XIV

da prevosto a leone
Visualizzazione post con etichetta regietheater. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta regietheater. Mostra tutti i post

29 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 2

Riprendo il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.

La mia personale convinzione - già anticipata nella puntata precedente - è invece che la coerenza in sè sia condizione necessaria, ma appunto non sufficiente per dare la sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello spettatore un tipico fenomeno di dissociazione, qui intesa come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma compiuta.

Pensiamo a ciò che accade ad uno spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna (o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà (se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie; e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.

Ecco, l’atteggiamento che in quello spettatore ignorante è un fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello spettacolo.

Naturalmente questa incoerenza non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica scelta (il Konzept, come lo si definisce in Germania, patria del Regietheater) del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete) di un oggetto dato, a decifratore (lo scavo cui allude Pedrotti) di aspetti nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti) delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica, religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica consistente nel de-strutturare il soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata affiancata da quella del Dramaturg (uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.

Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe mai dimenticato, è stata composta la musica) è diventato quasi un optional, il che può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca di nuovi... stimoli purchessia, quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo spettatore naif o neofita, indotto a fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.

Oggi la stessa critica musicale (e mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere: fra quelli che raccontano la storia originale e quelli che raccontano un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi, purchè siano per l’appunto coerenti in sè.

Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi e azioni che ne costituiscono il corpo.

Comincio a far qualche esempio per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo saggio.

Di cosa tratta Un ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è un’altissima autorità (il Re di Svezia, nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore di Sua Maestà Britannica, per ragioni di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).

Damiano Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però, nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale, cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi, durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto, non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione: non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate - sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico, comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai bene, per carità - un’altra storia, coerente in sè. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?


Questo esempio è catalogabile sotto la casistica attualizzazione del soggetto originale. In sostanza il regista intende far sì che l’opera parli a noi del terzo millennio, e non ai nostri trisavoli di metà ‘800. Ora, si può concedere che i tempi cambino, che l’approccio dello spettatore si evolva, che freni censori e inibitori siano via via caduti, rendendo possibile oggi raccontare verità che 150 o più anni fa erano tabù e potevano essere trasmesse soltanto previo camuffamento e senza fare espliciti riferimenti all’attualità (di quei tempi). Ma credo francamente che questo atteggiamento (del regista moderno) faccia un torto all’intelligenza di autori e pubblico, sia quello dell’epoca di creazione delle opere che quello attuale.

Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità, potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche oggi (della serie: prima la musica...); b) il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai più scafati di noi, se noi abbiamo bisogno del regista attualizzatore per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!

___
Vengo ora al Mosè in Egitto. Opera su soggetto biblico: alle vicende narrate nel Vecchio Testamento il librettista Tottola aggiunse solo la trama amorosa Osiride-Elcia (speculare alla futura Ismaele-Fenena di Verdi) per necessità squisitamente melodrammatiche (altrimenti tenore e soprano dovevano fare davvero quaresima) ma anche drammaturgiche (giustificare le richieste di Osiride al padre per trattenere gli ebrei). Andrebbe sempre ricordato che l’opera fu espressamente composta per la Stagione di Quaresima nella Napoli del 1818: quindi programmaticamente a sfondo religioso e a scopo di meditazione e raccoglimento; politica? ideologia? nulla di tutto ciò, ed è precisamente la musica a stabilirlo.

Graham Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF. La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della nascita dello Stato d’Israele, con gli attentati al King David, la strage a Deir Yassin, e con Mosè (sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky) che canta Dal tuo stellato soglio imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta assolutamente coerente in sè, e realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione: si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute più di un secolo dopo la creazione dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a supportare lo spettacolo...

___
La donna del lago. Romanzo storico, Walter Scott, una donna che si serba fedele al suo innamorato di modeste origini, resistendo faticosamente alla tentazione di accettare le profferte di un altro sincero innamorato, uno sconosciuto che alla fine si scopre essere nientemeno che... il Re. Il lieto fine, arrivato dopo innumerevoli peripezie, certo non deve far pensare ad un racconto di Harmony, ma è ciò che il testo racconta.

