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19 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.3

Tutta Italia nel settimanale appuntamento in Auditorium, con il programma ancora una volta tripartito. Sul podio avrebbe dovuto salire Giuseppe Grazioli, un autentico specialista della musica italiana del ‘900 (fra l’altro ha eseguito più volte e inciso con laVerdi molte musiche di Nino Rota) che ha dovuto dare forfait ed è quindi sostituito dal valente Andrea Oddone, che ha un rapporto di lunga data con l’Orchestra.

Purtroppo, l’Auditorium era assai scarsamente popolato… verrebbe da pensare che il nostro sovranismo non sia poi così granitico come si vuol far credere.  

Dei tre brani in programma (di Tommasini, Casella e Respighi) solo il terzo è già stato eseguito (in due precedenti occasioni, 2001 e 2010) dall’Orchestra, che invece affronta per la prima volta gli altri due. Tutti e tre si ispirano o evocano musiche di due autori del ‘700-‘800, Domenico Scarlatti e Gioachino Rossini; il primo e terzo furono composti specificamente per essere rappresentati come balletti dalla compagnia di Sergej Djagilev, ma anche il secondo, di Casella, fu sporadicamente messo in scena.

I tre lavori si differenziano anche per i diversi approcci seguiti dagli Autori rispetto all’impiego delle fonti originali (Scarlatti e Rossini). Si va da una rigorosa rigidità (Tommasini, dove ciascuno dei 23 numeri del balletto si riferisce ad una scena ispirata a Goldoni e ad una singola Sonata scarlattiana); ad un più libero approccio (Respighi, dove ognuna delle 8 sezioni principali del balletto accorpa – e rielabora - riferimenti a diversi brani rossiniani); e infine ad un ancor più complesso approccio, quello di Casella, il cui lavoro ha una struttura classicamente rigida, con 5 movimenti chiaramente individuati, ma dove ciascuno di essi è costruito con una libera rielaborazione di motivi (gli studiosi ne hanno individuati non meno di 88!) degli originali scarlattiani.

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Si apre quindi con Vincenzo Tommasini (1878-1950) e la sua Suite dal balletto Le donne di buon umore (da Goldoni). Balletto che vide la luce nel 1917 a Roma.

I numeri del balletto furono suggeriti dallo stesso Djagilev a partire dallo sterminato catalogo delle Sonate di Domenico Scarlatti, e orchestrati da Tommasini per il balletto; successivamente il compositore ne ricavò la Suite che raccoglie 6 dei 23 numeri del balletto (si veda la tabella in Appendice A.)

Per derivare la Suite, Tommasini ha evidentemente scelto i numeri del balletto che reputava più interessanti, avendo anche cura delle loro concatenazioni tonali: tutta la Suite ha come tonalità di impianto SOL maggiore (i primi due brani); poi seguono la dominante RE maggiore e la sua relativa SI minore; quindi si riparte da SIb maggiore, seguito dalla sua relativa SOL minore, che apre la strada al ritorno conclusivo del SOL maggiore (il che ha costretto l’Autore a trasporlo dal FA di Scarlatti…)

Per l’esecuzione in questo concerto il programma di sala invece riporta semplicemente il titolo Cinque sonate, con i soli riferimenti all’agogica: Presto, Allegro, Andante, Non presto, in tempo di ballo, Presto. In pratica sono i numeri della Suite ad esclusione dell’Ouverture e della Fuga che precede il finale.

In ogni caso si tratta di un brano assolutamente gradevole, che testimonia della qualità della scuola di musicisti italiani del primo ‘900. E che Oddone e l’Orchestra hanno ampiamente valorizzato!

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Valore che ovviamente va riconosciuto ad Alfredo Casella (1883-1947) di cui si è eseguito ScarlattianaDivertimento su musiche di Domenico Scarlatti per pianoforte e piccola orchestra op. 44.

Il brano si articola in 5 numeri, così intitolati:

1.   Sinfonia: Lento, grave - Allegro molto vivace

2.   Minuetto: Allegretto ben moderato e grazioso

3.   Capriccio: Allegro vivacissimo ed impetuoso

4.   Pastorale: Andantino dolcemente mosso

5.   Finale: Lento molto e grave - Presto vivacissimo

Come detto, Casella non trasferisce puntualmente i contenuti scarlattiani nella sua opera, ma ci si ispira assai liberamente. Nell’insieme il brano mostra un notevole grado di originalità ed è questo che lo rende da sempre (con la successiva Paganiniana) uno dei più famosi ed eseguiti del compositore torinese.

Ad interpretarlo alla tastiera è arrivata la giovane (27enne) pianista Martina Consonni, che ha affrontato la sua parte non certo massacrante (a dispetto della fama di gran solista dell’Autore, è basata su un continuo alternarsi di interventi del pianoforte nel tessuto orchestrale e non indulge mai a mirabolanti virtuosismi) con grande (proprio scarlattiana!) leggerezza.

Risultato: convinti e reiterati applausi per lei che ci ricambia con questo sognante (/corrucciato) Mendelssohn.

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La serata si è chiusa con Ottorino Respighi (1879-1936) e la Suite dalle musiche del balletto La Boutique fantasque, costruite a partire da brani tratti dai Péchés de vieillesse e dalle Soirées musicales, che Rossini compose (per il pianoforte e la voce) negli anni successivi all’abbandono della produzione operistica (si veda la tabella in Appendice B.)

Il balletto ha una trama lontanamente parente di Coppelia di Delibes, essendo ambientato in un negozio di bambole e giocattoli che si animano: una storia a lieto fine di bambola-e-bambolotto (ballerini di can-can) innamorati e poi separati dal negoziante che intende venderli disgiunti, infine riuniti dal provvidenziale e solidale intervento degli altri consimili giocattoli.

