Ieri sera al
Teatro Rossini terza recita de Il Turco in Italia, la nuova
produzione (quinta finora nella storia) di cui il ROF ha gratificato questo dramma buffo uscito dalla felice penna
di Romani Felice.
Erano appena
terminati gli applausi dopo l’aria con coro di Fiorilla e la Scappucci si era
seduta alla tastiera per accompagnare il successivo recitativo di Prosdocimo,
quando l’Olivetti Lettera-22 del
poeta-regista-(Anselmi-Mastroianni) impersonato da Pietro Spagnoli,
probabilmente per un brusco e involontario movimento del cantante, è finita
direttamente dal proscenio, dove era collocato il deschetto che la reggeva, giù
nella buca dell’orchestra, proprio sotto il palco del Sovrintendente! Sul
momento si è pensato all’ennesima gag
di Livermore, ma poi la cosa si è rivelata in tutta la sua gravità. Per fortuna
pare (credo e spero, perlomeno) non ci siano stati danni a persone (prendersi
in testa una macchina da scrivere non sarebbe piacevole davvero!) e la recita è
potuta riprendere e concludersi felicemente.
Questa seconda delle
tre opere del cartellone principale 2016 è stata affidata a complessi
strumentali e coristici e a un Direttore (pardon... una Direttora) di serie A2,
per così dire e senza offesa per chi milita in A2: la giovane Filarmonica Rossini, il coro Agostini di Fano e la versatile
speranza della direzione, Speranza,
per l’appunto, Scappucci. In compenso
nel cast brillano i nomi del divo Erwin
Schrott e della diva, ormai padroncina di casa, Olga Peretyatko-maritata-Mariotti, insieme ai navigati Nicola Alaimo e Pietro Spagnoli, al... navigante René Barbera e al mozzo Pietro
Adaini. E la regìa è affidata ad un altro abitué del ROF, Davide Livermore (chissà se ha diviso in
due i costi della parcella fra Pesaro e la sua patria di adozione Valencia,
co-produttrice dell’opera...)
La signora Mariotti, già deludente alla prima e fischiata apertamente (dicono)
alla seconda, aveva accampato scuse
più o meno credibili, attribuendo le sue non entusiasmanti prestazioni a non
meglio precisate allergie (forse alle critiche? smile!) dando forfait per il gala-JDF
di venerdi prossimo, ma decidendo di impersonare stoicamente Fiorilla per tutte
le 4 recite. Devo dire che ieri sera si è ampiamente riscattata, pur dando l’impressione
di una certa prudenza nella gestione del fiato. Ma almeno l’intonazione mi è
parsa a posto, così come il fraseggio e l’espressività del suo canto.
Ho trovato anche
Schrott migliorato rispetto dalla prima (udita per radio): emissione
sicura e il bel timbro brunito che lo hanno reso famoso. Evidentemente il
rodaggio delle due recite precedenti dev’essere servito un po’ a tutti. Accanto
a lui ha ottimamente figurato il buffo
Geronio di Nicola Alaimo, che alla
sua consuetudine con questi ruoli rossiniani ha aggiunto (grazie al regista,
indubbiamente) una perfetta resa scenica del personaggio.
René Barbera ha confermato le sue
notevoli qualità, voce chiara e squillante, acuti solidissimi (pur ottenuti con
evidente sforzo) e perfetta intonazione. Altrettanto dicasi di Pietro Adaini, esordiente al ROF, ma già
recente interprete del ruolo di Albazar: una voce che penso possa fare
parecchia strada in futuro. Meritevole anche la prestazione di Cecilia Molinari, una Zaida dalla voce
calda e ben intonata (contrastante con la barba affibbiatale da
Livermore-Fellini, smile!)
Pietro Spagnoli torna al ROF
dopo 11 anni e dopo ben 27 (!) dal suo esordio. La parte del poeta Prosdocimo non
è proibitiva, ma lui la interpreta in modo perfetto (volo della Olivetti a
parte!) anche e soprattutto sotto il profilo attoriale.
La squadra dei
musici, che ho irrispettosamente ma simpaticamente definito di serie A2, si è fatta ben valere, a
partire dalla Direttora Scappucci,
dal gesto essenziale, preciso e mai plateale, oltre che bravissima alla
tastiera nell’accompagnare i recitativi. Per proseguire con la Filarmonica Rossini, cui la paterna
guida di Donato Renzetti sta
evidentemente facendo un gran bene. E anche
il coro di Fano (diretto da Mirca
Rosciani) ha dato il suo valido contributo alla riuscita dello spettacolo. Tutti
meritevoli del successo tributatogli dal pubblico che gremiva il Rossini.
___
Vengo quindi
allo spettacolo di Livermore,
dichiaratamente ispirato al Fellini
di 8½. Se un limite si può trovare
all’idea di fondo è che forse non tutti conoscono (o ricordano nei particolari)
il film del grande regista romagnolo, il che rischia di rendere criptiche
alcune presenze sulla scena e i relativi comportamenti. Ciò che si vede prima e
durante l’esecuzione della Sinfonia è appunto l’introduzione all’ambiente e ai
personaggi (anche e soprattutto quelli estranei al libretto, che vivacizzeranno
poi le varie scene dell’opera): ci vediamo Prosdocimo nei panni di Guido Anselmi (Mastroianni) che si libra
sul mondo e finisce il suo volo nella bomboniera del Teatro Rossini, fatto
precipitare giù in platea, preso al lazo
dal Sovrintendente Mariotti in persona! Poi vediamo la famosissima scena dell’Harem,
con tutte le donne che attorniano il regista e gli fanno premurosamente il
bagno, prima di ricomparire via via durante l’opera.
Se dovessimo
giudicare l’idea di Livermore dai contenuti del libretto di Romani messi a confronto
con quelli del film felliniano, dovremmo concludere che il secondo col primo ci
sta come i cavoli a merenda: l’unico labile nesso fra i due soggetti essendo rappresentato
dalla carenza di ispirazione che caratterizza Anselmi e Prosdocimo. Per il
resto il film è uno spietato scavo nei meandri dell’esistenza del protagonista
(cioè di Fellini medesimo), nei suoi ricordi, nelle sue ossessioni e nei suoi
sogni laddove, nel libretto, Prosdocimo non solo non è il protagonista, ma è niente
più che un pallido collante che tiene insieme vicende a lui del tutto estranee,
oltre che semi-farsesche. Certo, sia nel film che nell’opera emergono poi
spunti critici nei confronti della società e della civiltà, ma si tratta di due
società piuttosto diverse fra loro, non fosse che per i secoli che le separano.
E anche l’idea di rappresentare Prosdocimo come un regista non è certo un’invenzione
di Livermore.
In realtà ciò
che rende godibile e convincente il suo spettacolo è l’impiego che Livermore fa
dell’impianto esteriore del film: il set di produzione, che garantisce sempre e
comunque l’animazione della scena e impedisce cali di tensione; la troupe del
circo, che diventa il coro nell’opera (dove assume colori sgargianti a
contrastare il bianco-e-nero mutuato dal film). Così anche l’indebito
ingigantimento del ruolo di Prosdocimo (che, trasformato in Anselmi, finisce
per monopolizzare la scena e l’attenzione dello spettatore) risulta in fondo
sopportabile e non arreca danni alla sostanza del soggetto del dramma buffo, il cui
contenuto essendo per definizione piuttosto... disimpegnato si presta anche a rappresentazioni più o meno distorte: l’importante è che
lo spettacolo regga, ed è ciò che credo si possa tranquillamente
affermare in questa occasione.
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