Damiano Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera vicenda con il senno di poi, rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la vicenda oggetto del testo originale viene inquinata dalle ombre che arrivano dal futuro (!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e soprattutto è coerente in sè. Ma torna, impietosa, la domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

___
Ecco ora Semiramide. Pochi dubbi che il cuore dell’opera sia, toh, Semiramide! In caso contrario Rossi (e Rossini, convinto da lui) avrebbe titolato: Arsace, ovvero la vendetta di Ninia... o qualcosa di simile. La sbifida regina di Babilonia (su di lei e sui suoi liberi costumi sono scorsi fiumi d’inchiostro) è il personaggio chiave dell’opera e ideale per chi voglia occuparsi - anche nel teatro musicale - di casi clinici da affidare alle cure di Freud o di... Basaglia. Rossini ovviamente ci mette le sue note a corredo, il che rende immortale un testo (Rossi non ce ne voglia) che avrebbe avuto di suo morte prematura.

Graham Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è appunto Arsace, quello della vendetta di Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept, lui e la sua vendetta. Vendetta che prende quindi il posto della sacrosanta giustizia divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe. Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di essere molesto, chiedo: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

___  
Non c’è bisogno, credo, di precisare che gli esempi di cui sopra sono, appunto, esempi, che ho tratto da un insieme ben più ampio di produzioni dei due registi citati. E non mi sogno certo di generalizzare all’insieme ciò che si applica ad una parte (piccola o grande che sia) delle loro produzioni, come di quelle di ogni altro regista in circolazione. Di Michieletto mi limito a citare, come prove a discarico, la sua Scala di seta (ROF) e le sue Nozze di Figaro (Fenice). Di Vick il recente Die tote Stadt (Scala), la Bolena a Firenze e l’ormai storico Moïse al ROF.

Dovessimo esaminare tutte le produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari tutte coerenti in sè) che mi sento di eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo in secondo piano la coerenza con la seconda.

Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie O tempora, o mores...) 

___

(2. fine)

27 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 1

Roberta Pedrotti è tornata sullo spinoso argomento delle regìe del teatro musicale, prendendo lo spunto dal dibattito (in particolare quello ospitato da Corrado Augias su Repubblica) seguito alla discussa rappresentazione romana estiva del Rigoletto inscenato da Damiano Michieletto.

In un lunghissimo post (quasi un saggio) la mia illustre conterranea (lei viene da Lumezzane, io dalla vicina Tavernole) ribadisce il suo convinto sostegno alle regìe moderne (uso questo improprio aggettivo) in disaccordo con ciò che lei definisce falsi miti, che vengono presi in considerazione per essere poi regolarmente (e legittimamente, s’intende) smontati. Andiamo con ordine, capitolo per capitolo.

I registi nuovi divi?

Qui Pedrotti introduce l’argomento con considerazioni francamente lapalissiane: il teatro musicale è teatro e quindi necessita - da che mondo è mondo - di regista, scenografo, costumista, addetto alle luci e coreografo. Musica e testo letterario sono un tutt’uno dell’opera, che quindi abbisogna dei diversi addetti-ai-lavori per vivere compiutamente: ai registi va concessa quindi la stessa dignità ed importanza che si riserva da sempre ai Musikanten; e se si accetta il fenomeno del divismo per questi ultimi, non si vede perchè stigmatizzarlo per i primi.

La Pedrotti liquida poi come inconsistente e stucchevole il porsi l’eterna domanda: prima la musica o le parole?

Faccio umilmente osservare che è normalissimo (proprio in questo periodo ne siamo testimoni) eseguire opere in forma di concerto (musica senza teatro) mentre mi è ignoto che si siano mai messi in scena testi di libretti d’opera senza l’accompagnamento della musica composta su di essi. Così come non è raro che al musicista venga richiesto di comporre musiche di scena per accompagnare rappresentazioni di testi di prosa. E vorrà pur dir qualcosa...

Arbitrio e libertà

Qui Pedrotti cita un passaggio della lettera di Flores D’Arcais ad Augias, dove ci si chiede se non si debbano porre limiti al regista (per evitarne gli arbitrii) esattamente come non si accetta che il Direttore cambi le note scritte o la strumentazione sulla partitura. La Pedrotti argomenta che la definizione stessa di arbitrio sia affetta da presunzione di colpa e (direi giustamente, in linea di principio) si domanda dove sia e chi stabilisca il confine fra arbitrio e libertà. Poi aggiunge: “che un'interpretazione sia o meno da considerarsi tale [un arbitrio] non lo potremo discutere prima che [l’arbitrio] sia stato perpetrato”. Quanto agli interventi sulla musica, ricorda altrettanto correttamente che tagli, aggiustamenti, trasposizioni e interventi più o meno estesi sulle partiture se ne son sempre fatti e sono entrati in quella che si chiama tradizione (e/o prassi) interpretativa, oggi presa in considerazione persino da chi predispone le cosiddette edizioni critiche delle opere.