Come già osservato per Tommasini, anche Respighi impiega i motivi rossiniani con sostanziale fedeltà all’originale, limitandosi a qualche taglio o integrazione. In compenso, matte in campo tutta la propria capacità inventiva e la sua proverbiale maestria di orchestratore.

Tornando alla Suite, in sostanza in essa si eseguono i numeri che fanno da radice alle otto macro-sezioni del balletto.

Oddone si è fatto apprezzare in tutta la serata per la compostezza e sobrietà del gesto, coniugata con la cura nell’interpretazione di agogiche e dinamiche. L’Orchestra lo ha assecondato da par suo, e così la serata si è chiusa in gloria. I tanti assenti forse non sanno ciò che si son persi… ma hanno tempo domani pomeriggio per rimediare!

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Appendice A.

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Appendice B.


13 aprile, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.19

Il 40enne Sesto Quatrini (tuttora operante nella decentrata Lituania) ha fatto il suo esordio sul podio dell’Auditorium per dirigervi il settimanale concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Il cui titolo (Serate romane) fa ovviamente riferimento diretto al terzo brano in programma (i Pini di Respighi) ma indirettamente anche al primo, il Concerto in LA minore di Edvard Grieg, il compositore nordico che con l’Italia e Roma in particolare ebbe più di un contatto, compreso l’incontro con Ibsen che portò poi alla composizione delle musiche per il Peer Gynt.

Per interpretare il Concerto torna qui, dopo due anni e mezzo, un pianista 35enne - purtroppo per lui cieco dalla nascita - che allora avevamo avuto modo di apprezzare nell’Op. 35 di Shostakovich: Nobuyuki Tsujii. [Paradossalmente l’assenza del primo senso può addirittura aiutare l’esecutore ad approfondire la conoscenza di ciò che deve suonare, essendo egli costretto a decifrare con il tatto (sul supporto Braille) ogni singolo particolare della scrittura, anche quelli che – a prima vista – potrebbero essere trascurati.

Il lavoro di Grieg, oltre alla tonalità, si rifà scopertamente a quello di Schumann, già a partire dall’esordio, uno schianto orchestrale seguito da una poderosa serie discendente di accordi del pianoforte:

Poi naturalmente Grieg ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi. Un’opera interessante, rimasta (praticamente) unica del genere nel catalogo del compositore norvegeseche mise in cantiere un secondo concerto, mai però portato a termine.

Nobuyuki (eccolo qui nel 2018 a Liverpool con Vasily Petrenko, da 23’20”) ha sciorinato una prestazione a dir poco strepitosa, tanto che il pubblico non ne voleva sapere di lasciarlo andare, costringendolo, si può dire, a regalarci non uno, ma ben tre bis! (con Grieg, Kapustin e ancora Grieg).
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Dopo l’intervallo ecco una prima assoluta: si tratta di Maggese, composizione commissionata dalla Fondazione milanese e dalla Toscanini di Parma all’ex-assessore alla cultura del Comune di Milano, Filippo Del Corno. Ispirata alla vecchia consuetudine contadina di dare respiro alla terra, fra una coltivazione e l’altra, in modo da permetterle di rigenerarsi invece che inaridirsi.

Ci si può vedere un implicito riferimento ai problemi ecologici che assillano oggi il nostro bistrattato Pianeta. O, più in generale, alla necessità di prenderci qualche pausa per combattere (come recitava un vecchio spot pubblicitario) il logorio della vita moderna!

In realtà per il compositore si è trattato della ripresa dell’attività creativa dopo ben 8 anni trascorsi a Palazzo Marino ad occuparsi di ogni aspetto della cultura della città.

Come spiega l’Autore sul programma di sala, il brano origina da una semplice cellula - un seme, di fatto - dalla quale poi si sviluppa l’intero corpo del brano quadripartito, quante sono le arature del maggese (ogni 45 giorni da marzo ad agosto). Un’alternanza di movimenti animato-lento, in cui si susseguono (come nelle 4 stagioni?): agitarsi di forze cupe e minacciose seguite da oasi di calma; soffocate grida lontane e scrosci sonori che finalmente si placano; temporali e calma di vento.

Un’opera tutto sommato godibile, con molto diatonismo, il che non guasta, diciamolo francamente. E così deve evidentemente aver pensato anche il pubblico, a giudicare dalla calorosa accoglienza all’esecuzione e all’Autore salito sul palco a ringraziare Orchestra e Direttore.  
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Ha chiuso in bellezza la serata Pini di Roma, secondo poema sinfonico della cosiddetta Trilogia romana di Ottorino Respighi. (Qui alcune mie note riassuntive dell’intero trittico.)

Orchestra come sempre impeccabile e meritato successo per tutti, a cominciare dal Direttore, che ha mostrato grande autorevolezza e sobrietà di gesto.

16 aprile, 2023

laVerdi 22-23. 25 (Rach2/4)

Il programma della seconda giornata del Rach-Festival fa precedere il Secondo Concerto dalla versione orchestrale degli Études-Tableaux, predisposta da Ottorino Respighi nel 1929 in risposta ad un’iniziativa del vulcanico Koussevitsky che aveva chiesto a Rachmaninov di orchestrare per la BSO alcuni dei brani delle due opere pianistiche (la 33 del 1911 e la 39 del 1916).

Ne è uscita questa raccolta di 5 Studi, così selezionati da Rachmaninov e messi da Respighi in sequenza concordata con l’Autore:

La mer et les mouettes (Il mare ed i gabbiani) – (Op.39, n°2)

La foire (La fiera) – (Op.33, n°6)

Marche funèbre (Marcia funebre) – (Op.39, n°7)

La chaperon rouge et le loup (Cappuccetto Rosso e il lupo) – (Op.39, n°6)

Marche (Marcia) – (Op.39, n°9)

Mah, forse qui c’è troppo Respighi… sono convinto che altro effetto avrebbe fatto l’esecuzione di Romanovsky al pianoforte!
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Ecco quindi il di gran lunga più famoso ed eseguito Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in Do minore op. 18.

