offesa per chi milita in A2: la giovane Filarmonica Rossini, il coro Agostini di Fano e la versatile speranza della direzione, Speranza, per l’appunto, Scappucci. In compenso nel cast brillano i nomi del divo Erwin Schrott e della diva, ormai padroncina di casa, Olga Peretyatko-maritata-Mariotti, insieme ai navigati Nicola Alaimo e Pietro Spagnoli, al... navigante René Barbera e al mozzo Pietro Adaini. E la regìa è affidata ad un altro abitué del ROF, Davide Livermore (chissà se ha diviso in due i costi della parcella fra Pesaro e la sua patria di adozione Valencia, co-produttrice dell’opera...)

La signora Mariotti, già deludente alla prima e fischiata apertamente (dicono) alla seconda, aveva accampato scuse più o meno credibili, attribuendo le sue non entusiasmanti prestazioni a non meglio precisate allergie (forse alle critiche? smile!) dando forfait per il gala-JDF di venerdi prossimo, ma decidendo di impersonare stoicamente Fiorilla per tutte le 4 recite. Devo dire che ieri sera si è ampiamente riscattata, pur dando l’impressione di una certa prudenza nella gestione del fiato. Ma almeno l’intonazione mi è parsa a posto, così come il fraseggio e l’espressività del suo canto.

Ho trovato anche Schrott migliorato rispetto dalla prima (udita per radio): emissione sicura e il bel timbro brunito che lo hanno reso famoso. Evidentemente il rodaggio delle due recite precedenti dev’essere servito un po’ a tutti. Accanto a lui ha ottimamente figurato il buffo Geronio di Nicola Alaimo, che alla sua consuetudine con questi ruoli rossiniani ha aggiunto (grazie al regista, indubbiamente) una perfetta resa scenica del personaggio.

René Barbera ha confermato le sue notevoli qualità, voce chiara e squillante, acuti solidissimi (pur ottenuti con evidente sforzo) e perfetta intonazione. Altrettanto dicasi di Pietro Adaini, esordiente al ROF, ma già recente interprete del ruolo di Albazar: una voce che penso possa fare parecchia strada in futuro. Meritevole anche la prestazione di Cecilia Molinari, una Zaida dalla voce calda e ben intonata (contrastante con la barba affibbiatale da Livermore-Fellini, smile!)

Pietro Spagnoli torna al ROF dopo 11 anni e dopo ben 27 (!) dal suo esordio. La parte del poeta Prosdocimo non è proibitiva, ma lui la interpreta in modo perfetto (volo della Olivetti a parte!) anche e soprattutto sotto il profilo attoriale.

La squadra dei musici, che ho irrispettosamente ma simpaticamente definito di serie A2, si è fatta ben valere, a partire dalla Direttora Scappucci, dal gesto essenziale, preciso e mai plateale, oltre che bravissima alla tastiera nell’accompagnare i recitativi. Per proseguire con la Filarmonica Rossini, cui la paterna guida di Donato Renzetti sta evidentemente facendo un gran bene.  E anche il coro di Fano (diretto da Mirca Rosciani) ha dato il suo valido contributo alla riuscita dello spettacolo. Tutti meritevoli del successo tributatogli dal pubblico che gremiva il Rossini.   
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Vengo quindi allo spettacolo di Livermore, dichiaratamente ispirato al Fellini di . Se un limite si può trovare all’idea di fondo è che forse non tutti conoscono (o ricordano nei particolari) il film del grande regista romagnolo, il che rischia di rendere criptiche alcune presenze sulla scena e i relativi comportamenti. Ciò che si vede prima e durante l’esecuzione della Sinfonia è appunto l’introduzione all’ambiente e ai personaggi (anche e soprattutto quelli estranei al libretto, che vivacizzeranno poi le varie scene dell’opera): ci vediamo Prosdocimo nei panni di Guido Anselmi (Mastroianni) che si libra sul mondo e finisce il suo volo nella bomboniera del Teatro Rossini, fatto precipitare giù in platea, preso al lazo dal Sovrintendente Mariotti in persona! Poi vediamo la famosissima scena dell’Harem, con tutte le donne che attorniano il regista e gli fanno premurosamente il bagno, prima di ricomparire via via durante l’opera.