Vorrei qui cominciare a porre una questione di quantità e di qualità (di interventi fatti sulla lettera e sullo spirito dell’originale) anticipando un concetto caro a Marx: certe modificazioni quantitative - quando assumono dimensioni ragguardevoli - possono ingenerarne di qualitative... Interpretare in modo personale un’indicazione agogica o dinamica in partitura è cosa del tutto naturale (è addirittura un dovere, più che un diritto dell’interprete) ma trasformare un Largo in un Presto o un ppp in un fff significa snaturare del tutto l’oggetto della creazione artistica, e questo mi pare francamente un arbitrio, così come scambiare le parti fra la sezione degli archi e quella dei fiati dell’orchestra. Mentre interpretare un Allegretto come un Andante con moto, un f come un mf o limitare il vibrato degli archi mi parrebbe degno di massima comprensione.

Quanto al fatto che eventuali arbitrii non siano vietabili a priori, ma soltanto sanzionabili dopo che sono stati perpetrati e giudicati tali è un concetto del tutto condivisibile: è sempre a posteriori che si giudica qualunque atto umano, e la Legge non dice mai “é severamente vietato rubare”, bensì “chi ruba va in galera” (e dopo tre gradi di giudizio...) Nel nostro caso ciò che manca (o non viene di fatto applicato alle problematiche che stiamo discutendo) è un quadro normativo che stabilisca dove si configura l’eventuale reato (l’arbitrio) e quali siano le pene cui va incontro chi sgarra. Oggi si è molto più sensibili a garantire (giustamente) copyright e diritti consimili che non a difendere le opere da eventuali offese alla loro dignità-integrità. Anche perchè è oggettivamente abbastanza facile, per la giustizia, distinguere dagli originali un Rolex o una Lacoste o un VanGogh contraffatti, arduo invece stabilire se una messinscena del Trovatore si configuri come reato.

Della filologia

La Pedrotti resta sullo stesso terreno esaminando l’intervento del Prof. Enrico Malato, che scrive ad Augias, chiamando in causa la filologia: che diritto ha, l'interprete moderno di alterare, stravolgere un documento artistico storico?” Lei qui ha buon gioco a contestare la chiamata in causa dei filologi (che non fanno giurisprudenza!) e a replicare ancora una volta che, essendo l’interprete un anello necessario della catena di produzione dell’oggetto artistico che arriva al pubblico, è inevitabile che si debba assumere qualche responsabilità. Aggiunge poi testualmente: “Credo, invece, sia più rispettoso studiare a fondo un testo e assumersi anche il rischio di un'interpretazione ardita, se fondata e meditata, che puntare tutto sulla decorazione e l'usato sicuro senza andare oltre la convenzione.”

Non posso che ribadire il concetto che l’interprete ha il dovere, non solo il diritto, di lavorare sul testo scritto (parole e note) per rendercelo fruibile nel modo più efficace. In perdurante assenza di norme chiare in proposito, per contrastare possibili abusi si può solo auspicare che la Giustizia venga chiamata in causa da denunce (sporte da privati cittadini o da associazioni) che portino a sentenze che comincino a fare giurisprudenza, come si dice, creando un corpus giuridico di riferimento per tutta la materia. In caso contrario non resta che il diritto di critica, che ciascuno può esercitare in vari modi (dal disertare gli spettacoli incriminati, fino al boicottaggio non violento) e che può portare, nel tempo e se assume dimensioni di massa (ecco l’effetto quantità) a prosciugare le fonti a cui si abbeverano oggi i presunti vandali dell’arte.

Rispetto, cornice e quadro

Torna il riferimento a Flores d’Arcais e al Rigoletto michielettiano: il giornalista-scrittore afferma testualmente che “Rigoletto è quintessenziale che sia un “buffone”, costretto a far ridere anche quando colmo d’angoscia o dolore. Nel giostraio/servo tuttofare [quello di Michieletto, ndr] questa polarità è impossibile”. Quindi par chiaro che Flores se la prenda, più che con quella ambientale, con la trasposizione delle caratteristiche esistenziali e psicologiche del personaggio: solo la professione (forzata) di buffone giustifica la schizofrenica polarità della psiche di Rigoletto, essendo egli pagato per far ridere gli altri (Cortigiani, vil razza dannata...) pur vivendo sotto l’incubo di incombenti catastrofi a casa propria. Nella psiche di un giostraio questa polarità diventa piuttosto gratuita (un giostraio è tutto fuorchè un buffone di corte, fino a prova contraria).