Opera nata proprio all’inizio del XX secolo (1900) a valle di una stagione davvero penosa per Rachmaninov, dalla quale uscì proprio sfornando questo lavoro che gli darà, oltre a grande notorietà, anche il carburante per tutta la sua successiva attività di compositore e soprattutto di concertista.

Concerto che da sempre ha sollevato discussioni fra i critici (meno nel pubblico, di norma entusiasta, va detto) dove si distinguono i giudizi lusinghieri sull’ispirazione e la vena melodica, e quelli invece negativi, se non stroncanti, che ci vedono null’altro che un comodo riflusso di Rachmaninov verso canoni estetici superati e contenuti di fin troppo facile presa sull’ascoltatore. Ho personalmente inquadrato l’origine e le principali caratteristiche del Concerto in uno scritto consultabile qui.     

Romanovsky lo ha già eseguito numerose volte (qui lo vediamo a Seul 9 anni orsono) e anche oggi ha sciorinato tutte le sue straordinarie qualità tecniche ed interpretative. Questa partitura comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata, ma il nostro ha saputo dosare alla perfezione gli ingredienti del manicaretto; forse (ma non è colpa sua) in alcune parti del primo movimento Flor non ha bene dosato le dinamiche, finendo per coprire il suono del pianoforte. Straordinario invece l’Adagio, dove Romanovsky è stato davvero ispirato. Travolgente poi il finale.

Pubblico (Auditorium praticamente preso d’assalto, oggi pomeriggio) in delirio e chiamate a ripetizione, ricambiate da due bis (il primo sempre Rachmaninov).

Giovedi prossimo il Rach3

21 settembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°1


Il Direttore Residente de laVerdi, Jader Bignamini, è chiamato ad inaugurare la stagione in abbonamento 2018-2019 con un programma di impaginazione quasi-tradizionale: Ouverture, Concerto solistico e (in luogo della classica Sinfonia) due Poemi sinfonici in qualche modo fra loro imparentati.

Dal punto di vista storico-geografico, andiamo dall’800 tedesco - primo romanticismo di Weber e pieno romanticismo di Schumann - al ‘900 italiano inoltrato - il tardo- (o decrepito-) romanticismo di Finzi e Respighi.

Ma a proposito di Finzi, proprio nel settembre di 80 anni fa il regime fascista emanava le famigerate leggi razziali, che rovinarono l’esistenza anche al compostore milanese, di famiglia ebrea. La ricorrenza viene celebrata in Auditorium con una mostra di documenti dell’epoca, patrocinata dalla Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e inaugurata ieri pomeriggio, prima del concerto, dal Presidente de laVerdi, Gianni Cervetti. All’evento sono anche intervenuti il figlio di Finzi, Bruno (che con la famiglia si adopera per divulgare la conoscenza dell’opera del padre) e la Senatrice a vita Liliana Segre, che ha sottolineato la necessità di non dimenticare, un tema che costituisce il suo principale impegno all’interno del Parlamento.
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Si parte quindi con l’Ouverture dal Freischütz di Carl Maria von Weber, che torna a risuonare in Auditorium dopo più di 6 anni (allora sul podio la Xian): questa volta il pacchetto dei corni non mostra una sola sbavatura nell’attacco e poi tutta l’Orchestra risponde assai bene alle sollecitazioni del Direttore, meritandosi convinti applausi.
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Si passa poi al Concerto per violoncello di Schumann, interpretato dal persico-austriaco Kian Soltani. Un concerto ostico, difficile da suonare e (per noi ascoltatori) magari anche da digerire, ma questo 26enne che pare ancora un ragazzino lo ha sciorinato con perizia tecnica pari alla profondità di espressione. Perfetto l’affiatamento con Bignamini e massimo rispetto per la partitura, testimoniato dall’esecuzione dell’originale cadenza accompagnata.

Trionfo per lui, che ci regala il suo ormai abituale encore, una danza del fuoco persiana che ha composto lui stesso.
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Per la parte italiana del concerto anche la dislocazione dell’orchestra cambia: i violoncelli, prima relegati dietro le viole in omaggio alla tradizione crucca, tornano baldanzosamente al proscenio. La sei buccine (flicorni, per Respighi) si sistemano ai due lati della galleria dell’Auditorium (come fanno le trombe per il Tuba mirum verdiano, ecco...)

Nunquam di Aldo Finzi (sottotitolato Sinfonia Romana) è in realtà un breve poema sinfonico, che si rifà abbastanza scopertamente allo Strauss di fine ‘800 (il Don Juan in particolare). Pezzo che qualcuno potrebbe bollare di anacronismo (siamo nel 1937!) ma che mostra la grande perizia dell’ancora misconosciuto musicista nel trattamento dell’orchestra.

Per questa prima esecuzione da parte de laVerdi (che già 8 anni orsono ci aveva presentato un altro poema sinfonico di Finzi, L’Infinito) Bignamini deve aver curato ogni dettaglio e il risultato si è visto, anzi... sentito!
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Ha chiuso in bellezza il concerto I pini di Roma, che Bignamini diresse per la prima volta nel 2012 in occasione della tournée dell’Orchestra a Mosca e SanPietroburgo, e che avevamo ascoltato qui un paio d’anni fa da Ceccherini. Inutile dire dell’accoglienza trionfale riservata a Direttore e Orchestra dopo l’irrompere in Roma, dalla via Appia, dei legionari romani, scortati dal martellante accompagnamento delle buccine.

Ecco, un’apertura di stagione che promette bene!

