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20 febbraio, 2025

Onegin visto da Martone alla Scala.

Dopo quasi 16 anni (luglio 2009, produzione targata Bolshoi, della coppia Cherniakov-Vedernikov) tornano alla Scala le scene liriche di Ciajkovski. Affidate ora alla messinscena di Mario Martone e alla guida musicale di Timur Zangiev (un giovane alano sufficientemente non-putiniano da poter prendere, nel marzo del 2022, il posto del bandito Gergiev per la Dama di Picche).

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Una curiosità che lega l’Opera con la biografia dell’Autore consiste nella palese analogia fra la relazione Tatjana-Onegin e quella fra Ciajkovski e Antonina Ivanovna Miljukova, sua ex-allieva al Conservatorio di Mosca e poi (ma solo per l’anagrafe…) sua moglie.

Entrambe le giovani donne si innamorano perdutamente (e impulsivamente?) di un uomo maturo; entrambe prendono l’iniziativa (inconsueta nel 1820 come nel 1877) di dichiarare apertamente, per lettera, il loro amore all’uomo. 

Prima domanda: c’è un qualche nesso causa-effetto fra la composizione dell’Onegin e la relazione del compositore con la ex-allieva? La prima lettera di Antonina precede o segue la composizione (che iniziò proprio con la scena della lettera di Tatjana?)

E poi: Ciajkovski aveva verso l’altro sesso una totale preclusione (sia pure di natura antipodica rispetto a quella di Onegin: attitudine congenita, la sua, vs rifiuto da sazietà, quella del personaggio dell’opera) e in un primo momento tenne verso le avances di Antonina lo stesso comportamento di Onegin verso Tatjana: un fermo, sia pur cortese, rifiuto. Ma poi cambiò quasi subito atteggiamento nei confronti della giovane, decidendo di accontentarne i desideri di matrimonio.

Senza però modificare in nulla le sue attitudini, e promettendole quindi un amore non più che fraterno (o paterno). Per quale motivo? Per provare a sfruttare quell’occasione per tacitare le dicerie su di lui e – almeno nella forma - rientrare nella normalità? O per evitare, chissà, di doversi pentire in futuro (proprio come Onegin) di un rifiuto senza appello?

Sta di fatto che questa vicenda umana assunse aspetti di miserevole prosaicità, arrivando persino a minacciare la salute, e come minimo la creatività del compositore (che venne salvato dalla provvidenziale presenza della vonMeck) oltre che a rovinare l’esistenza della donna.

E a queste differenze fra arte(-finzione) e realtà prova a rispondere persino l’oracolo-IA.

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Torniamo ora all’opera… Partendo dall’interpretazione del soggetto datane dal regista. Cha sceglie un approccio abbastanza minimalista per le scene (di Margherita Palli) e l’ambientazione dei tre atti: nel primo, mettendo al centro la natura, la sterminata steppa russa, rappresentata da campi di grano da poco mietuto e da una semplice casupola ingombra di cataste di libri (la camera di Tatjana…); nel secondo (l’onomastico della deuteragonista) una specie di arena con tribunetta, spazio-barbecue e altre cataste di libri, qui come infilati su grossi spiedi, che alla fine infausta della festa verranno inghiottiti dalle fiamme; nel terzo un velo rosso a chiudere la scena, poi solo lampadari e poi… praticamente nulla, ad evocare evidentemente il totale vuoto esistenziale che si crea attorno ai due protagonisti del dramma.

Costumi (di Ursula Patzak) della moderna attualità, peraltro senza esagerare in orpelli ridicoli (per dire… le cuffie che indossa Tatjana all’inizio del primo atto sono quelle insonorizzanti - niente smartphone! - che le servono a isolarsi dalla cagnara circostante per leggere il suo libro in pace).     