Ma Pedrotti svia furbescamente, sia pur fugacemente, il discorso sull’ambientazione spazio-temporale, e qui ovviamente va a nozze, poichè le è facile sostenere che la Mantova del 1500 fu solo un trucco escogitato per aggirare la censura. Poi torna sul personaggio per esprimere concetti assodati: a Verdi interessava lo scavo psicologico di Rigoletto, un po' meno la sua gobba e nulla del tutto l’abbigliamento e il cappello a sonagli. E porta ad esempio positivo la regìa di Pizzech (Parma e poi Bologna) che toglie a Rigoletto la gobba, ma gli conserva in pieno lo status di mente dissociata fra sporco-lavoro e affetti privati.

Ancora Pedrotti si rifugia in un terreno comodo, quello della presentazione esteriore (scene e costumi) dove le è facile argomentare contro le sedicenti pretese filologiche di chi reclama elmi, corazze, trine e merletti, fondali dipinti e foglioline di cartavelina... E irridere chi pensasse di tornare alla fruizione del teatro di qualche secolo fa.

Infine, cita ancora Flores d’Arcais per confutare il parallelo fatto dallo scrittore fra regista e traduttore, sostenendo (giustamente) che il traduttore si limita a rendere fruibile il testo a chi non conosce la lingua originale.

In realtà Flores esprimeva un concetto ben diverso, anzi un timore: che succederebbe se il traduttore, invece di limitarsi a tradurre, si inventasse, o manipolasse sostanzialmente, la storia? E questo è precisamente il punto cruciale dell’intera diatriba: che succede se il regista, svolgendo la sua attività necessaria a renderci fruibile l’opera, ne manipola il contenuto?    

Quel minuetto a Palazzo Te

È Nicola Piovani ad essere qui preso di mira, a fronte di un suo intervento ancora presso Augias, nel quale avanzava un’oggettiva e aperta provocazione: se si ambienta Rigoletto ai giorni nostri, è ridicolo far cantare Duca e Lady Ceprano sulle note di un Perigordino, più appropriati alla circostanza sarebbero una Lambada o un brano rock, con tanto di chitarre elettriche e batteria...

Pedrotti si dichiara stupefatta della banalità della provocazione, e subito reagisce con ferma determinazione: obiettivo di Verdi era di evocare in modo efficace una situazione drammaturgica ben precisa, lo stacco fra il volgare festino e l’approccio sdolcinato e suadente del Duca, che la Lady deve rifiutare controvoglia. E il Perigordino serve perfettamente alla bisogna, anche se è una danza che era del tutto sconosciuta ai tempi dei Gonzaga, essendo venuta di moda due secoli dopo, quindi un chiaro falso storico.

Giusto, ma si potrebbe obiettare che è diverso retrodatare una moda (una danza, nella fattispecie) e invece attualizzarla: la prima operazione è inconsapevolmente accettata, poichè noi tendiamo ad appiattire il passato (secolo XVI o XVIII fa lo stesso, è sempre roba antica, almeno nel terreno che stiamo esaminando) mentre la seconda viene istintivamente rigettata perchè percepita come bizzarra, assurda, illogica, demenziale (proprio perchè fuori-tempo) quindi incompatibile con la supposta seriosità del teatro (musicale e non). Faccio anch’io una provocazione: immaginiamo che Verdi - censura e querele permettendo - ambientasse l’opera (col Perigordino, indicato precisamente nel libretto) invece che presso i Gonzaga del 1500, a Palazzo Litta nel 1850... Come avrebbe reagito il pubblico milanese? Con applausi convinti o con feroci sghignazzate?

Conclude Pedrotti: “Creare sulla scena una struttura logica, non importa quanto irrealistica, ma in sé coerente.” Beh, la coerenza in sè è una condizione necessaria. Ma rischia di non essere sufficiente se vien meno la coerenza con l’oggetto originale, realistico o irrealistico che sia.

Apparenza, sostanza, professionalità

Qui Pedrotti reclama serenità di giudizio e abbandono di posizioni pregiudiziali: si valuti di volta in volta il risultato, senza bocciature (ma io aggiungo anche: senza promozioni) aprioristiche. Perfetto.