16 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°18


John Neschling torna dopo un paio d’anni in Auditorium portando (un po’ come l’altra volta) un programma inconsueto, il che ogni tanto è un bene, per evitare di adagiarsi - chi suona e chi ascolta - sui facili oltre che comodi cavalli di battaglia... Così il 71enne maestro brasiliano (ma il cognome tradisce le origini austriache, cui si deve aggiungere persino una parentela con Schönberg) accosta il classico Mozart al nostrano Respighi (uno dei suoi autori preferiti, va detto).

L’altro protagonista della serata è il trentenne rampante Federico Colli, che esordisce qui con il K491 di Mozart. Che avevamo ascoltato precisamente or son 3 anni dalle dita magiche di un altro giovane virgulto del nostro pianismo, Gabriele Carcano. Il brano rappresenta una pietra miliare nella produzione pianistica mozartiana e la sua struttura è quanto di più innovativo (non solo per i suoi tempi) sia stato composto per la tastiera.

Approccio assai sostenuto (nell’agogica) esteso a tutti i tre movimenti, evidentemente deciso dalla coppia direttore-solista: personalmente avrei gradito un filino di vivacità in più, ma nell’insieme il tutto ha mantenuto un’assoluta coerenza. La cadenza dell’Allegro è di Orazio Sciortino, le altre due sono dello stesso Colli. Il quale ha mostrato le ormai acclarate qualità di grande protagonista del pianismo contemporaneo, ribadite da un mirabile bis. Sarò un po’ campanilista ma, essendo in origine suo concittadino, penso di non esagerare nel definire Colli - ieri applaudito anche da uno dei suoi maestri, Boris Petrushansky, pure lui di casa in Auditorium - il degno erede di un altro sommo bresciano: Arturo Benedetti Michelangeli.
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La seconda parte del concerto è dedicata ad un titolo del tutto desueto, la respighiana Sinfonia Drammatica (completata nel 1914) che il Direttore ha di recente riproposto all’attenzione dei musicomani, incidendola lassù in terra di Vallonia.

È fin troppo facile affibbiare a quest’opera epiteti poco edificanti: velleitaria, anacronistica, fumo-senza-arrosto, effetti-senza-cause e così via denigrando... Ed è innegabile che la sua fortuna non abbia nemmeno lontanamente avvicinato quella di simili composizioni coeve, che pur non si annoverano fra i capolavori assoluti: il Prométée di Scriabin (1910), la Decima di Mahler (1911), la Quinta di Sibelius (1915), la Alpensinfonie di Strauss (1915) o la Classica di Prokofiev (1917).

E dire che l’analisi approfondita (si veda ad esempio questa, proveniente dagli USA) della sua struttura (tematica, tonale e armonica) e del corposo materiale (appunti e schizzi) che il compositore bolognese ha lasciato, danno l’evidenza di un lavoro profondamente serio e meditato, non certo di una cosa buttata lì con superficialità e supponenza. Forse è stata proprio la smania di strafare dell'autore a nuocere a quest’opera, che continua ad apparire sovrabbondante, contorta, inestricabile e criptica.

Neschling ne ha esaltato i contrasti fra le pulsioni drammatiche (da cui il titolo) e le sezioni più dimesse ed elegiache e l’Orchestra, che credo fosse alla prima lettura del brano, si è meritata calorosi applausi da un pubblico piuttosto scarseggiante (complice forse il clima da... autunno inoltrato). Volendo ragionare in termini bassamente economici (e di spending review) si dovrebbe adesso ammortizzare l’investimento programmando la sinfonia come minimo nelle prossime 3-4 stagioni (!) Del resto, non vedo perchè non riservare a questo Respighi lo stesso trattamento che si garantisce al sinfonista Rachmaninov, per dire...

21 settembre, 2017

MITO – Chiusura a Milano con Chailly


Riccardo Chailly e la Filarmonica scaligera hanno chiuso ier sera all’Arcimboldi la sessione milanese del MITO (questa sera si ripeteranno per chiudere la manifestazione, sotto la Mole) con un concerto di musiche novecentesche, seguendo un percorso a ritroso che partendo dal ’67 ci ha fatto risalire al ’45 e da qui al ’16 (poi al ’24). Percorso che l’onnipresente Gaia Varon ha presentato in senso contrario, sottolineando le grandi diversità formali e sostanziali fra le opere dei tre autori in programma. L’anfiteatro della Bicocca presentava parecchi vuoti... ma è talmente enorme che riempirlo è impresa davvero ardua.  

Ha aperto la serata Lontano di György Ligeti, che qui si può ascoltare diretto da uno dei più strenui ammiratori del musicista ungherese nato in Transilvania, Claudio Abbado con i Wiener nel 1988.
Musica che sembra provenire dallo spazio siderale (è in effetti parente di quella che Kubrick impiegò nel celebre 2001, a Space Odissey) a partire dalla quinta vuota (LAb-REb) dei due violoncelli soli sulla quale flauti, clarinetti e fagotti in sequenza (seguiti poi da corni, viole, oboe, tromba, violini...) tutti in pppp e/o con sordina, fanno nascere la prima delle tre ondate sonore che – separate da due intermezzi – richiamano visioni ancestrali, oniriche, come di galassie che si vanno formando per continua espansione ed arricchimento (grazie alla cosiddetta micropolifonia che ne costituisce il tessuto sonoro) salvo poi magari finire risucchiate da qualche buco nero... ultimo dei quali evocato dal diminuendo-morendo-niente dei due clarinetti e clarinetto basso.   