Le luci di Pasquale Mari seguono il precipitare degli eventi: dal solare chiarore estivo dello sbocciare dell’amore, al cupo inverno della tragedia, alle silhouette del ballo finale per finire al buio totale dello scioglimento del dramma. Daniela Schiavone cura le coreografie, tendenzialmente caotiche, presenti nelle scene di varia umanità dei primi due atti e (solo per la scozzese) del terzo. Di Alessandro Papa sono le proiezioni video, limitate allo sfondo ambientale.

Qualche trovata sopra le righe non manca (per giustificare la… parcella del regista): l’arrivo, per la festa di Tatjana, di un plotone di soldati; il duello trasformato in roulette russa, con presenza interessata di allibratori e scommettitori; la decisione di far suonare la polonaise a sipario chiuso (per riempire il secondo intervallo e coprire il cambio-scena?)     

Tutto sommato efficace la recitazione dei singoli, qualche caduta di stile, come anticipato, in quella delle masse corali.

Tirando le somme: una messinscena forse animata dal desiderio di dire qualcosa di nuovo senza però stravolgere il soggetto dell’opera; insomma: non deludere troppo i passatisti (che vorrebbero vedere il gran ballo a palazzo Gremin) e, sull’altro fronte, gli amanti della de-strutturazione e della ri-ambientazione del soggetto (che so, conoscendo Martone, inventando Onegin e Lensky come due picciotti che finiscono per contendersi a colpi di lupara la zoccola di passaggio…)

Come è finita? Un autentico disastro! Materializzatosi in un uragano di buh – già uditi al termine della polonaise (per l’astinenza da ballo?) - sceso dal secondo loggione a coprire l’ingresso sul palco del team del regista! Per la cronaca, accompagnato da un sottofondo di applausi della maggior parte del pubblico.

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Buone, ma non strabilianti, notizie dal fronte musicale, a partire dal Direttore, che evidentemente ha questa musica nel DNA, ed ha guidato l’Orchestra scaligera in gran forma ad una prestazione apprezzabile che, a mio avviso almeno, ha adeguatamente servito lo spirito – appunto – lirico della partitura.

A partire dalla delicatezza dei temi di carattere intimo e romantico; e poi alle pene d’amore di Tatjana, agli slanci vibranti di Lensky, o ai patetici ricordi di Larina e Filippevna, al cinismo di Onegin, alla sfrontatezza e ingenuità di Olga, alle leziosità di Triquet e al senile appagamento di Gremin. Qualche eccesso di decibel ha creato un paio (non più) di problemi alle voci, ma si può perdonare, in una prima.

Trascinanti anche le esecuzioni dei famosi brani a piena orchestra, il walzer e la mazurka del second’atto e la polonaise e la scozzese del terzo. [A proposito, qui la polonaise è mutilata – ma è cosa assai frequente e prevista comunque come opzione in partitura – delle 8 battute nella prima esposizione della sezione principale].

Sempre all’altezza il Coro di Alberto Malazzi, che qui ha un ruolo di primo piano, pur in assenza di scene da grand-opéra.

Alexey Markov è un Onegin scenicamente a posto, mentre la voce (per i miei gusti) manca un po’ di brillantezza e di varietà di accenti. Meglio di lui la sua bistrattata Tatjana, Aida Garifullina, che ha sfoggiato bella voce da soprano lirico (mai troppo impegnata da Ciajkovski negli acuti, salvo proprio il SI finale) e ha retto da par suo la massacrante e interminabile aria della lettera.

Il mattatore della serata è stato il Lensky di Dmitry Korchak, da qualche tempo sbarcato alla Scala (da Pesaro) e divenutone ormai un beniamino. Le sue due arie (in particolare quella famosa che precede il duello) sono state lungamente applaudite.

Bene Dmitry Ulyanov, un Gremin nobile ed accorato nella sua patetica esternazione sull’amore che non ha limiti… stagionali e simpatico il Triquet di Yaroslav Abaimov, il cui siparietto anima la festa per Tatjana.

