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16 agosto, 2016

ROF-37 Un Turco e ½ con... brivido finale

 

Ieri sera al Teatro Rossini terza recita de Il Turco in Italia, la nuova produzione (quinta finora nella storia) di cui il ROF ha gratificato questo dramma buffo uscito dalla felice penna di Romani Felice.

Erano appena terminati gli applausi dopo l’aria con coro di Fiorilla e la Scappucci si era seduta alla tastiera per accompagnare il successivo recitativo di Prosdocimo, quando l’Olivetti Lettera-22 del poeta-regista-(Anselmi-Mastroianni) impersonato da Pietro Spagnoli, probabilmente per un brusco e involontario movimento del cantante, è finita direttamente dal proscenio, dove era collocato il deschetto che la reggeva, giù nella buca dell’orchestra, proprio sotto il palco del Sovrintendente! Sul momento si è pensato all’ennesima gag di Livermore, ma poi la cosa si è rivelata in tutta la sua gravità. Per fortuna pare (credo e spero, perlomeno) non ci siano stati danni a persone (prendersi in testa una macchina da scrivere non sarebbe piacevole davvero!) e la recita è potuta riprendere e concludersi felicemente.

Questa seconda delle tre opere del cartellone principale 2016 è stata affidata a complessi strumentali e coristici e a un Direttore (pardon... una Direttora) di serie A2, per così dire e senza offesa per chi milita in A2: la giovane Filarmonica Rossini, il coro Agostini di Fano e la versatile speranza della direzione, Speranza, per l’appunto, Scappucci. In compenso nel cast brillano i nomi del divo Erwin Schrott e della diva, ormai padroncina di casa, Olga Peretyatko-maritata-Mariotti, insieme ai navigati Nicola Alaimo e Pietro Spagnoli, al... navigante René Barbera e al mozzo Pietro Adaini. E la regìa è affidata ad un altro abitué del ROF, Davide Livermore (chissà se ha diviso in due i costi della parcella fra Pesaro e la sua patria di adozione Valencia, co-produttrice dell’opera...)

La signora Mariotti, già deludente alla prima e fischiata apertamente (dicono) alla seconda, aveva accampato scuse più o meno credibili, attribuendo le sue non entusiasmanti prestazioni a non meglio precisate allergie (forse alle critiche? smile!) dando forfait per il gala-JDF di venerdi prossimo, ma decidendo di impersonare stoicamente Fiorilla per tutte le 4 recite. Devo dire che ieri sera si è ampiamente riscattata, pur dando l’impressione di una certa prudenza nella gestione del fiato. Ma almeno l’intonazione mi è parsa a posto, così come il fraseggio e l’espressività del suo canto.

Ho trovato anche Schrott migliorato rispetto dalla prima (udita per radio): emissione sicura e il bel timbro brunito che lo hanno reso famoso. Evidentemente il rodaggio delle due recite precedenti dev’essere servito un po’ a tutti. Accanto a lui ha ottimamente figurato il buffo Geronio di Nicola Alaimo, che alla sua consuetudine con questi ruoli rossiniani ha aggiunto (grazie al regista, indubbiamente) una perfetta resa scenica del personaggio.

René Barbera ha confermato le sue notevoli qualità, voce chiara e squillante, acuti solidissimi (pur ottenuti con evidente sforzo) e perfetta intonazione. Altrettanto dicasi di Pietro Adaini, esordiente al ROF, ma già recente interprete del ruolo di Albazar: una voce che penso possa fare parecchia strada in futuro. Meritevole anche la prestazione di Cecilia Molinari, una Zaida dalla voce calda e ben intonata (contrastante con la barba affibbiatale da Livermore-Fellini, smile!)

Pietro Spagnoli torna al ROF dopo 11 anni e dopo ben 27 (!) dal suo esordio. La parte del poeta Prosdocimo non è proibitiva, ma lui la interpreta in modo perfetto (volo della Olivetti a parte!) anche e soprattutto sotto il profilo attoriale.

La squadra dei musici, che ho irrispettosamente ma simpaticamente definito di serie A2, si è fatta ben valere, a partire dalla Direttora Scappucci, dal gesto essenziale, preciso e mai plateale, oltre che bravissima alla tastiera nell’accompagnare i recitativi. Per proseguire con la Filarmonica Rossini, cui la paterna guida di Donato Renzetti sta evidentemente facendo un gran bene.  E anche il coro di Fano (diretto da Mirca Rosciani) ha dato il suo valido contributo alla riuscita dello spettacolo. Tutti meritevoli del successo tributatogli dal pubblico che gremiva il Rossini.   
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Vengo quindi allo spettacolo di Livermore, dichiaratamente ispirato al Fellini di . Se un limite si può trovare all’idea di fondo è che forse non tutti conoscono (o ricordano nei particolari) il film del grande regista romagnolo, il che rischia di rendere criptiche alcune presenze sulla scena e i relativi comportamenti. Ciò che si vede prima e durante l’esecuzione della Sinfonia è appunto l’introduzione all’ambiente e ai personaggi (anche e soprattutto quelli estranei al libretto, che vivacizzeranno poi le varie scene dell’opera): ci vediamo Prosdocimo nei panni di Guido Anselmi (Mastroianni) che si libra sul mondo e finisce il suo volo nella bomboniera del Teatro Rossini, fatto precipitare giù in platea, preso al lazo dal Sovrintendente Mariotti in persona! Poi vediamo la famosissima scena dell’Harem, con tutte le donne che attorniano il regista e gli fanno premurosamente il bagno, prima di ricomparire via via durante l’opera.

Se dovessimo giudicare l’idea di Livermore dai contenuti del libretto di Romani messi a confronto con quelli del film felliniano, dovremmo concludere che il secondo col primo ci sta come i cavoli a merenda: l’unico labile nesso fra i due soggetti essendo rappresentato dalla carenza di ispirazione che caratterizza Anselmi e Prosdocimo. Per il resto il film è uno spietato scavo nei meandri dell’esistenza del protagonista (cioè di Fellini medesimo), nei suoi ricordi, nelle sue ossessioni e nei suoi sogni laddove, nel libretto, Prosdocimo non solo non è il protagonista, ma è niente più che un pallido collante che tiene insieme vicende a lui del tutto estranee, oltre che semi-farsesche. Certo, sia nel film che nell’opera emergono poi spunti critici nei confronti della società e della civiltà, ma si tratta di due società piuttosto diverse fra loro, non fosse che per i secoli che le separano. E anche l’idea di rappresentare Prosdocimo come un regista non è certo un’invenzione di Livermore. 

In realtà ciò che rende godibile e convincente il suo spettacolo è l’impiego che Livermore fa dell’impianto esteriore del film: il set di produzione, che garantisce sempre e comunque l’animazione della scena e impedisce cali di tensione; la troupe del circo, che diventa il coro nell’opera (dove assume colori sgargianti a contrastare il bianco-e-nero mutuato dal film). Così anche l’indebito ingigantimento del ruolo di Prosdocimo (che, trasformato in Anselmi, finisce per monopolizzare la scena e l’attenzione dello spettatore) risulta in fondo sopportabile e non arreca danni alla sostanza del soggetto del dramma buffo, il cui contenuto essendo per definizione piuttosto... disimpegnato si presta anche a rappresentazioni più o meno distorte: l’importante è che lo spettacolo regga, ed è ciò che credo si possa tranquillamente affermare in questa occasione.

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