Musica unica e irripetibile, uscita dalla mente di un essere umano la cui esistenza aveva attraversato i tempi più bui del ‘900, passando dai campi di lavoro del ’44 (e da quelli di concentramento – Mauthausen e Auschwitz - che ospitarono fratello e genitori) all’Ungheria del ’56. Forse oggi non ci fa più quell’effetto di sconvolgente novità, ma resta un’esperienza di ascolto davvero emozionante, che i Filarmonici e il loro Direttore hanno saputo rinnovare con grande efficacia.
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Julian Rachlin ci ha poi proposto quello che è in pratica il canto del cigno di Béla Bartók, il Concerto per viola, composto nel 1945 - su commissione del famoso William Primrose - a poche settimane dalla morte e rimasto purtroppo allo stato di abbozzo (la linea del solista e scarne-scarse indicazioni di strumentazione) poi completato dal fido allievo Tibor Serly. Su una pagina del manoscritto si trova anche l’indicazione dei tempi di esecuzione del Concerto: 20’15” (10’20” + 5’10”+ 4’45”):


Qui un’ormai storica interpretazione del grande Yehudi Menhuin. Pezzo di grande modernità, a dispetto della struttura assolutamente classica dei tre movimenti, la cui verve non è per nulla offuscata dalla miseria delle condizioni materiali in cui versava l’Autore quando vergava queste note sui righi. Rachlin l’ha interpretata da par suo, ben spalleggiato dall’orchestra, che evidentemente Serly (dovendola... inventare) ha tenuto su un profilo di... non ingerenza sulle linee bartokiane della viola. Applausi e ripetute chiamate per il 43enne lituano, che si sottrae a un bis uscendo per l’ultima volta... a mani vuote!
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Dopo la pausa, i due più eseguiti poemi della trilogia romana di Ottorino Respighi: Fontane e Pini di Roma. Debussy-iano il primo, Strauss-iano il secondo, si potrebbe arguire con massima semplificazione, due output certamente influenzati dall’atmosfera del post-tardo-romanticismo ed estranei alle novità (digeribili – Stravinski – o meno – Schönberg&C) di quel primo quarto del secolo scorso.

L’Orchestra li suona assai di frequente e non si smentisce, guidata con polso sicuro e gesto energico da Chailly. Così c’è modo anche per un encore, altro cavallo di battaglia degli scaligeri (qui mentre lo provano in quella che per anni fu la casa del Direttore!)

07 maggio, 2017

2017 con laVerdi – 18


Tutta Italia e tutto Novecento per questo nuovo appuntamento in Auditorium. Lo specialista in musiche nostrane Giuseppe Grazioli ci ha infatti presentato un programma occupato da Respighi (per la verità ispirato anche da... forestieri) e Marinuzzi.

Del compositore bolognese abbiamo ascoltato tre arrangiamenti di musiche non sue, a cominciare da Chopin, del quale è stata eseguita la trascrizione della Polacca op.40, prodotta nel 1920 (insieme a quella del Preludio op.20) come parte della musica per il balletto di Ileana Leonidov intitolato La Pirrica.

Le trascrizioni e gli arrangiamenti di questa celeberrima Polacca militare sono innumerevoli, spesso predisposti per spettacoli di balletto, e il primo ad occuparsene fu probabilmente Glazunov, poi qualcuno ci ha infilato il coro, altri il canto e la danza; la NYPO l’ha incisa già nel 1919; quindi, nel 1921, ecco la Banda della Marina USA; ancora la NYPO con Kostelanetz; non manca LasVegas...; qui, per non dimenticarne l’origine, si aggiunge anche il pianoforte; ecco poi 12 violoncelli coreani; e ancora una trascrizione per organo; e poi un’altra banda; infine non poteva mancare il rockÈ verosimile che Wagner abba preso spunto dall’incipit di questa Polacca per creare il Leit-motiv (non a caso... militaresco) di un suo famoso personaggio: Kurwenal.

Per distinguersi dalla... massa, Respighi pensò bene di portare la tonalità - dal LA (e RE) maggiore dell’originale - al SIb maggiore. Poi le sue doti di grande orchestratore hanno fatto il resto.

É stata quindi la volta di Rossini, e della celebre Rossiniana, le cui origini vengono sempre riferite a brani tratti esclusivamente dal Volume XII dei Pièces de vieillesse (Quelques riens pour album). Il che è inesatto, come mostra il sottostante  specchietto che riporta i riferimenti corretti, che rimandano anche al Volume VI (Album pour les enfants dégourdis) e al Volume VIII (Album de château):

Respighi
Rossini
1. Capri e Taormina (Allegretto-Barcarola)
Volume XII – n°1 - Allegretto
                               (Andantino-Siciliana)
Volume XII – n°8 – Andantino sostenuto
2. Lamento – Andantino maestoso
Volume VI – n°3 – Memento homo
3. Intermezzo
Volume XII – n°2 – Allegretto moderato
4. Tarantella puro sangue (con passaggio de la processione)
Volume VIII – n°9 - Tarantelle pur sang (avec traversée de la procession)

Infine Bach, e il suo Preludio&Fuga BWV532, dove Respighi riesce mirabimente a riprodurre con l’orchestra i suoni di un gigantesco organo!
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Il pezzo forte del pomeriggio era la Sinfonia in LA di Gino Marinuzzi, che Grazioli ha già diretta meno di un anno fa a Catania, con un grandissimo successo.

L’opera, composta sotto i bombardamenti del 1942, si articola in tre movimenti: Apertura – Georgica – Ditirambo(-Finale): qui quella che era, fino a poche settimane orsono, l’unica incisione, con Niksa Bareza e i filarmonici croazzi. Oggi è in commercio, fresca di stampa, quella di Grazioli-laVerdi:



Musica di grande fascino, assolutamente ancorata al diatonismo e per la quale mi verrebbe da proporre la definizione apparentemente bizzarra di classico tardo-romanticismo (!) Mi sentirei anche di applicarvi (non in senso denigratorio, attenzione) l’epiteto che molti detrattori di Mahler impiegavano per liquidare la musica del boemo: Kapellmeister-Musik, musica che rimane in testa ad un Direttore d’Orchestra, della tantissima e diversa che dirige ogni giorno, e che poi riemerge trasfigurata e plasmata dalla sua sensibilità.

