Ma quale Ossian.
Ma quale Scott. Ma quale Tottola. Ma quale fiaba romantica a lieto fine... Qui
siamo nel bel mezzo di un dramma esistenzialista, come minimo.
Il merito è di
tale Damiano Michieletto, che ha
capacità inventive imitative straordinarie: ha compiuto un’impresa
riuscita più di tre lustri orsono al grande Robert Carsen, che trasformò incredibilmente
un soggetto barocco, magico, fantastico, spettacolare e a lieto fine - come
l’Alcina di Händel - in un pezzo strindberghiano
sull’alienazione.
Certo, La Donna del Lago non è una storia tipo Harmony, il libretto di Tottola e la
musica del Gioachino contengono mille sfumature psicologiche che gettano luci
contrastanti sui personaggi principali, a partire proprio dalla protagonista,
una ragazza sensibile e, perchè no, un tantino complessata (il padre ha in ciò
una responsabilità non secondaria). Che le profferte di Uberto non la trovino
insensibile è chiaro a tutti, ma è anche altrettanto chiaro come lei resti
fedele al suo (primo) amore e addirittura si senta un po’ colpevole della
delusione che arreca al sedicente cacciatore o pastore. La sua felicità finale
è fuori discussione, il testo di Tottola e la musica di Rossini non lasciano
adito al minimo dubbio al riguardo.
___
Qui invece ci
viene raccontata una storia del... dopo
la chiusura del sipario (ergo, per definizione: tutt’altra storia rispetto a quella di Scott e di Tottola, per la
quale Rossini compose la sua musica!) Vissero tutti felici-e-contenti? E voi
creduloni credete ancora a queste favole?
Sapeste quante
volte Elena (controfigura da vecchia: Giusi
Merli) ha rimpianto di non aver ceduto alle avances di Uberto: managgia!
avrebbe potuto occupare lei il posto di Marie de Guise a
Stirling, dove oltretutto era nata e dove avrebbe potuto tornare, lasciando il
palazzo diroccato (così almeno ce lo presenta il regista) in cui il padre
Duglas l’aveva trasferita dopo aver rotto i rapporti con il Re, del quale era
stato nulla di meno che il precettore. E così, invece di essere servita minuto
per minuto da stuoli di paggi e ancelle, eccola lì a dover lavare tutti i santi
giorni le mutande puzzolenti di quel caprone di Malcom!
E Malcom (controfigura
da vecchio: Alessandro Baldinotti)? Credete
l’abbia presa tanto bene la scoperta che la sua donna pura-siccome-un-angelo era stata insidiata dal Re: cosa si
nascondeva dietro l’apparente magnanimità del gesto finale di Giacomo? E cosa
c’era stato veramente fra loro? Davvero soltanto incontri innocenti (come
leggiamo nel libretto e ascoltiamo dalla musica) o anche molto, mooolto di più,
come ci mostra esplicitamente l’informatissimo Michieletto? Forse questo spiega
perchè Malcom (sempre nel dopo) si
imbestialisca vedendo la moglie posare fiori freschi davanti al ritratto del Sovrano...
Insomma: una
vita, quella che Michieletto si inventa nel dopo,
costellata di rimpianti, dubbi, sospetti, ansie, che fanno rivivere ai due i
fatti trascorsi (cioè le vicende narrate nell’opera di Rossini) in una luce
sinistra e trasformano i ricordi del passato in autentici incubi, in ossessioni
esistenziali da far curare dal dottor Freud. I due attempati Elena&Malcom restano quasi in
permanenza in scena, talora come semplici spettatori per lo più inorriditi di
ciò che avviene nella realtà (del libretto) talaltra addirittura tentando di
forzarne il corso, come quando Elena-old spinge la Elena-young nelle braccia di
Uberto o quando Malcom-old cerca di aggredire il trionfante Rodrigo! Durante il
duettino del primo atto si raggiunge poi
il grottesco: abbiamo addirittura in scena le due coppie, Malcom-old/Elena-young
ed Elena-old/Malcom-young, che ballano un grazioso walzerino!
Mica male
davvero come fedeltà al soggetto che ti
abbiamo profumatamente pagato per rappresentarci, caro Damiano! Perchè un
conto è cogliere tutte le sfumature e anche le ombre della personalità dei
protagonisti, mettendole in giusto risalto, altro è amplificare indebitamente e
a dismisura questi aspetti fino a farli assurgere a tema dominante dell’opera,
a cui così si cambiano letteralmente i connotati.
Si dirà: e che
c’è di strano in un’operazione come questa? Perchè meravigliarsi tanto? In
fondo persino il dopo del Barbiere di
Siviglia non è proprio un idillio edificante: lo svenevole innamoratissimo
Lindoro si rivela essere un Conte accanito donnaiolo e la povera Rosina,
promossa a Contessa, nelle trappole ci casca lei, altro che farle giocare... Tutto vero, però lì
qualcuno si è preso la briga di scriverci un altro libretto e comporci altra
musica, o vogliamo mettere in scena – caro Michieletto - il Barbiere come fosse un flash-back delle Nozze? Dove un Lindoro arrapato cerca di farsela persino con la
Berta? E dove Rosina è vittima delle reiterate molestie di un Figaro libidinoso?