Segue un invito ad apprezzare la professionalità dei registi e a non denigrarli a priori come soggetti frustrati che cercano realizzazione di sè usando mezzucci e malafede. Invito da accogliere senza se e senza ma. Personalmente sono convinto, avendoli visti alla prova dei fatti, che i nomi che la Pedrotti cita, ed altri ancora (salvo pochi opportunisti e ciarlatani) siano personaggi di assoluto valore (vengono per lo più dalla prosa) che conoscono ogni aspetto del teatro e sanno perfettamente come costruire spettacoli coerenti in sè. Come ripeto, spesso non basta.

Giovani e futuro 

Pedrotti chiude il suo saggio ribadendo la sua incrollabile fiducia nel teatro musicale, legata alla presenza e all’attività di operatori (si parla in primo luogo proprio dei responsabili dell’allestimento) che siano in grado di dargli continuamente nuova linfa vitale. L’innovazione come processo continuo e inestinguibile (“naturale condizione dell'arte, che si evolve, si rinnova, riflette su se stessa”) e non come specchietto per le allodole utile solo per attirare a teatro qualche giovane in più.

Parole sante, ma - posso sbagliare - mi pare di cogliere una certa freddezza, non dico indifferenza, verso la produzione di nuove opere (invocata dallo stesso Michieletto) a favore della continua riproposta del patrimonio consolidato (fino al secolo scorso?) “La traviata o La bohème hanno una forza eterna di capolavori in grado di parlare a tempi diversi attraverso interpreti diversi, in abiti diversi, di rimanere se stesse mostrando ogni volta nuove sfumature, nuovi volti, nuove chiavi di lettura, a essere eterne e inesauribili, se vogliamo leggerle nel profondo”. Già: rimanere se stesse...

Conclude Pedrotti invitando ad abbandonare:categorie manichee iscritte sulle tavole della presunta e pretesa corretta rappresentazione dell'opera lirica”. Qui non posso che concordare.

___

Qualche mia considerazione aggiuntiva... alla prossima puntata.

(1. continua)


09 dicembre, 2012

Cosa non va nel Lohengrin di Guth?


Sì, sì, lo so che farei prima a dire cosa va… me la caverei in mezza riga. Ma siamo qui per cazzeggiare, giusto?

Intanto è doveroso precisare (non vorrei ricevere una richiesta di rettifica, smile!, da parte del drammaturgo) che il Konzept del Lohengrin scaligero è il risultato di una fatica a due mani, compiuta dal regista e dal suo compare Ronny Dietrich.

Il quale pare sia andato a scovare, con perspicacia degna di miglior causa, il vero elemento scatenante del dramma di Lohengrin, nella testa di Wagner. Altro che leggende medievali, come credevamo da 160 anni noi poveri pirla (inclusi individui come Dahlhaus, Newman, Nattiez, Mila, Principe, Serpa…) no no, ciò che ha mosso l’immaginazione di Wagner fu la storia del Fanciullo d’Europa, a nome Kaspar Hauser.

Costui fu un povero ragazzo (quasi coetaneo di Wagner) cresciuto fino ai 15-16 anni fra maltrattamenti e sevizie (sempre chiuso, incatenato, in una fossa buia) che avevano lasciato segni evidenti ed indelebili sulla sua psiche (non sapeva chi fosse, né da dove venisse, e trovava inspiegabile qualunque cosa e minacciosa qualunque persona vedesse intorno a sé) e che Wagner pare avesse incontrato di persona (a 20 anni) a Norimberga poco prima che venisse assassinato. Per di più, il ragazzo era stato affidato per un certo tempo ad un avvocato che per caso era il padre di Ludwig Feuerbach, il filosofo di cui Wagner aveva provvisoriamente abbracciato le idee (prima di traslocare c/o… Schopenhauer).

Ecco allora come la coppia Guth-Dietrich ha costruito il suo sofisma: accertato che Wagner fu colpito profondamente dalla vicenda di Hauser, ne viene di conseguenza che lo stesso è il vero ispiratore - magari nell’inconscio dell’artista (così ci mettiamo anche un po’ di Freud, che non guasta mai) - della figura dell’argenteo cavaliere. Ergo, se Lohengrin è Hauser, allora anche Lohengrin deve essere uno che non sa chi sia, da dove venga, cosa stia a farci al mondo, e perché sia capitato dalle parti di Elsa. Ecco, da questa premessa imbecille (perché totalmente, radicalmente contraddetta dal testo – e soprattutto dalla musica! – del Lohengrin di Wagner) derivano tutte le scemenze di questo allestimento.