Ci troviamo spunti da Bruckner, Brahms, Wagner, Mahler, Strauss, Scriabin, Shostakovich, ...e da musiche da film, sapientemente inseriti in un corpus armonico e contrappuntistico di prim’ordine e con orchestrazione di alta scuola.
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Oggi pomeriggio l’Auditorium era discretamente affollato da un pubblico che ha mostrato di apprezzare molto questa proposta (piuttosto inconsueta nella stagione principale) tributando meritate ovazioni a Grazioli e ai ragazzi.

12 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°10


Riecco Tito Ceccherini (stavolta da titolare) nel decimo concerto della stagione 2016, tutto dedicato all’Italia (emigrati inclusi...) L’impaginazione prevede di incastonare due concerti per violino (Busoni e Malipiero-1, protagonista Domenico Nordio) fra due - i più eseguiti - dei tre poemi sinfonici romani di Respighi. Quanto alle date, si esplorano 35 anni, che separano il Busoni tardo-romantico di fine ‘800 - passando per il Respighi a cavallo della Grande Guerra (1916-1924) - dal Malipiero in pieno fascismo (1932).     

Si parte con Fontane di Roma, in cui subito appare nei secondi violini (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) una vaga reminiscenza mahleriana: sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquìo, che rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia. Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina (qui fa capolino Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi) e poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

Come sempre impeccabile l’orchestra, dalla quale Ceccherini sa cavar fuori le appropriate sonorità, in particolare dai timbri di legni, arpa e tastiere (celesta, organo, pianoforte) per questo brano di grande raffinatezza impressionista.
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La parte centrale del concerto è dedicata a due opere per violino solista. Ceccherini e Nordio rifanno coppia in Auditorium - lo sono spesso in Svizzera - dopo nemmeno un anno (lo scorso maggio si erano esibiti in Bartók). Nordio prosegue da parte sua l’esplorazione del repertorio italiano, dopo che nel 2012 ci aveva proposto Castelnuovo-Tedesco.

Oggi: Busoni e Malipiero, due compositori che hanno molti aspetti in comune, ma altrettanti, se non di più, che li differenziano radicalmente. Il mai abbastanza compianto Sergio Sablich ci ha lasciato al proposito un acutissimo scritto, che mette in risalto la complessità del rapporto fra i due musicisti.  

Il Concerto di Busoni fu presentato l’8 ottobre 1897 alla Singakademie Berlin, con l’Autore sul podio alla guida dei Berliner Philharmoniker, solista Henri Petri, dedicatario dell’opera. Il concerto, che fu bollato da un critico berlinese come abbastanza scialbo e scarso di contenuti (!) da allora ha invece avuto un discreto successo presso i principali interpreti: qui una storica interpretazione (1936) del grande Adolf Busch con Bruno Walter, al Concertgebouw.

Busoni, trentenne alla data della composizione, si muove ancora nell’800, come mostrano reminiscenze di Beethoven, Brahms e persino di Bruch, ma al contempo cerca un po’ velleitariamente di innovare: la struttura è più vicina a quella di una fantasia dove i motivi si susseguono ma senza svilupparsi, nè interagire (quindi: niente forma-sonata); le sezioni (movimenti?) sono tre, caratterizzate da tempi diversi, ma tra loro concatenate (tipo Mendelssohn e Bruch). In definitiva l’impressione che se ne trae è di qualcosa di indecifrabile: al confronto il concerto di Sibelius, sfornato quasi 8 anni dopo a ‘900 ormai inoltrato, avrà un successo largamente superiore, proprio per la sua caratteristica di rifarsi esplicitamente (e assai prudentemente) alla tradizione ottocentesca, senza pretese di innovare, non dico stravolgere, alcunchè.
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Proviamo a decifrare quest’opera piuttosto fuori dagli schemi, seguendone la citata interpretazione di Busch-Walter.

L’inizio dell’Allegro moderato è di pretta marca beethoveniana: su un RE all’unisono di tutti gli archi, i legni e i corni presentano subito (4”) un primo tema cantabile (tema-a, che tornerà anche nelle altre due sezioni del concerto, conferendogli quindi una caratteristica di ciclicità) che si chiude con tre quarte e una quinta discendenti dei clarinetti e poi si spegne rapidamente sulla sottodominante per far posto all’entrata del solista (27”) che per ora si limita a sciorinare virtuosismi, con ondeggiamenti di crome e poi semicrome, accompagnato quasi soltanto da rulli di timpano, finchè il fagotto prima (56”) quindi i clarinetti (1’04”) ancora fagotto e corni (1’10”) ne contrappuntano le evoluzioni con un motivo (tema-b) costituito da una scala ascendente che copre un’intera ottava (rispettivamente di DO, FA# e LA, sfociando un semitono più in alto) e che tornerà nel seguito.

Finalmente il solista, dopo una sospensione di sapore brahmsiano in corona puntata sulla sensibile DO#, espone a sua volta (1’26”) il tema-a, successivamente reiterato (1’51”) con sviluppo di virtuosismi e sfociante (2’02”) in una plateale perorazione cadenzante dell’orchestra. Subito il solista (2’05”) si imbarca in virtuosismi sopra il tema-b esposto (sul RE) da fagotto e viole, poi ancora (sul LA) da fagotti e clarinetti, fino ad arrivare ad una nuova feroce esternazione dell’orchestra (2’25”) che richiama le quarte discendenti del tema-a.