Elmina Hasan (Olga), Alisa Kolosova (Larina, che pare all’aspetto la sorella minore delle sue figlie!), Julia Gertseva (una premurosa Filippevna) hanno dignitosamente fatto la loro parte. Come Huan Hong Li (Capitano) e Oleg Budaratskiy (Zeresky).

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Come detto, applausi per tutti (Korchak in testa, con Zangiev) e aperte contestazioni a Martone. Personalmente approvo pienamente i primi e trovo francamente esagerate le seconde… 

24 febbraio, 2020

Roma ospita un Onegin di alto livello


Ieri pomeriggio il Costanzi - abbastanza, ma non troppo affollato - ha ospitato la terza recita dell’Onegin, una produzione di Carsen del lontano 1997 per il MET, poi già ripresa da altri teatri e qui portata da Peter McClintock. Sul podio il torinese (pro-tempore) James Conlon. Radio3 aveva trasmesso la prima del 18, che mi aveva fatto un gran bella impressione, pienamente confermata dall’ascolto dal vivo.

Come le altre, anche questa recita è edicata al ricordo della grande Mirella Freni, ultima interprete romana di Tatiana nel 2001.

L’allestimento di Carsen compie 23 anni, ma non li dimostra, come accade per ogni opera di valore. L’idea portante del regista è di mettere al centro della vicenda Onegin, che non per nulla appare sempre per primo in scena in apertura dei tre atti: durante il Preludio lo si immagina ricordare ciò che... accadrà, leggendo una lettera; all’inizio del second’atto facendo un sopralluogo nella sala dove si svolgerà la festa che lo porterà ad offendere Lensky e a dare inizio alla tragedia; infine all’inizio del terzo atto, quando verrà abbigliato a dovere per la festa-funerale che preparerà la sua fine ingloriosa.

L’ambientazione rispetta il libretto, nella Russia ottocentesca, come testimoniano i costumi di Michael Levine, il quale cura anche le scene: ambiente praticamente vuoto, di volta in volta popolato da poche suppellettili, piccoli tavoli da lavori domestici, sedie e tavolini da soggiorno. All’inizio il pavimento è ricoperto da (finte) foglie dai tipici colori autunnali (giallo, marrone, rossiccio, verde scuro) per restare via via completamente spoglio. Le luci di Jean Kalman supportano l’idea del regista di illuminare le tre pareti nude con colori diversi e cangianti, a seconda del carattere dei diversi quadri: il giallo della natura e della vita serena per i quadri iniziali dei primi due atti, in casa Larina; il blu-notte nel secondo quadro del primo atto (la lettera di Tatiana) e nel corrispondente del secondo (il duello all’alba, con il sole che sorge poi a inquadrare la silhouette di Onegin piegato sul defunto Lensky); grigio nel terzo quadro del primo atto (la disillusione di Tatiana); bianco nel primo quadro del terz’atto (a far da sfondo ad un nero... funerale) e ghiaccio nel quadro finale (il distacco definitivo).

Una scelta che ai tempi fece discutere è quella di collegare direttamente la fine dell’atto secondo (morte di Lensky) con l’inizio del terzo (festa a palazzo Gremin) che il libretto colloca invece a distanza di anni. (L’idea fu poi scopiazzata - in molto peggio, per la verità - da Kasper Olten, in una produzione passata anche a Torino anni fa.) Ma anche questa si spiega con la concezione di Carsen di porre Onegin al centro dell’opera e quindi vedere la realtà con gli occhi di lui, che dopo l’omicidio dell’amico vede tutto nero e così la festa per lui diventa proprio un funerale, anzi il funerale di Lensky, portato via sulle spalle degli inservienti del Principe, in mezzo agli invitati (maschi e femmine) tutti vestiti di nero, come becchini o pipistrelli. Proprio mentre in orchestra esplode la musica della polacca brillante, qui assurta a grottesca marcia funebre! Insomma, Carsen trasferisce il lancinante contrasto: da quello presentato nel libretto, fra la festa spensierata e il cuore desertificato di Onegin; a quello fra cerimonia funebre e musica brillante che l’accompagna.

