Ieri sera, con
l’ultima, applauditissima recita del Ciro, è calato il sipario su questa
37a edizione del ROF: ancora l‘immensa Ewa
Podleś sugli scudi, autentica trionfatrice della serata e, direi, di tutto il Festival;
successo anche per la Yende, Siragusa e gli altri comprimari, per il
coro di Faidutti e per l’orchestra
guidata ancora una volta in modo autorevole da Jader Bignamini. Pubblico ancor più straniero del solito: nella
piazzetta antistante il teatro e nel piccolo foyer la lingua italiana era in
netta minoranza, sovrastata dal tedesco, dall’inglese e da non meglio precisabili
idiomi orientali.
Stando a ciò che
i responsabili della Fondazione hanno anticipato, e anche da ciò che un
frequentatore sporadico come il sottoscritto può testimoniare, quanto meno il
successo di pubblico è stato evidente: teatro e arena sempre al tutto esaurito, accoglienza degli
spettacoli dal caloroso al trionfale. Pubblico per l’appunto cosmopolita, ma di
un cosmopolitismo del tutto diverso, per dire, da quello che si osserva
regolarmente in un teatro come La Scala, dove gli stranieri abbondano, ma si
scorge lontano un miglio che sono lì per fotografare e farsi fotografare in un tempio della lirica, mica certo perchè
interessati allo spettacolo che si programma quella sera, di cui probabilmente
nulla sanno e pochissimo gli importa.
No, qui a Pesaro
arriva espressamente e da tutti i continenti un pubblico amante della musica,
di Rossini in particolare, un pubblico ancora e sempre affezionato a questo
Festival che si è storicamente immedesimato nella Rossini-renaissance. Persone che hanno probabilmente vissuto qui a
Pesaro momenti esaltanti e che ci tornano regolarmente come vecchi innamorati
per riprovare piacevoli sensazioni e rinnovare ricordi passati. Una coppia di
teutonici che si trovava con me nello stesso palco confidava di non aver perso
nemmeno una delle 37 edizioni del Festival, e di essere fermamente decisa a continuare
così per il futuro, nonostante riconoscesse che non ci sono più le voci di una
volta (e uscivano nomi quali Valentini, Ricciarelli, Blake, oltre al sommo
Abbado...) Ecco, personalmente mi metto volentieri in questa compagnia.
Certo, i tempi
mutano per tutti e anche il ROF ha ormai da anni cominciato a cambiar faccia e
pelle: da esclusivo proponente di edizioni critiche delle opere – anche le più
sconosciute o bistrattate – del genio pesarese, si va trasformando in una
specie di palestra rossiniana dove si
sperimentano nuovi allestimenti dei lavori del grande Gioachino, e dove si
presentano voci nuove che affiancano e via via sostituiscono quelle più storiche o già affermate. Tutto ciò
comporta un evidente rischio di sovraesposizione: allestimenti spesso velleitari
quando non letteralmente adulteranti i soggetti originali; e cantanti, pur
promettenti, ma con esperienza ancora limitata, le cui prestazioni possono
lasciare insoddisfatti i palati più raffinati.
Che dire? È il
classico caso del bicchiere: per qualcuno è mezzo vuoto e quindi da buttare;
per altri è ancora mezzo pieno e val la pena tenerselo stretto... (io mi schiero
in questa seconda fazione).
La prossima
edizione è già sbozzata come programma generale: salvo ripensamenti (peraltro
assai frequenti qui) verranno proposte tre opere tutte alla seconda apparizione
al ROF; tre opere che si collocano simmetricamente all’interno della produzione
di Rossini: la giovanile Pietra di
paragone (esordio 2002) la baricentrica Torvaldo
e Dorliska (esordio 2006) e la matura Siège
de Corinthe (esordio 2000). Con la riproposta dello Stabat Mater si chiuderanno verosimilmente i battenti. Arrivederci
quindi al ROF-XXXVIII.
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