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15 agosto, 2016

ROF-37 La Donna del lago di... Strindberg

 

Ma quale Ossian. Ma quale Scott. Ma quale Tottola. Ma quale fiaba romantica a lieto fine... Qui siamo nel bel mezzo di un dramma esistenzialista, come minimo.

Il merito è di tale Damiano Michieletto, che ha capacità inventive imitative straordinarie: ha compiuto un’impresa riuscita più di tre lustri orsono al grande Robert Carsen, che trasformò incredibilmente un soggetto barocco, magico, fantastico, spettacolare e a lieto fine - come l’Alcina di Händel - in un pezzo strindberghiano sull’alienazione.

Certo, La Donna del Lago non è una storia tipo Harmony, il libretto di Tottola e la musica del Gioachino contengono mille sfumature psicologiche che gettano luci contrastanti sui personaggi principali, a partire proprio dalla protagonista, una ragazza sensibile e, perchè no, un tantino complessata (il padre ha in ciò una responsabilità non secondaria). Che le profferte di Uberto non la trovino insensibile è chiaro a tutti, ma è anche altrettanto chiaro come lei resti fedele al suo (primo) amore e addirittura si senta un po’ colpevole della delusione che arreca al sedicente cacciatore o pastore. La sua felicità finale è fuori discussione, il testo di Tottola e la musica di Rossini non lasciano adito al minimo dubbio al riguardo.
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Qui invece ci viene raccontata una storia del... dopo la chiusura del sipario (ergo, per definizione: tutt’altra storia rispetto a quella di Scott e di Tottola, per la quale Rossini compose la sua musica!) Vissero tutti felici-e-contenti? E voi creduloni credete ancora a queste favole?

Sapeste quante volte Elena (controfigura da vecchia: Giusi Merli) ha rimpianto di non aver ceduto alle avances di Uberto: managgia! avrebbe potuto occupare lei il posto di Marie de Guise a Stirling, dove oltretutto era nata e dove avrebbe potuto tornare, lasciando il palazzo diroccato (così almeno ce lo presenta il regista) in cui il padre Duglas l’aveva trasferita dopo aver rotto i rapporti con il Re, del quale era stato nulla di meno che il precettore. E così, invece di essere servita minuto per minuto da stuoli di paggi e ancelle, eccola lì a dover lavare tutti i santi giorni le mutande puzzolenti di quel caprone di Malcom!

E Malcom (controfigura da vecchio: Alessandro Baldinotti)? Credete l’abbia presa tanto bene la scoperta che la sua donna pura-siccome-un-angelo era stata insidiata dal Re: cosa si nascondeva dietro l’apparente magnanimità del gesto finale di Giacomo? E cosa c’era stato veramente fra loro? Davvero soltanto incontri innocenti (come leggiamo nel libretto e ascoltiamo dalla musica) o anche molto, mooolto di più, come ci mostra esplicitamente l’informatissimo Michieletto? Forse questo spiega perchè Malcom (sempre nel dopo) si imbestialisca vedendo la moglie posare fiori freschi davanti al ritratto del Sovrano...

Insomma: una vita, quella che Michieletto si inventa nel dopo, costellata di rimpianti, dubbi, sospetti, ansie, che fanno rivivere ai due i fatti trascorsi (cioè le vicende narrate nell’opera di Rossini) in una luce sinistra e trasformano i ricordi del passato in autentici incubi, in ossessioni esistenziali da far curare dal dottor Freud. I due attempati Elena&Malcom restano quasi in permanenza in scena, talora come semplici spettatori per lo più inorriditi di ciò che avviene nella realtà (del libretto) talaltra addirittura tentando di forzarne il corso, come quando Elena-old spinge la Elena-young nelle braccia di Uberto o quando Malcom-old cerca di aggredire il trionfante Rodrigo! Durante il duettino del primo atto si raggiunge poi il grottesco: abbiamo addirittura in scena le due coppie, Malcom-old/Elena-young ed Elena-old/Malcom-young, che ballano un grazioso walzerino!

Mica male davvero come fedeltà al soggetto che ti abbiamo profumatamente pagato per rappresentarci, caro Damiano! Perchè un conto è cogliere tutte le sfumature e anche le ombre della personalità dei protagonisti, mettendole in giusto risalto, altro è amplificare indebitamente e a dismisura questi aspetti fino a farli assurgere a tema dominante dell’opera, a cui così si cambiano letteralmente i connotati.

Si dirà: e che c’è di strano in un’operazione come questa? Perchè meravigliarsi tanto? In fondo persino il dopo del Barbiere di Siviglia non è proprio un idillio edificante: lo svenevole innamoratissimo Lindoro si rivela essere un Conte accanito donnaiolo e la povera Rosina, promossa a Contessa, nelle trappole ci casca lei, altro che farle giocare... Tutto vero, però lì qualcuno si è preso la briga di scriverci un altro libretto e comporci altra musica, o vogliamo mettere in scena – caro Michieletto - il Barbiere come fosse un flash-back delle Nozze? Dove un Lindoro arrapato cerca di farsela persino con la Berta? E dove Rosina è vittima delle reiterate molestie di un Figaro libidinoso?