A proposito della musica della polonaise, ho sempre considerato l’iniziale esposizione del tema principale come un modo escogitato dal compositore per caratterizzare un ambiente da nobiltà parassitaria: insomma un po’ da... sboroni, ecco. Dopo la fanfara introduttiva e l’approccio degli archi, il motivo principale è di 8 battute e viene esposto due volte, prima che subentri un controsoggetto di 10 battute, cui segue la ripresa del tema principale e la coda conclusiva. Orbene, ci si aspetterebbe che le due esposizioni del tema siano sostanzialmente identiche e quindi sfocino entrambe sulla dominante RE. Invece la prima delle due sfocia inaspettatamente un tono sopra (MI, e in minore, tonalità relativa del SOL) con un effetto francamente poco gradevole, che sembra appunto tipico di chi voglia strafare, mettersi in mostra a tutti i costi, insomma fare una vuota ostentazione di ricchezza... (Ben diversa è invece la condotta del walzer che apre il second’atto, in un ambiente genuinamente e simpaticamente campagnolo e provinciale.)
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James Conlon mostra non solo di conoscere a fondo, ma anche di adorare letteralmente questa partitura, tanta e tale è la cura che mette nel dirigere, quasi prendendo per mano i singoli strumentisti e le voci sul palco. Mai un effetto gratuito, nessuna indebita libertà nella scelta dei tempi, dinamiche mai esasperate, nel pieno rispetto dell’ambientazione sonora che l’Autore volle dare a queste sue scene liriche.

Voci tutte all’altezza, con punte di eccellenza per Markus Werba, un Onegin quasi perfetto, dalla vocalità (per me) appropriata ad un cattivo che però è anche giovane. Benissimo Saimir Pirgu (accolta trionfalmente la sua celebre aria prima del duello). Ottimo anche John Relyea (Gremin) la cui parte è quantitativamente ridotta, ma è fondamentale (forse il parallelo con un Filippo o un Marke è eccessivo, ma insomma...)

Le due sorelle mostrano una grande padronanza e consuetudine con le parti, soprattutto Maria Bayankina è una Tatiana davvero eccellente, capace di immedesimarsi mirabilmente nella ragazza romantica e insieme temeraria (la sua lettera è stata un capolavoro di espressività delle sue passioni) e poi nella rigorosa signora che rispetta fermamente i sacri doveri che la società le impone. Yulia Matochkina le ha fatto da sorellina spensierata e in po’ frivola con buon portamento e bella voce di mezzo.

Discrete le due voci femminili di contorno (Irina Dragoti e Anna Viktorova) cui rimprovero magari un po’ di carenza di... decibel. Efficace e simpatico il Triquet di Andrea Giovannini e oneste le prestazioni degli altri due comprimari, Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa.

Benissimo anche il coro di Roberto Gabbiani, che nel second’atto ha pure... ballato. E a proposito di danza, completano il quadro i cinque membri del Corpo di ballo del Teatro, guidati dal coreografo Serge Bennathan.
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Al termine almeno 10 minuti di applausi equamente distribuiti tra tutti i protagonisti di questo spettacolo che merita proprio di esser visto e goduto (RAI5 lo metterà in onda prossimamente). 

20 maggio, 2013

Onegin torna al Regio torinese


Il terz’ultimo appuntamento stagionale del Regio è con Evgenij Onegin, che per Torino è pur sempre una primizia, visto che siamo al terzo allestimento in assoluto! (vero è che è il terzo in 30 anni, dopo un secolo di… ignoranza totale). Teatro gremito, ma non certo esaurito.