Se dovessimo giudicare l’idea di Livermore dai contenuti del libretto di Romani messi a confronto con quelli del film felliniano, dovremmo concludere che il secondo col primo ci sta come i cavoli a merenda: l’unico labile nesso fra i due soggetti essendo rappresentato dalla carenza di ispirazione che caratterizza Anselmi e Prosdocimo. Per il resto il film è uno spietato scavo nei meandri dell’esistenza del protagonista (cioè di Fellini medesimo), nei suoi ricordi, nelle sue ossessioni e nei suoi sogni laddove, nel libretto, Prosdocimo non solo non è il protagonista, ma è niente più che un pallido collante che tiene insieme vicende a lui del tutto estranee, oltre che semi-farsesche. Certo, sia nel film che nell’opera emergono poi spunti critici nei confronti della società e della civiltà, ma si tratta di due società piuttosto diverse fra loro, non fosse che per i secoli che le separano. E anche l’idea di rappresentare Prosdocimo come un regista non è certo un’invenzione di Livermore. 

In realtà ciò che rende godibile e convincente il suo spettacolo è l’impiego che Livermore fa dell’impianto esteriore del film: il set di produzione, che garantisce sempre e comunque l’animazione della scena e impedisce cali di tensione; la troupe del circo, che diventa il coro nell’opera (dove assume colori sgargianti a contrastare il bianco-e-nero mutuato dal film). Così anche l’indebito ingigantimento del ruolo di Prosdocimo (che, trasformato in Anselmi, finisce per monopolizzare la scena e l’attenzione dello spettatore) risulta in fondo sopportabile e non arreca danni alla sostanza del soggetto del dramma buffo, il cui contenuto essendo per definizione piuttosto... disimpegnato si presta anche a rappresentazioni più o meno distorte: l’importante è che lo spettacolo regga, ed è ciò che credo si possa tranquillamente affermare in questa occasione.

10 agosto, 2016

ROF-37 alla radio – 2


La seconda delle tre opere in cartellone al ROF-XXXVII è Il Turco in Italia, in una nuova co-produzione con Valencia, dove il regista Davide Livermore è di casa.

Nel cast spiccano come protagonisti i nomi di Schrott e Peretyatko. Devo dire che nessuno dei due mi ha entusiasmato: il primo pare un pallido ricordo del baritono di qualche anno fa; la seconda, dopo una partenza discreta (Non si dà follia maggiore) mi è parsa avere parecchie difficoltà, culminate in un Caro padre, madre amata assai insoddisfacente, per intonazione e portamento. Peccato, poichè la signora Mariotti ha una voce molto adatta al ruolo di Fiorilla, un misto di leggerezza e svampitezza. Bene invece il Narciso di Rene Barbera, che conferma le sue brillanti doti di tenorino rossiniano (l’edizione critica lo gratifica della cavatina Un vago sembiante, composta da Rossini per Roma un anno dopo l’esordio scaligero); con lui discreta anche la prestazione di Nicola Alaimo, un Geronio efficace (che canta anche Se ho da dirla, anch’essa assente nella prima stesura e aggiunta per le recite romane). Pietro Spagnoli è un buon Prosdocimo, per quanto Rossini non gli abbia riservato interventi schiettamente solistici. Onorevoli le prestazioni di Cecilia Molinari (Zaida) e di Pietro Adaini, che ha sostituito come Albazar il negretto Segkapane. Dignitosa anche la prestazione del Coro del Teatro della Fortuna Mezio Agostini di Fano (diretto da Mirca Rosciani).

Per Speranza Scappucci (impegnata personalmente anche negli accompagnamenti alla tastiera dei recitativi) è stato un felice esordio al ROF, una direzione alla quale muoverei solo l’appunto di qualche sporadico rilassamento di tempi.

