XIV

da prevosto a leone
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20 aprile, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.20

Il poliedrico Giuseppe Grazioli (attualmente trapiantato nelle… Gallie) dirige il 20° concerto della stagione 23-24 dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Concerto antologico, con 5 brani musicali in qualche modo ispirati dall’Italia (da Napoli in particolare) a musicisti nostri compatrioti, ma anche stranieri.

Pubblico per la verità abbastanza magro… ma non si può sempre fare Mahler o (solo) Ciajkovski!

La prima parte della serata vede una composizione contemporanea (proprio in prima assoluta) incastonata fra due brani ottocenteschi che più distanti non potrebbero esserle (!)

Si inizia infatti con Jules Massenet e la sua Scènes napolitaines, la quinta delle sette Suite per orchestra, composte fra il 1865 e il 1882, che si articola in tre sezioni: ecco qui un’esecuzione (di Michele Mariotti) cui si riferiscono i minutaggi esposti nel seguito:

1. La danse. Allegro, 6/8, MI minore (poi DO maggiore e MI maggiore). È un saltarello scatenato (e pure abbastanza stucchevole e ripetitivo, direi) in forma A-B-A’-B’ più breve introduzione e coda. Dopo l’introduzione sulla dominante SI, ecco la sezione A (4”) in MI minore; segue (1’21”) la sezione B in DO maggiore. Arriva ora (1’51”) la sezione A’, MI minore; e quindi (2’35”) la B’ in MI maggiore. La coda (3’05”) è ancora in MI minore.

2. La procession et l'Improvisateur. La prima sezione (3’20”) è ovviamente in tempo Lento e religioso, 3/4, tonalità SOL maggiore. Sono solo 15 battute, chiuse sulla sensibile FA#. Con un brusco scarto di tonalità (al MIb maggiore) attacca ora la seconda sezione costituita da una breve introduzione (4’45”) di 5 battute in tempo Allegro, 4/4, seguita dall’esposizione del tema principale, che sarà poi sviluppato su tre variazioni. Dapprima (4’56”) ecco l’Andantino quasi Allegretto di 25 battute in tempo di siciliana (6/8). Segue (5’52”) la prima variazione, nel medesimo tempo, ma assai più mossa dagli svolazzi di semicrome dei legni. La seconda variazione (6’49”) è in tempo 12/16, Un po’ ritenuto, e si muove negli archi per ondeggiamenti su un ritmo puntato. Infine (7’53”) ecco la terza variazione, in tempo 6/8, Allegro animato: è l’intera orchestra a ripresentare il tema con grande sfarzo e smaglianti colori.

3. La fête. Allegro, 4/4, DO maggiore. Si apre (8’24”) con rintocchi di campana, sul SI, poi gli archi e ancora i legni preparano adeguatamente - in atmosfera di dominante - il terreno per l’arrivo (8’58”) del brillante tema che si sviluppa con brevi divagazioni a REb e RE maggiore, per poi (12’12”, alla breve, Più mosso poco a poco) chiudere orgiasticamente l’opera.
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È ora la volta (come nel precedente concerto) di una prima assoluta: si tratta di un’opera commissionata dalla Fondazione al 73enne architetto (!) Alessandro Melchiorre, dal titolo Microliti, che impegna anche due voci: di soprano (Joo Cho) e di basso-baritono (Nicolas Isherwood). 

Il titolo (che si rifà materialmente a piccoli frammenti preistorici di selce) in realtà è quello di una collana poetica autobiografica di Paul Celan (ebreo ukraino-rumeno sfuggito per miracolo alla Shoah) fatta di aforismi e mini-drammi, delle dimensioni dei microliti, appunto. Melchiorre ne ha musicati sette, così titolati:

1. Introduzione. Kammerkonzert-1 (baritono-soprano). In memoria dei genitori morti in campo di concentramento.

2. Marcia funebre. Voci e violino (baritono-soprano). Incontro con Ingeborg Bachmann a Vienna.

3. Concertante-1 (soprano). Incontro con Gisèle Lestrange (sua futura moglie) a Parigi.

4. Interludio-1. Kammerkonzert-2 (baritono-soprano). Incontro (mancato) con Adorno.

5. Interludio-2. Concertante-2 (baritono-soprano). L’amore per le poesie di Mandel’stam; brevi passaggi da Rilke.

6. Marcia funebre. Voci e violino (baritono-soprano). Incontro con Heidegger a Todtnauberg.

7. Kammerkonzert-3 (soprano-baritono). Vita di esule a Parigi; il Maggio francese; la Primavera di Praga.  

Come si può arguire, già il soggetto dell’opera non è dei più riposanti, per così dire; se poi aggiungiamo che il buon Melchiorre - da vecchio discepolo di Darmstadt - non ha fatto proprio nulla per addolcirci la pillola… ehm… ci siamo capiti, insomma. Atmosfere spettrali, canto spesso orientato allo Sprechgesang, insomma un piatto di digestione complicata, come minimo.
Naturalmente - e come è doveroso - il pubblico non ha lesinato applausi ad interpreti ed Autore, salito sul palco a ringraziare tutti.
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Per ripagarci del… fioretto (so che è una battuta tanto facile quanto irriverente) è seguito subito, come antidoto (!?) il celeberrimo Capriccio italiano di Ciajkovski. (Qui una mia succinta descrizione del brano.) 

Travolgente, manco a dirlo, il successo per Orchestra e Direttore.
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Dopo la pausa, di Renzo Rossellini è stata eseguita la rapsodia Canti del Golfo di Napoli, (qui, da 4’30”impiegata poi per l’omonimo balletto del 1954.  

Vi scorrono melodie popolari partenopee, su tonalità che si muovono dall’introduzione lenta in MI minore al LA minore (4’59”) e da qui a LA maggiore (6’29”) dove si ode la celebre ‘A vucchella, con le irruzioni del flauto. Subentra subito (7’38”) la tarantella, ancora in LA minore, che si sviluppa con un altro brusco passaggio (8’22”) al SOL minore. Lunga transizione su un SI tenuto e poi ecco, in MI maggiore (10’42”), la famosa Ie te vurria vasà… ripresa ancora da MI minore a maggiore (14’44”). Poi (15’21”) un rapido e ardito passaggio a FA maggiore, LAb maggiore e LA maggiore. Si torna drammaticamente (16’52”) a LA minore per l'iniziale tarantella che chiude brillantemente il brano sull’accordo di LA maggiore.
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Ha chiuso la serata la Suite romantica (1907) di Franco Alfano. Qui la recente registrazione di Grazioli proprio con laVerdi.

La Suite, che evoca sensazioni ed esperienze di due innamorati in giro per l’Italia, da Venezia a Napoli attraversando l’Appennino, è strutturata in 4 sezioni:

1. Notte adriatica. Struttura tripartita: gli estremi lenti (intimità degli innamorati a Venezia) e la sezione centrale (il carnevale) assai mossa. Scrittura che sfiora l’atonalità (vagamente richiama la Verklärte Nacht di Schönberg).

2. Echi dell’Appennino: intermezzo bucolico fra greggi e pastori. Introduzione lenta, con il corno inglese (cornamusa) in primo piano. Poi poco a poco l’atmosfera si anima e una danza in tempo ternario si fa largo, fino a sfociare in puro parossismo, a piena orchestra. Un breve passaggio in 6/8 conduce al tempo di 3/4 della sezione conclusiva, una specie di lungo sguardo su prati e vallate. Torna alla fine l’intimità dei due innamorati.   

3. Al chiostro abbandonato: parentesi d’amore in luogo sconsacrato, ma pur sempre… sacro. Introduzione lenta, primi passi in quel luogo spettrale. Poi la musica si agita poco a poco, come ad evocare gli antichi fasti del luogo, le solenni cerimonie di cui era testimone… fino all’inesorabile declino e alla rovinosa caduta. Agli amanti non resta che allontanarsi mestamente.

