24 febbraio, 2020
Roma ospita un Onegin di alto livello
23 giugno, 2013
L’ur-Macbeth è tornato a Firenze
19 marzo, 2010
E bravo Conlon!
La newyorkese milanesizzata blogger di Operachic ha intervistato di recente il maestro James Conlon (che ha diretto – per me assai bene – l'ultimo Rigoletto alla scala).
Un passo topico dell'intervista è questa considerazione di Conlon:
Our job as performers is to surrender our own egos and to completely open ourselves to the work itself and to transmit that work as if we're not there. This is on the one hand a very easy and simple thing to do. On the other hand, we're all crippled by our own egos. To me, I'm not interested in knowing what my interpretation is. When I was studying at The Juilliard School, the big movement was objectivism vs. subjectivism and the popular methodology was, "You have to find your own feelings, your own voice, and you have to find yourself. What's your take on this piece of music?" Well, I had an allergy to that type of conversation. I thought, "I know what my feelings are and I couldn't care less what my own feelings are. I want to know what the object is." Is that objectivism? Well, yes, that's objectivism. I want to know who Haydn is. I want to know who Beethoven is. I want to know how their music works. How does it fit? Why is it this? And why is it that? And to me, the beauty of that method is that you can devote yourself to the other, and a byproduct of that is that you find yourself. However if you go from the other point of view -- the "find yourself" subjectivism -- you don't find the other.
In sostanza, il Maestro sembra dire: io vorrei poter trasmettervi la quinta di Beethoven, non la Quinta di Conlon, da paragonare con quella di Abbado, di Furtwängler, di Kleiber o di HvK.
Personalmente: parole sante!
31 gennaio, 2010
Rigoletto in Scala
Dopo Carmen, è arrivato (o tornato) alla Scala il Verdi popolare, con Rigoletto. La prima del 15 e le successive sei recite hanno fatto registrare reazioni mediamente positive, anche se talora venate da una certa noia di chi non ne può più di vedere vecchie produzioni di vecchi rigoletti nucciani, affiancati da gilde e duchi così-così e per di più affidate ad un conductor yankee dalle propensioni nibelungiche; direttore invece osannato – al pari dei protagonisti, pur con qualche distinguo - anche da pezzi grossi della critica.
La recita di oggi pomeriggio presentava il primo cast, ma non al completo. A Nucci e Secco, nei principali ruoli maschili, si è affiancata per la prima volta, quale Gilda, la Aleksandra Kurzak, a rimpiazzare la Elena Mosuc, che ha concluso la sua fatica il 29.
Teatro per nulla pieno come un uovo, a dimostrazione di come neanche il repertorio più tradizionale, quello del bel canto italico, faccia più cassetta.
Ricordo qui – a scoppio ritardato – che già il 7 gennaio, per preparare a dovere gli appassionati, Claudio Toscani aveva tenuto una conferenza introduttiva, invero interessante, dove aveva efficacemente riassunto i principali tratti di quest'opera, tanto conosciuta superficialmente, quanto forse sottovalutata sotto il profilo estetico-artistico: il teatro-verità, mutuato da Hugo, in opposizione al teatro-inverosimiglianza; l'innovativa caratterizzazione dei personaggi, rispetto agli stereotipi della tradizione (il tenore che non è l'eroe, ma un tipo poco raccomandabile, però con qualche slancio sincero; il baritono che è un fin troppo premuroso padre di famiglia, ma anche capace di vendette carognesche; la soprano, che è una ragazza per bene… ma con le sue belle debolezze…); la struttura musicale, che più – meglio dire: oltre - che le tradizionali arie, cantate dal singolo, contiene pezzi d'insieme, perché l'azione possa scorrere speditamente; la mirabile rappresentazione della psicologia e degli stati d'animo dei diversi personaggi, come esce soprattutto dal finale quartetto; e infine, l'abilità di Verdi nell'aggirare i fulmini della censura,fingendo di adeguarvisi, ma allo stesso tempo senza cedere di un millimetro sul piano dei contenuti.
Leo Nucci, che ormai è sulla strada delle 500 buffonate, non ha tradito le attese. Gallina vecchia (o gallo, in questo caso) fa davvero buon brodo. La sua caratterizzazione - scenica, ma soprattutto musicale - del personaggio è fantastica. Se magari tende ad esagerare con il declamato (o l'esclamato) non è certo per mancanza di voce, ma proprio per – giustificata, credo – immedesimazione con il personaggio. Perché una cosa è certa: quando la tira fuori, la sua voce è ancora quella di un quarantenne! Dopodichè, come in tutti i casi della vita, l'assuefazione è sempre in agguato. Ma in questo caso l'assuefazione non è del baritono, che offre il massimo livello artistico in questo difficile – proprio perché famosissimo – ruolo, ma di certo pubblico che magari ha visto la trentesima edizione del suo buffone. Peraltro, oggi pomeriggio, le ovazioni, i bravo, i grande si sono semplicemente sprecati, a scena aperta ed alle numerosissime chiamate finali. Quindi, cento rigoletti ancora di questo Nucci!
Ma Nucci non è una sorpresa, e oggi invece una sorpresa – almeno per la Scala – c'è stata, e come. Si chiama Aleksandra Kurzak, una Gilda di livello notevole. Forse per qualcuno (che l'avrà già sentita nel ruolo ad Amburgo, al MET e a Parma) è stata soltanto, si fa per dire, una conferma, ma tant'è: grande prestazione, voce chiara, ma potente (tale da sovrastare tutti nel quartetto del terzo atto) e capacità di porgere davvero rimarchevole. Successo indiscutibile.
Stefano Secco è stato il tenore che è (!) Un Duca più che discreto, musicalmente corretto (ha fatto bene anche il suo compitino col SI di pensier…) cui mancano un poco di decibel nella voce. La storia dei Duchi – sappiamo – è divisa in due, fra tenori lirici ed eroici, e Secco va ad ingrossare, senza aumentarne il tasso di qualità, quella dei primi. Alla fine qualche isolato dissenso si è fatto sentire dal loggione.
Degli altri… non entro in dettagli, come a dire: non han fatto danni.
Chi merita un encomio è invece Conlon. Altro che nibelunghi (magari le sette recite precedenti, e relative prove, gli son servite da esperienza): sempre misurato, attento a non sovrastare le voci, tempi mai prolissi, né forsennati. Insomma, per essere un americano che a LosAngeles sforna Ring a ripetizione, si sa calare benissimo nel nostro repertorio.
Sulla regia, scene e costumi, si sapeva tutto, roba più che collaudata. Certo qualcuno storcerà il naso per non aver visto Rigoletto nei panni di Emilio Fede, il Duca trasformato in Berlusconi, la Maddalena nella D'Addario e la Gilda in Noemi. Io dico, riaffermo e ribadisco: meglio così!!!