Della regìa di Livermore sappiamo essersi ispirata a... Fellini. L’idea di rappresentare Prosdocimo come un famoso regista che muove a suo piacimento tutto ciò che avviene in scena è tanto infedele rispetto al libretto (dove il poeta è in realtà lui ad essere alla mercè degli avvenimenti) quanto già proposta da altri (vedi Alden in una produzione di pochi anni fa, data anche a Torino). Però pare che il tutto funzioni e che lo spettacolo sia assai piaciuto al pubblico del teatro Rossini. Staremo a vedere.
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Questa sera tocca a Bignamini con il Ciro (sempre di Livermore).              


16 marzo, 2015

Il turco in… Piemonte

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la terza rappresentazione de Il turco in Italia, in una co-produzione italo-franco-polacca.

Prima di parlare della regìa di Christopher Alden propongo un paio di considerazioni. Innanzitutto siamo in presenza di un soggetto buffo (o tragi-comico) che per sua natura poco si presta a dissacrazioni o stravolgimenti iconoclasti (tipo l’Aida dello stesso regista ambientata in un collegio di religiose…) Anzi, rivisitazioni anche profonde, se fatte con un minimo di gusto, possono arrecarvi valore aggiunto, cosa che mi sento di sottoscrivere per questo allestimento.

Secondo, sarà bene ricordare quale fu la genesi del libretto di Felice Romani (cui senza dubbio mise le mani lo stesso compositore), cominciando col dire che esso fu scopiazzato da quello che Caterino Mazzolà aveva scritto per Il Turco in Italia di F.J.Seydelman rappresentato a Dresda nel 1788 e replicato nel 1789 a Vienna, dove assai verosimilmente fu visto dalla coppia Mozart-DaPonte. I quali altrettanto assai verosimilmente si ispirarono a quel testo, e in particolare alla figura del poeta Prosdocimo, per mettere in piedi la loro Così fan tutte, protagonista il filosofo DonAlfonso. Dopodichè, con modalità perfettamente reciproche, accadde che nel 1814 la coppia Rossini-Romani, che stazionava a Milano per il suo Turco, assai verosimilmente potè assistere ad una rappresentazione alla Scala - indovina indovinello? – proprio del mozartiano-dapontiano Così!

Insomma, fra i tre testi (i due Turchi e il Così) ci dev’essere stata più di un’influenza. Nel merito va riconosciuto che il libretto di DaPonte supera ampiamente per profondità quello – pure intelligente – di Romani. E lo fa proprio sul terreno del confronto fra le due personalità di DonAlfonso e di Prosdocimo. Il primo (che non per nulla è un filosofo…) si impone al centro della vicenda, determinandone ogni svolgimento, anche nei minimi dettagli: il suo assunto (di natura tipicamente scettica) viene alla fine dimostrato proprio a spese delle due coppie protagoniste, ma tutto sommato anche a loro vantaggio (ammesso che siano capaci in futuro di trarre partito dalla morale della favola). Viceversa il Prosdocimo di Romani è per gran parte dell’opera niente più che un agente passivo degli avvenimenti, nei quali cerca disperatamente di scovare un soggetto per un suo nuovo dramma teatrale. E soltanto dopo averlo trovato decide di pilotarne la conclusione reale secondo le proprie convinzioni etiche, che non sono affatto quelle del dapontiano Così! Essendo esse quanto di più reazionario si possa concepire, con la tremenda (davvero tragica) punizione di Fiorilla, costretta ad una resa senza condizioni alle ipocrite e antifemministe regole della società, che lei così spavaldamente e velleitariamente aveva preteso di infrangere. E – per quanto riguarda i turchi (Selim e Zaida) – comportando un atteggiamento del tipo: tornatevene a casa vostra e non venite qui a rubarci le mogli (Selim) e a fare i rom (Zaida). Proprio un Salvini ante-litteram!!!   

Quindi: una distanza davvero abissale rispetto al messaggio dapontiano-mozartiano.
 
Ecco, fatta questa necessaria premessa, possiamo adesso avvicinarci alla vision che Alden ha posto alla base del suo allestimento dell’opera. Il controverso regista americano fa ruotare l’intera vicenda attorno alla figura di Prosdocimo, trasformandolo appunto nel DonAlfonso di DaPonte-Mozart, motore unico e dominus dell’azione.