Riporto qui un interessante – quanto provocatorio - scritto di Aldo Nicastro riguardo le opere di Ciajkovski, a partire dall’Onegin, pubblicato nel marzo 1991 su Musica&Dossier. Già il titolo la dice lunga, anticipando un giudizio tagliente riguardo la non-rispondenza del libretto e della musica dell’Onegin di Ciajkovski allo spirito del poema di Puškin. Ma per la verità, al di là dell’ambito accademico e teorico, ai fini dell’apprezzamento dell’opera, a noi che ce ne importa? Forse che la Carmen di Bizet non ci piace perché assai diversa dal racconto di Mérimée? O storciamo il naso davanti alla Tosca di Puccini, poiché diverge non poco da quella di Sardou? 

Sarà un caso, ma si potrebbe immaginare che il regista Kasper Olten, più o meno volontariamente, abbia voluto riprendere la critica di Nicastro (che peraltro non era nemmeno sua esclusiva) e introdurre nel suo Konzept la prospettiva di Puškin (dove le personalità dei due protagonisti sono mediate dalla descrizione che ne fa il poeta) allorquando ci mostra in scena due copie (mimi) di Onegin e Tatiana, chiaramente più giovani degli originali, i quali originali ne esplorano, o quanto meno osservano, i comportamenti, dando a vedere di non condividerli, ma nulla potendo fare per modificarli.

Ciò avviene in particolare in due momenti topici: per quanto riguarda Tatiana, nella scena della lettera, dove noi vediamo il personaggio reale (quello che canta, tanto per chiarire!) che osserva con un certo scetticismo la sua giovane alias che scrive la lettera, in preda a tutte le agitazioni e i turbamenti come da libretto. Quanto a Onegin, quello adulto è già presente sul luogo del duello assai prima di Lenski, mentre il suo giovane alias arriva in ritardo come da libretto, accompagnato da un Guillot il quale – invece che turbato - ci viene cervelloticamente presentato come un alcolizzato (quindi, per fortuna, non è lui che reca le pistole, ma il compunto Zareski…) L’Onegin vero, impotente, canta, mentre la sua copia… spara! (Lenski sembra Tristan che si butta sulla spada di Melot, tanto per rincarare la dose sulla viscidità di Onegin, mah…) L’ultima apparizione dei due alias - quella che probabilmente secondo il regista dovrebbe giustificare da sola la sua scelta – si materializza nella scena conclusiva, allorquando Onegin e Tatiana cantano insieme Ah! La felicità era così vicina a noi, così vicina, così vicina, così vicina! I due giovinetti appaiono belli felici, sottobraccio, mostrando ai protagonisti e a noi come sarebbe potuta finire se non avessero dato ascolto alle loro rispettive impulsività.

Che dire? A me pare il solito cannone per sparare ad una mosca: dico, il libretto è sufficientemente chiaro senza che un regista ce lo venga a spiegare con artifizi che nessun altro risultato ottengono se non di confondere le idee allo spettatore. E perché è lapalissiano che se Tatiana per prima non avesse scritto quella lettera, l’Onegin si sarebbe fermato dopo il primo dei sette quadri (smile!)  

Un’altra perla della regìa riguarda il dopo-duello. Intanto: la scena rimane la stessa, con Lenski morto sdraiato al proscenio (e ci resterà per la restante mezz’ora e più, fino alla fine dell’opera!) vicino all’enorme ramo secco che si era portato da casa (il regista potrà di certo dare spiegazioni esaurienti e/o freudiane in merito…) e Onegin – quello che non ha sparato! - impietrito a guardare la salma dell’ex-amico. Che musica sentiamo a questo punto? Una marcia funebre? Un lamento per l’amico defunto? Ma no, quella prevista dalla partitura, ovviamente: la polacca in SOL maggiore che apre il sesto quadro! Geniale! Durante l’esecuzione della quale allegra polacca, per la verità, alcune danzatrici si presentano anche, nel ruolo di adescatrici e/o consolatrici del povero Onegin, che però di farsi consolare non ne ha voglia, e infatti – come da libretto – successivamente canta Anche qui mi annoio a morte… raccontando del suo vano vagabondare inseguito dai rimorsi per i suoi errori passati. Però siccome il libretto prevede due balli nella sontuosa dimora di Gremin, ecco che almeno la successiva scozzese ci viene offerta in pompa magna, con gentiluomini e dame agghindati come Zeffirelli comanderebbe.