4. Natale campanoil viaggio dei due innamorati si conclude a Napoli, entrando direttamente nel clima festoso, che solo temporaneamente lascia spazio a qualche delicata nenia natalizia. Ma presto è la festa partenopea a riprendere il sopravvento, fino all’esilarante chiusura.
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Beh, questi brani di Rossellini e Alfano non saranno forse delle vette della musica strumentale italiana, ma lo specialista Grazioli ce le ha rese almeno godibili. Quindi, alla fine trionfo per tutti. E tutto sommato, una proposta intelligente e da apprezzare!

01 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°14


Il fresco-di-nomina Direttore Musicale della Detroit Symphony Orchestra, Jader Bignamini, sale sul podio dell’Auditorium per dirigere (avendo a novembre scorso saltato il precedente) l’unico suo concerto della stagione 19-20.

Impaginazione di stampo classico, con un brano di apertura seguito da concerto solistico e da sinfonia. Ma l’apertura in questo caso non è un’ouverture o un pezzo brillante, bensì una composizione nuova di zecca e in prima esecuzione assoluta, opera commissionata da laVerdi ad Alessandro Melchiorre, intitolata Dal Buio. Ecco come l’Autore ne descrive sommariamente lo svilupparsi:

Il brano, dopo un esordio molto calmo - gli archi soli accompagnati dal suono suggestivo del superball, una particolare bacchetta usata dai percussionisti su tam tam e timpano grave - segue una crescita naturale caratterizzata dall’addizione delle diverse famiglie strumentali (agli archi dapprima si aggiungono i legni e infine gli ottoni) e procede per successive ondate sino a un climax dopo il quale il movimento di diverse melodie che si intrecciano perde energia e ritorna - con qualche variante - a una situazione affine a quella dell’esordio.

Sono poco più di 15 minuti di suoni che ci arrivano come in... sogno (all’inizio e alla fine si fa buio completo): un tappeto di note lunghissime (all’inizio un RE) che via via si anima e si arricchisce di contributi delle diverse sezioni orchestrali, percussioni comprese, mentre torna la luce in sala. Il brano compie un ampio arco per tornare lentamente, con il riabbassarsi delle luci, alla calma, mentre un violino solista (quello della seconda spalla Dellingshausen, collocato in alto, all’estremità sinistra della galleria) ci riaccompagna verso la quiete primordiale (lo stesso RE che aveva aperto il brano).

Brano che ha una sua efficace narrativa, e si fa apprezzare per la sobrietà del flusso sonoro, che induce riflessione e stuzzica la fantasia. Insomma, un’opera moderna che rifugge da certo stucchevole modernismo. Il pubblico ha apprezzato, con calorosi applausi ad Autore ed interpreti.
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Segue il rampante Luca Buratto (artista residente) che si cimenta con il Concerto in SOL di Maurice Ravel. Che lui dice di amare assai e lo si vede sente, da come lo affronta con approccio quasi ascetico (e non solo nel mirabile Adagio centrale). Le reminiscenze jazzistiche sono per lo più lasciate agli strumenti (clarinetto piccolo in testa) mentre Luca, che mi pare maturato anche dal punto di vista... comportamentale (meno dimenamenti) si concentra sulla cantabilità e affronta da par suo le impervie sfide tecniche poste da questa difficile partitura.

Agli applausi scroscianti di un pubblico assai folto lui replica con ben due encore: il Menuet (n°5) dal raveliano Tombeau de Couperin e il lungo ma strepitoso Allegro grazioso dalla Sonata K333 del Teofilo.
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A chiudere ecco la Fantastique di Hector Berlioz, che Bignamini ha appena diretto (domenica 26/1) a Detroit proprio per festeggiare la sua fresca nomina laggiù.

Che dire? Esecuzione travolgente, ma... non sempre ciò è sinonimo di accuratezza e rigore. Mi è parso di cogliere in Bignamini troppe libertà nell’agogica e nelle dinamiche (eccezion fatta per l’impeccabile Scène aux Champs) e una enfatizzazione eccessiva (per me) dei contrasti: insomma, la ricerca di facili effetti a buon mercato (non è che il nostro si stia per caso già adeguando al pubblico yankee, notoriamente propenso a farsi prendere da facili entusiasmi?)

In ogni caso pure il pubblico milanese si è entusiasmato e lo ha subissato di applausi, anche ritmati. Buon per lui e tanti auguri per la sua avventura americana!