E la Natura romantica e poetica (quella di
Ossian-Scott) autentico personaggio in
musica di Rossini, dov’è finita? L’idilliaco ambiente del lago Katrine, i
boschi, le vaste pianure, la dimora umile ma accogliente di Elena (il Felice albergo)
che fine hanno fatto? Il tutto è ridotto ad un unico, claustrofobico e
vomitevole ambiente (un palazzone diroccato e invaso da sterpaglie) in cui si
svolge l’intera vicenda: precisamente l’ambiente più adatto a supportare il
pretenzioso Konzept del regista.
E poi, e poi...
la foto della cerimonia di fidanzamento con tanto di lampo al magnesio, la
parrucca che scopre la vecchia Elena sotto quella giovane, il canneto del
Lohengrin scaligero di Guth, il duello alla pistola Rodrigo-Uberto (o Lenskij-Onegin?) con tanto
di spari che abbrutiscono l’accordo orchestrale che chiude la scena II del
second’atto; e poi altre trovate per le quali Michieletto potrebbe ricevere
valanghe di richieste di pagamento di copyright!
Ora, il bello è
che una genialata simile si abbierà molto
probabilmente un qualche importante premio, elargito da una claque travestita da paludato simposio
di critici musicali. Così è, se gli pare.
___
Meno male che
Rossini c’è! Sì, perchè sul fronte delle note le cose sono andate
assai meglio (anche qui non tutto è incantevole, peraltro). Soprattutto grazie
alla premiata coppia JDF-Spyres, che
personalmente ritengo essere oggi la meglio assortita per impersonare i ruoli
dei due tenori: il primo per la nobiltà e la raffinatezza del portamento,
perfettamente tagliate sul personaggio di Uberto(-Giacomo) tutto lirismo e
passione; il secondo per la strabordante, quasi proterva esuberanza del suo
canto di forza, mirabilmente appropriato ad impersonare il rude, spavaldo e
bellicoso carattere di Rodrigo. Il terzetto che apre il second’atto, dove con
altre coppie tenorili spesso si fatica a distinguere una voce dall’altra, ne è
stata la prova più eclatante.
E a quel numero ha dato il suo contributo Salome Jicia, un prodotto dell’allevamento di Zedda. C’è chi si lamenta
di scelte come questa (mandare un’esordiente allo sbaraglio in un’occasione così
importante) dimenticando però che il ROF (tramite la sua Accademia) si è dato
(anche) la missione di formare voci rossiniane, il che giustifica di per sè che
a quelle reputate più interessanti venga concessa l’opportunità di presentarsi
al grande pubblico. Dopodichè non è sempre detto che le ciambelle escano con il
buco, ma nella circostanza mi sentirei di dire che almeno un... forellino ci
sia. Il soprano georgiano ha quanto meno sfoggiato uno strumento adeguato, di
cui certo è da migliorare l’impiego (ad esempio: gli acuti tenuti di forza
escono bene, quelli da eseguire in agilità e virtuosismo fanno invariabilmente
cilecca; la cosiddetta ottava bassa lascia assai a desiderare). Insomma, prima
di parlare di una novella Colbran ci
vorranno barili di olio di gomito... ma insomma le premesse/promesse almeno
paiono confortanti.
Varduhi Abrahamyan alla
radio mi era sembrata un filino... molle, ma devo dire che dal vivo mi ha fatto
migliore impressione: il suo è un Malcom accorato, il portamento è convincente:
al contrario della Jicia, lei sembra assai più preparata, peccato che la voce sia
proprio deboluccia, ecco.
Marko Mimica è un Duglas tanto
protervo quanto insopportabile: canto perennemente ingolato, voce cavernosa e
schiamazzi da osteria. Dignitose le prove dei comprimari Ruth Iniesta e Francisco
Brito.
Il coro di Andrea Faidutti ha evidentemente tratto
profitto dalla seconda recita, e ieri sera l’ho trovato in gran forma, proprio
senza una sbavatura.
Il Figliolo del Sovrintendente (anche
l’Abbado giovine aveva santi in paradiso, quindi nessuno scandalo a sfondo
nepotista, per carità...) è sempre più in perfetta sintonia con la sua Orchestra, che ne segue il gesto con
precisione quasi robotica. Anche qui la ripresa radiofonica aveva evidentemente
appiattito assai le dinamiche, che invece dal vivo sono emerse in tutta la loro
varietà di sfumature ed accenti. Se si escludono un paio di impertinenze
foniche (una ha quasi coperto una frase di JDF) la direzione di Mariotti mi è parsa
assolutamente all’altezza, dovendo il Direttore oltretutto calibrare i suoni
degli strumenti fuori-scena (e qui lo richiede Rossini) e quelli del coro, che
Michieletto tiene spesso e volentieri rintanato dietro pannelli più o meno
fono-assorbenti.
Adriatic-Arena presa
d’assalto (non una seggiola vuota) e pubblico osannante, soprattutto per JDF,
Spyres e il Kapellmeister di casa.
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