Questa è solo una piccola ciliegina: Onegin chiede a Gremin: chi è quella signora col cappello cremisi? È Tatiana, ovviamente, peccato che sia… a capo scoperto (smile!) Un’altra? I covoni che i contadini avevano portato a casa Larin (una fattoria) nel primo quadro sono rimasti lì in bella mostra anche nella principesca dimora sanpietroburghese di Gremin, fra stucchi, specchiere e porcellane! 

Kasper Olten deve sicuramente aver visto – o essersi informato su – la messinscena di Tcherniakov (passata anche alla Scala anni fa) perché ne ha mutuato almeno un paio di trovate: la prima riguarda un tentato, quanto inventato, suicidio di Onegin – con pistola che fa cilecca! - che il regista russo aveva posizionato proprio alla fine dell’opera, dopo l’addio definitivo di Tatiana. Olten invece lo anticipa nella scena del duello, dove vediamo Onegin puntarsi alla tempia la pistola del defunto Lenski (che ha ancora il proiettile in canna) senza però riuscire ad esplodere il colpo. La seconda è l’apparizione – una cosa invero imbecille – di Gremin nel bel mezzo dello show-down finale fra Onegin e Tatiana, che rischia di stravolgere tutto il sottile senso del comportamento della donna. Come sempre: si copiano le sciocchezze, mica le buone idee.

Chiudo queste note sull’allestimento con un apprezzamento (per non sembrare prevenuto, smile!) che riguarda i costumi di Tatiana: rosso-amore nella prima parte e bianco-dovere (sotto il quale spunta però il rosso-amore) alla fine. Ecco, questa è un’idea semplice-semplice, ma efficace. Però sorge spontanea una domanda: ma alla fine anche Onegin un pochettino cambia, o no? (o vogliamo dar ragione a Tatiana che lo accusa di fingere di amarla solo per vantarsi poi dello scandalo della sua conquista?) Se cambia, si meriterebbe anche lui di mettersi almeno, che so, una giacchetta rossa (smile!) invece di restare sempre col solito blu…
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Aggiungo anche un’osservazione riguardo la suddivisione materiale dello spettacolo, cosa di cui è sempre difficile stabilire la responsabilità, o suddividerla fra regista e concertatore.

Allora, Onegin è in tre atti, quindi prevede(rebbe) due intervalli. La cosa ha una spiegazione assolutamente chiara e semplice, legata al non rispetto dei canoni aristotelici di unità di luogo-tempo-azione. I due intervalli dovrebbero servire a far percepire anche materialmente allo spettatore le due soluzioni di continuità che la vicenda descritta presenta.

La prima riguarda i parecchi mesi che trascorrono fra il primo, fatale incontro di Tatiana con Onegin e il ballo in casa Larin dove si consumerà la rottura fra il medesimo Onegin e Lenski, con conseguente duello: il primo evento si svolge in piena estate (mietitura e raccolta di frutta) nell’arco che va da un pomeriggio alla sera, poi alla notte (della lettera) e infine al mattino successivo (con il gran rifiuto di Onegin); il secondo accade invece in pieno inverno, quindi come minimo 6 mesi dopo: non solo lo apprendiamo da Puškin, ma lo deduciamo dalla nota del libretto che ci avverte di paesaggio d’inverno in apertura del Quadro II del second’atto, quello dove assistiamo al duello, che avviene un paio di giorni (e comunque non certo mesi e mesi) dopo quello del ballo e della successiva scenata violenta sfociata nella sfida di Lenski all’ormai ex-amico. Detto tra parentesi: il fatto che passino mesi e non poche ore fra questi due eventi (il primo incontro e il secondo, al ballo) getta una luce assai significativa sui rapporti fra Tatiana e Onegin, i quali evidentemente hanno avuto tutto il tempo per pensare al loro primo incontro e al loro futuro. Soprattutto Onegin, che accetta di seguire Lenski al ballo dei Larin, ben sapendo che là vi incontrerà la ragazza da lui strapazzata in quel primo incontro dell’estate precedente. E che lui non esita ad invitare a ballare, dando l’impressione ai presenti (e forse a lei stessa) di essere in procinto di dichiararsi… per poi decidere invece di offendere Lenski a seguito degli acidi giudizi che gli invitati gli rivolgono.