Il violino (2’31”, tranquillo) riprende i suoi virtuosismi accompagnato con discrezione da oboi e poi corni (che ripetono la cadenza di poco prima) e clarinetti e corni, per giungere (2’59”, più moderato) ad un passaggio dei fiati che paiono anticipare un nuovo tema, per ora solo accennato (ricorda qui l’Italiana di Mendelssohn) e subito interrotto (3’05”, allegro) dal solista, sempre più ostinato e scalpitante finchè non si acqueta (3’30”, quasi adagio) per esporre in ottave in corda doppia (sul SOL#) il tema-b e quindi ancora adagiarsi su trilli di DO#.

Ora (4’03”, Tempo I) i fiati espongono compiutamente il nuovo tema (tema-c) che il solista ancora accompagna con i suoi svolazzi di semicrome, fino ad arrivare (4’23”) ad un fortissimo a piena orchestra, sul quale corni e tromboni reiterano pomposamente (sul LA) il tema-b, chiudendolo (4’27”) con uno schianto di settima diminuita dal quale il solista si lancia in un’ennesima volata di semicrome, prima staccate, poi in corda doppia. Su esse intervengono (4’34”) i corni e gli archi bassi con l’incipit del tema-c, quindi tutti si incaponiscono in una pesante cadenza, che sfocia (4’57”, Gemessen, mit Humor) invece che nel canonico sviluppo e poi ripresa, in una sorprendente e bizzarra sezione che si potrebbe plausibilmente interpretare come la lunga coda del primo movimento del concerto.

Il solista espone un nuovo, spigliato motivo in LA maggiore e poi dialoga con l’orchestra su un ostinato ritmo marziale degli archi in pizzicato, poi (5’25”, Scherzoso) tutti si sbizzarriscono in trilli e note staccate, quindi è ancora il solista a trascinare l’orchestra animando sempre più, finchè su un suo MI acuto in trillo le trombe (6’04”) espongono per l’ennesima volta e con grande luminosità (sul MI) il tema–b. Qui si innesta la perorazione finale (sulla dominante LA maggiore) della sola orchestra, enfatica e magniloquente, che si spegne però (6’27”) su una cadenza sommessa in continuo ritardando, in cui si riaffacciano le quarte e quinta discendenti del tema-a, e che porta direttamente ad un tempo quasi andante sul quale di fatto ha inizio la sezione centrale (o movimento lento, se così si preferisce) del concerto.

I contrabbassi (6’59”) la aprono, subito dopo affiancati dai celli, in un cupo DO minore, sul quale si ode (7’14”) un richiamo della tromba (SOL-DO); poi, dopo un altro richiamo di corno e tromboni, ecco l’oboe (7’42”) che canta la sua melopea, sempre in DO minore, insieme ai clarinetti. Sembra affacciarsi (8’14”) il DO maggiore nei corni, ma il solista (8’17”) entra per esporre il suo languido motivo in FA maggiore, che però (8’43”) vira a DO maggiore e poco dopo, con un’ulteriore modulazione a SOL maggiore (8’52”) ci porta ad una chiara reminiscenza di Bruch (tema in MIb maggiore – poi DO maggiore - dell’Adagio del celebre concerto op.26). La melodia del violino si estende ancora largamente con successive increspature e modula più volte, fino a morire sul RE maggiore (10’16”).

Qui il tempo accelera a Poco agitato e sul tremolo di RE di primi violini e viole il solista in corda doppia (10’20”) ricorda ancora Bruch (in SOL maggiore). Sono poi gli archi bassi a rimuginare un lugubre motivo sul quale il violino innesta il suo canto appassionato, che sfocia (11’11”, Tempo I) in un prolungato dialogo con i fiati. Il solista poi (11’56”) espone una nuova, lunga melodia in corda doppia in MIb, accompagnato dapprima da fagotti e corni, poi (12’49”) dai clarinetti. Dopo una modulazione a DO maggiore, ecco (13’57”, Più lento) entrare corni e tromboni con un inciso corale, basato sulle prima note del tema-a, con cui il concerto si era aperto, tema il cui incipit infatti ritorna (14’29”) nel violino.

Con il sottofondo dei corni il solista si avvia a concludere, in territorio... beethoveniano: dapprima (14’59”) con una ondeggiante cadenza e poi (15’15”) con una reminiscenza del Larghetto dell’op.61. I tromboni accompagnano con la triade di DO maggiore e un sommesso rullo di timpano la corona puntata del MI sovracuto del violino.

Senza soluzione di continuità attacca (15’48”) il conclusivo Allegro impetuoso, in atmosfera di SI minore che sfocia poi nel RE maggiore d’impianto. Il solista si esibisce, interrotto da brevi incisi di fagotti e archi, in velocissime scale discendenti in semicroma, seguite – contrappuntato dai fiati -  da una scalata di trilli di ben 9 terze maggiori (3 ottave!) dal LA# sotto il rigo al LA# sovracuto, che sfocia poi (16’04”) nel SI, da dove il solista si imbarca in un’agitatissima specie di moto perpetuo (tema-d) che si muove dal SI minore per sfociare (16’51”) sul un fortissimo RE maggiore di tutta l’orchestra, che adesso si esibisce da sola in una cadenza che si chiude (16’59”) con il ritorno del solista.

Il quale espone un nuovo motivo in corda doppia, e quasi subito ricompare nelle viole (17’04”) il tema-a. Ora il violino torna ad esibire grandi volate di semicrome, accompagnato dapprima da note lunghe del clarinetto e poi (17’15”) dal flauto che lo imita una terza sotto. A 17’22” il flauto tace e si ode un richiamo della tromba (lo stesso inciso dell’apertura) ripetuto dal clarinetto, mentre il solista prosegue imperterrito con le sue semicrome, che sostengono (17’29”) veloci terzine ascendenti. Il fagotto lo accompagna, con crome in staccato, con un motivo in MI maggiore - che riprende le quarte discendenti del tema-a, qui esposte proprio con un chiaro sapore mahlerian-titanesco - più volte reiterato, che poi (17’42”) passa ai corni modulando a DO maggiore e poi ancora - mentre il solista torna in corda doppia – passa alla tromba (17’48”) in SI maggiore e infine (17’54”) arriva al DO, enfatico, negli archi.