E la Natura romantica e poetica (quella di Ossian-Scott) autentico personaggio in musica di Rossini, dov’è finita? L’idilliaco ambiente del lago Katrine, i boschi, le vaste pianure, la dimora umile ma accogliente di Elena (il Felice albergo) che fine hanno fatto? Il tutto è ridotto ad un unico, claustrofobico e vomitevole ambiente (un palazzone diroccato e invaso da sterpaglie) in cui si svolge l’intera vicenda: precisamente l’ambiente più adatto a supportare il pretenzioso Konzept del regista.    

Mamma mia, diciamo la verità: una Donna del Lago così non si era mai vista... ehm, a parte alcune evidenti scopiazzature del team di Michieletto, come i fastosi lampadari che calano dal cielo a nobilitare la reggia (!?) di Giacomo. Idea non solo trita-e-ritrita, ma già applicata proprio alla stessa opera in un allestimento di qualche anno fa (dato anche alla Scala) di Lluìs Pasqual. Confrontare per credere:

E poi, e poi... la foto della cerimonia di fidanzamento con tanto di lampo al magnesio, la parrucca che scopre la vecchia Elena sotto quella giovane, il canneto del Lohengrin scaligero di Guth, il duello alla pistola Rodrigo-Uberto (o Lenskij-Onegin?) con tanto di spari che abbrutiscono l’accordo orchestrale che chiude la scena II del second’atto; e poi altre trovate per le quali Michieletto potrebbe ricevere valanghe di richieste di pagamento di copyright!   

Ora, il bello è che una genialata simile si abbierà molto probabilmente un qualche importante premio, elargito da una claque travestita da paludato simposio di critici musicali. Così è, se gli pare
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Meno male che Rossini c’è! Sì, perchè sul fronte delle note le cose sono andate assai meglio (anche qui non tutto è incantevole, peraltro). Soprattutto grazie alla premiata coppia JDF-Spyres, che personalmente ritengo essere oggi la meglio assortita per impersonare i ruoli dei due tenori: il primo per la nobiltà e la raffinatezza del portamento, perfettamente tagliate sul personaggio di Uberto(-Giacomo) tutto lirismo e passione; il secondo per la strabordante, quasi proterva esuberanza del suo canto di forza, mirabilmente appropriato ad impersonare il rude, spavaldo e bellicoso carattere di Rodrigo. Il terzetto che apre il second’atto, dove con altre coppie tenorili spesso si fatica a distinguere una voce dall’altra, ne è stata la prova più eclatante.

E a quel numero ha dato il suo contributo Salome Jicia, un prodotto dell’allevamento di Zedda. C’è chi si lamenta di scelte come questa (mandare un’esordiente allo sbaraglio in un’occasione così importante) dimenticando però che il ROF (tramite la sua Accademia) si è dato (anche) la missione di formare voci rossiniane, il che giustifica di per sè che a quelle reputate più interessanti venga concessa l’opportunità di presentarsi al grande pubblico. Dopodichè non è sempre detto che le ciambelle escano con il buco, ma nella circostanza mi sentirei di dire che almeno un... forellino ci sia. Il soprano georgiano ha quanto meno sfoggiato uno strumento adeguato, di cui certo è da migliorare l’impiego (ad esempio: gli acuti tenuti di forza escono bene, quelli da eseguire in agilità e virtuosismo fanno invariabilmente cilecca; la cosiddetta ottava bassa lascia assai a desiderare). Insomma, prima di parlare di una novella Colbran ci vorranno barili di olio di gomito... ma insomma le premesse/promesse almeno paiono confortanti.

Varduhi Abrahamyan alla radio mi era sembrata un filino... molle, ma devo dire che dal vivo mi ha fatto migliore impressione: il suo è un Malcom accorato, il portamento è convincente: al contrario della Jicia, lei sembra assai più preparata, peccato che la voce sia proprio deboluccia, ecco.    

Marko Mimica è un Duglas tanto protervo quanto insopportabile: canto perennemente ingolato, voce cavernosa e schiamazzi da osteria. Dignitose le prove dei comprimari Ruth Iniesta e Francisco Brito.  

Il coro di Andrea Faidutti ha evidentemente tratto profitto dalla seconda recita, e ieri sera l’ho trovato in gran forma, proprio senza una sbavatura.

Il Figliolo del Sovrintendente (anche l’Abbado giovine aveva santi in paradiso, quindi nessuno scandalo a sfondo nepotista, per carità...) è sempre più in perfetta sintonia con la sua Orchestra, che ne segue il gesto con precisione quasi robotica. Anche qui la ripresa radiofonica aveva evidentemente appiattito assai le dinamiche, che invece dal vivo sono emerse in tutta la loro varietà di sfumature ed accenti. Se si escludono un paio di impertinenze foniche (una ha quasi coperto una frase di JDF) la direzione di Mariotti mi è parsa assolutamente all’altezza, dovendo il Direttore oltretutto calibrare i suoni degli strumenti fuori-scena (e qui lo richiede Rossini) e quelli del coro, che Michieletto tiene spesso e volentieri rintanato dietro pannelli più o meno fono-assorbenti.


Adriatic-Arena presa d’assalto (non una seggiola vuota) e pubblico osannante, soprattutto per JDF, Spyres e il Kapellmeister di casa.    

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