La seconda cesura è addirittura di parecchi anni, quelli che Onegin trascorre vagabondando all’estero dopo il duello fatale con Lenski e prima di presenziare al ricevimento in casa Gremin: deduciamo ciò senza alcuna ombra di dubbio da quanto ascoltiamo dire da Onegin, Tatiana e Gremin.

Ora, l’allestimento odierno del Regio (forse non è la prima volta che accade) suddivide invece lo spettacolo in sole due parti, quindi presenta un solo intervallo. Ma non posto fra il primo atto e i due successivi, più brevi (il che sarebbe del tutto accettabile, anche in termini di equilibri di durata, 70-70 minuti) bensì fra i due quadri del secondo. La qual decisione ottiene due effetti perversi: eliminare agli occhi (e alla percezione generale) dello spettatore le due chiare soluzioni di continuità presenti nella trama, creandone in compenso un’altra del tutto arbitraria, se non proprio fuorviante: quella fra la scenata in casa Larin e il duello successivo.

Il tutto a che pro? Accorciare di 20-25 minuti (il secondo intervallo risparmiato) uno spettacolo che in complesso non supererebbe comunque le 3 ore e un quarto? Personalmente mi pare una decisione poco intelligente.
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Note liete (per il pubblico: trionfali!) sul fronte musicale. Il mio concittadino Gianandrea Noseda non si smentisce, e poi questo repertorio per lui è un po’ un ritorno a casa… Se proprio devo trovargli un pelo nell’uovo (ma è questione di personali preferenze) citerei un'eccessiva pesantezza nel walzer del second’atto e un po’ di fracasso di troppo nella concitata scena finale fra i due innamorati infelici. Per il resto, una concertazione impeccabile. Bene l’orchestra (piccole sbavature sono sempre in agguato, e perdonabili) e benissimo il coro di Fenoglio.

La trionfatrice del pomeriggio è stata Svetla Vassileva, una Tatiana assai positiva, pur non esente da qualche pecca di intonazione (cito ad esempio il LAb acuto della chiusura della lettera, aria che certo impegna la voce come poche altre).

La sorellina Olga (Nino Surguladze) direi discreta ma non più, anche se la sua vocina sottile (che non mi pare proprio da contralto) in fin dei conti ci sta col fatto che lei è più giovane ancora di Tatiana, quindi praticamente una ragazzina.

Vasilij Ladjuk è un Onegin più che discreto, voce potente, ben passante, abbastanza chiara per rendere al meglio il personaggio di questo giovane e immaturo figlio-di-papà.

Bravo Maksim Aksënov, un Lenski all’altezza, voce calda, sempre ben intonata, efficacissimo nella sua impegnativa aria prima del duello.

Ancor meglio  Aleksandr Vinogradov, un Gremin autoritario e convincente: certo, la parte è quantitativamente limitata (diciamo un… Re Marke in miniatura, smile!) ma proprio per questo la qualità è importante, e Vinogradov l’ha tirata fuori tutta.

Carlo Bosi è stato un efficace Triquet, bene impersonando questa specie di macchietta.