L’idea ha comportato qualche disallineamento rispetto al libretto, inevitabile quando si inverte letteralmente il nesso causa-effetto tra un fatto reale e il comportamento dell’osservatore. In sostanza, ci vengono presentati come effetti del copione scritto dal Poeta fatti e notizie che viceversa, nell’originale, sono cause che determinano i contenuti di tale copione. Faccio un esempio infimo, ma significativo: nel libretto di Romani Prosdocimo scopre, informato da Geronio, l’identità del turco che, appena sbarcato, ha già invaso la casa di Fiorilla e dello stesso Geronio; ecco, Alden ribalta la circostanza, mostrandoci Prosdocimo che informa di ciò Geronio, passandogli da leggere un foglio del suo copione.

Un altro riferimento (non certo originale) riscontrabile nella regìa di Alden riguarda Pirandello (i Sei personaggi in cerca d’autore): che si materializza quando alcuni interpreti dell’opera rifiutano il copione propostogli da Prosdocimo e se lo scrivono come pare e piace a loro.

In ogni caso si tratta, a mio parere, di scompensi del tutto sopportabili, un modesto prezzo da pagare ad una visione del soggetto dell’opera che ne valorizza la freschezza e ne facilita la godibilità, sfruttando poi l’efficacia e i colori di scene, luci e costumi, e soprattutto la bravura di tutti gli interpreti (coristi inclusi) nel muoversi per realizzare al meglio le idee del regista.
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Sul fronte musicale, va detto che l’opera è stata eseguita nella sua interezza (il che significa tre ore nette di spettacolo, equamente distribuite nei due atti) recitativi inclusi; anzi, di più, essendo state eseguite anche quelle parti (solitamente espunte) che vengono catalogate come varianti: nell’atto I l’aria di Narciso Un vago sembiante, seguita dal recitativo Di Fiorilla il carattere; e soprattutto l’aria dell’atto II (Se ho da dirla) che mette a dura prova le capacità scioglilinguistiche del Geronio di turno.

Daniele Rustioni, sempre col sorriso sulle labbra, mi è parso dirigere con sufficiente autorevolezza, cura del dettaglio e attenzione a non coprire le voci, evitando eccessivi fracassi. L’orchestra lo ha seguito diligentemente, suono sempre chiaro e pulito. Al fortepiano era Luca Brancaleon, che si è sobbarcato la gran mole dei recitativi, come detto assolutamente non tagliati.

Quanto alle voci, direi bene del terzetto dei basso-buffo: a partire da Paolo Bordogna, un Geronio efficace e bravo a non trasformare i velocissimi scioglilingua (non solo quello del second’atto) in incomprensibili grammelot; poi Simone del Savio, un convincente Prosdocimo; infine Carlo Lepore, che ha efficacemente interpretato la figura del Turco.

Decisamente meno bene i due tenori: persistendo il forfait dell’influenzato Siragusa, Narciso era ancora una volta Edgardo Rocha, che ha mostrato tutti i limiti della sua voce, piccola ma anche sgradevole e poco impostata; appena un filino-filino meglio Enrico Iviglia nei panni di Albazar.

Sul fronte femminile, accettabile la prova di Nino Machaidze come Fiorilla: però non basta staccare gli acuti, RE inclusi, per meritarsi l’eccellenza: la voce è penetrante nell’ottava alta, ma sempre con timbro metallizzato, e ha volume scarso nella prima ottava; posso dire solo, per quel che conta, che l’ho trovata un filino migliorata rispetto all’ultima sua esibizione che mi è capitato di seguire dal vivo circa un anno fa. Samantha Korbey non mi ha proprio convinto, voce piccola, anonima e poco passante.

Bene come sempre il coro di Claudio Fenoglio, eccellente anche nei movimenti da avanspettacolo richiestigli da Alden. 

Calorosa accoglienza per tutti in un teatro ancora una volta affollatissimo.