Dopo che questi hanno emesso quattro proterve strappate, ecco (17’59”) il solista riesporre in SI minore il tema-d, che culmina (18’19”) in una perorazione di corni e trombe cui segue, nel violino (18’25”) un nuovo tema ondeggiante, di languido sapore zingaresco, interrotto dall’orchestra (18’35”) che intercala altre folate del violino e poi riduce la velocità e (18’53”) in tempo Moderato, attacca un ritmo marziale nelle trombe. Ecco quindi - Alla marcia, pomposo umoristico (!) – i legni presentare (19’05”) un nuovo motivo per terze, che sembrerebbe venire da Smetana, la cui conclusione è ripresa poi (19’31”) dal solista in corda doppia.

Il dialogo fra orchestra e violino prosegue, fra velocissime folate del solista ed incisi anche pesanti (20’20”) del pieno strumentale. A 20’32” ha inizio (Più stretto) la forsennata coda del concerto, con il solista che accelera sempre più esponendo un tema eroico fino al Quasi presto (21’05”) e poi (21’25”) al definitivo Più presto, dove tutti ingaggiano una vera e propria rincorsa verso gli schianti conclusivi.
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Splendida davvero l‘esecuzione di Nordio e dell’orchestra: il solista accentua il lato per così dire romantico del brano, con ampio uso di rubato e sonorità che spaziano dall’elegiaco all’eroico; e Ceccherini accentua da parte sua tutti i contrasti che emergono da questa interessante partitura, che meriterebbe forse di essere messa in programma più spesso di quanto non accada.  
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Il primo Concerto per violino di Gian Francesco Malipiero è del 1932 e vide la prima esecuzione ad Amsterdam, Concertgebouw. 

Erano gli anni d’oro (si fa per dire, come del ventennio berlusconiano...) del fascismo e un personaggio in vista come Malipiero non poteva non trovarsi nella scomoda posizione in cui è difficile far convivere le proprie convinzioni progressiste e allo stesso tempo patriottiche con tutti i vincoli che il regime bene o male imponeva. Insomma, una storia di successi e riconoscimenti cui si accompagnarono parecchie (vere o presunte, o millantate) umiliazioni, che per certi versi ricorda quella dello Shostakovich alle prese con lo stalinismo. E il risultato delle (apparenti?) ambiguità degli atteggiamenti di Malipiero verso il fascismo fu di renderlo inviso (cosa che lo addolorò sommamente) anche al CNL di Venezia, che dopo la Liberazione lo accusò senza mezzi termini di connivenza con il regime appena abbattuto.

E proprio il concerto per violino in programma in Auditorium ci presenta un Malipiero che percorre strade altrettanto lontane dalla tradizione romantica (forma-sonata e sviluppi tematici, come il virtuosismo fine a se stesso, erano per lui quasi delle bestemmie) quanto dalle (allora) relativamente recenti conquiste dell’atonalità e della serialità.

Il suo conterraneo Domenico Nordio, che oltre a quello di Castenuovo-Tedesco ha già inciso anche il concerto di Casella, ha mirabilmente colto lo spirito dell’opera, che si muove fra tonalità e modalità arcaiche sulle quali si innestano spunti di assoluta modernità. La forma tripartita è soltanto un involucro che nasconde in realtà un continuo alternarsi di momenti vivaci e di pause di riflessione, quasi una simbiosi di Vivaldi e Monteverdi, i due autori più amati da Malipiero. Nordio in particolare è parso particolarmente coinvolto nel centrale Lento ma non troppo, interpretato quasi con sofferenza fisica.

Grande successo per lui che ci dedica (con Santaniello in veste di gira-pagine) un bis moderno fatto di spettacolari invenzioni virtuosistiche.
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Chiusura in bellezza con Pini di Roma. Introdotti dal corno inglese e dal primo fagotto, con la punteggiatura dei corni, che intonano – a Villa Borghese - la popolaresca Oh quante belle figlie madama Dorè. E non è la sola filastrocca che compare in questo quadro d'apertura; poco dopo ecco infatti un paio di giro-girotondo, il primo introdotto da archi e fiati a canone, il secondo da oboi e clarinetti, che viene ripetuto più volte, fino a sfociare nel lugubre passaggio presso le Catacombe, con il suo sghembo intermezzo in 5/4, pieno di note ribattute.

Nei Pini del Gianicolo, proprio alla fine (ultime 10 battute e mezza) è previsto che canti un usignolo vero: no, non è in gabbia ed in penne ed ossa, oltretutto ci vorrebbe anche l'ammaestratore a corredo, per dargli l'attacco giusto… In partitura è segnato come una registrazione su nastro (ai tempi gli mp3 potevano essere, al massimo, dei moschetti) e invece ieri lo si è udito proprio suonato dal computer.

Nel conclusivo I Pini della via Appia, dopo un lungo assolo del corno inglese, compaiono le sei buccine, specie di enormi unicorni che accompagnavano le marce delle legioni romane. Respighi – che ne prevederà tre anche in Feste Romane - prescrive in partitura dei flicorni (2 soprani, 2 tenori e 2 bassi). Sul martellante ritmo di timpani e gran cassa, sono loro a portare all'enfatico epilogo dell'opera.

Strepitosa la prestazione dei ragazzi, che non fanno rimpiangere esecuzioni ormai storiche, come questa del venerabile Prêtre con i ceciliani.

L’unico neo della serata è costituito dall’affluenza invero scarsa all’Auditorium. Ma mai come in questo caso gli assenti (che hanno ancora domenica pomeriggio per rimediare) hanno avuto torto marcio!