Gli altri interpreti di contorno (ma comunque non insignificanti, soprattutto le due donne) hanno ben figurato: un bravo a tutti, Marie McLaughlin (Larina), Elena Sommer (Filippevna), Vladimir Jurlin (Capitano) e Scott Johnson (Zareski).

Ecco, ancora una prova più che soddisfacente del Teatro torinese, che si conferma una realtà solida e affidabile, in questi tempi non proprio tranquilli.

15 luglio, 2009

Il nuovo Onegin del Bolscioj alla Scala

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La compagnia del Bolscioj è in questi giorni in tournée alla Scala con l’opera diventata simbolo di quel teatro: Evgenij Onegin.

Dmitri Cerniakov è il regista cui è stata affidata la nuova messa in scena, che nel 2006 ha rimpiazzato la precedente, vecchia di ben 60 anni, essendo nata nel 1944. Il regista spiega – in una nota che compare sul programma di sala – il suo Konzept dell’opera, tutto incentrato, psicologicamente, sulla figura di Tatjana e, scenicamente, su ambienti chiusi, con grande tavolata che raccoglie di volta in volta le diverse comunità che fanno da sfondo, o da brodo di coltura, alla vicenda dei due amanti i cui sentimenti non si incontrano mai. Dirò subito che, avendo potuto assistere - nel lontanissimo autunno del 1973 - all’opera nel precedente allestimento, ho pochi dubbi che quello fosse assai più convincente: la fedeltà al libretto, comprese le ambientazioni, anche questa volta ha la meglio su interpretazioni intellettualoidi, pur non prive di fascino. Mancava il corpo di ballo, dato che i balli previsti dal libretto sono stati eliminati, e così la famosa e lunghissima polacca che apre il VI Quadro è stata suonata come fosse Tafelmusik per i commensali dell’onnipresente tavolata!

Per chiudere sulla regìa, aggiungerò soltanto che, a fronte della cura con cui i due personaggi principali – Tatjana e Onegin – vengono fatti muovere nelle rispettive sfere psicologiche, troppo spesso ci sono forzature e ridicole sceneggiate, quasi che Cerniakov abbia voluto fare una gratuita parodia dell’intera vicenda. Esempi? Il trattamento riservato a Lenskij nel IV Quadro, dove il povero poeta viene ridicolizzato e sbeffeggiato dalla folla dei convitati; o ancora la scena del duello, una volgare zuffa casereccia, dove Lenskij viene raggiunto da un colpo sparato quasi accidentalmente da Onegin, mentre i due sono avvinghiati attorno ad un fucile da caccia… e la pagliacciata finale, con Gremin che entra inopinatamente in scena, sorprendendo la moglie e il suo pretendente in atteggiamento più che sospetto, ma che fa finta di nulla, offre il braccio a Tatjana e se la porta via, mentre Onegin cerca invano di suicidarsi premendo più volte il grilletto di una pistola (puntatasi al petto) che fa ridicolmente cilecca.

Gli interpreti: ieri sera i protagonisti erano la Scerbacenko (Tatjana) e Sulimskij (Onegin), oltre a Kazakov (Gremin), Goodwin (Lenskij) e la Mamsirova (Olga). Bravissima (scenicamente) e brava (vocalmente) la Scerbacenko, applauditi a scena aperta Kazakov e Goodwin dopo le rispettive arie principali; ma l’intero complesso ha mostrato di avere quest’opera nel suo dna, a partire da Alex Vedernikov (fresco fresco di dimissioni!) che ha sempre tenuto a freno l’orchestra, mai permettendole di coprire le voci degli interpreti (che spesso Cerniakov costringe a cantare con le spalle rivolte al pubblico, o negli angoli più remoti della scena…)

Certo, nel lontano 1973 sul palco del vecchio Piermarini c’era, fra gli altri, una certa Galina Visnevskaja, non so se mi spiego!
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