Un esempio lampante: ecco come Guth-Dietrich giustificano la loro visione della personalità (Hauser-like) di Lohengrin:

La potente esplosione musicale che accompagna l’entrata in scena di Lohengrin è in sorprendente contraddizione con le sommesse, introverse prime parole da lui pronunciate, che fanno pensare a un uomo confuso più che a uno consapevole del proprio compito.

Ora, a parte che nel terzo atto Lohengrin racconterà - per filo e per segno e con dovizia di particolari - tutto, ma proprio tutto di sé, di Monsalvat, del Gral, di Parzival e dei propri compiti (quando e da chi avrebbe appreso tutto ciò, nel frattempo, devono saperlo solo Guth e Dietrich…) leggiamo il libretto di Wagner in quel punto dove Lohengrin apparirebbe come un uomo confuso, più che consapevole:

(Non appena Lohengrin fa il primo movimento per abbandonare la navicella, su tutti scende un silenzio carico di tensione.)
Lohengrin
(con un piede ancora sulla navicella, si china verso il cigno)
Grazie a te, mio caro cigno!
Attraverso l’ampia distesa dei flutti, ritorna
là donde mi ha portato la tua navicella!
Ritorna, mira soltanto alla nostra felicità,
e così fedelmente si compia il tuo servizio!
Addio! Addio, mio caro cigno!
(Il cigno volge lentamente la direzione della navicella e, nuotando, si allontana dalla riva. Lohengrin lo osserva per un po’, con malinconia.)

Allora, questo sarebbe un uomo confuso e inconsapevole? In preda a convulsioni isteriche, raggomitolato per terra proprio nella posizione cui il suo modello Kaspar era stato costretto  per anni e anni, rinchiuso e incatenato, a piedi nudi (!) in una fossa?

E 20 secondi dopo ecco come Lohengrin scambia i saluti con Re Heinrich:

Lohengrin
(s’inchina dinanzi al Re)
Salute, re Enrico! Propizio e presente
sia Dio accanto alla tua spada!
Glorioso e grande, il tuo nome
mai svanisca da questa terra!
Re
Grazie! Perché io intenda quale sia la forza
che in questa terra ti ha portato, dimmi:
è per voler di Dio che ti avvicini a noi?
Lohengrin
Mia missione, mio compito è scendere in campo
per una fanciulla gravemente
accusata. È tempo che io veda se si fondi
il mio impegno per lei su buon diritto.

Allora, è uno che non sa chi è, né cosa ci stia a fare lì? E che diffida di chiunque lo avvicini e cerca di scansarlo e di nascondersi in tutti i modi? Uno che si muove barcollando come un idiota, mentre il popolo che lo sta accogliendo così lo descrive:

Gli uomini e le donne
(pieni di commozione, sottovoce, sussurrando)
Un dolce, santo brivido ci afferra!
Quale amabile forza ci tiene avvinti!
(Lohengrin si allontana dalla riva e procede lento e solenne verso il proscenio.)
Com’è bello a vedersi, come incede sovrano,
colui che un simile prodigio portò alla nostra terra!

??? E così via, non c’è bisogno di altri dettagli, quindi passiamo a Elsa, così inquadrata dal duo di geni Guth-Dietrich:

Elsa, un essere apparentemente angelico, che si rivela progressivamente come una giovane donna segnata dal suo passato. Proprio all’inizio dell’opera apprendiamo, attraverso Telramund, quali traumatici eventi abbiano marchiato la sua infanzia: la perdita dei genitori, la scomparsa del fratello, di cui per di più è stata incolpata. E lo stesso Telramund, al quale il padre in punto di morte aveva affidato la tutela dei figli, abusa della fiducia di Elsa negli adulti nel momento in cui la vuole come sposa.

Conseguenze di tutto ciò sono, per Elsa, un forte senso di colpa a causa del proprio presunto fallimento nonché un’esagerata ansia da abbandono, il che a sua volta la porta a un’eccessiva idealizzazione del partner. Tra le facoltà caratteristiche di personalità gravate da simili esperienze rientra il “pensiero magico”, analizzato, tra gli altri, da Sigmund Freud. Tale concetto identifica una forma dello sviluppo infantile per cui una persona ritiene che i suoi pensieri, le sue parole o i suoi atti possano influire su eventi che in realtà hanno altre cause, o addirittura provocare un determinato evento.

Quindi: il pensiero magico di Freud? E quindi: l’arrivo di Lohengrin avrebbe altre cause? E quali sarebbero, cari Guth-Dietrich, queste altre cause? Il puro caso, che fa incontrare il povero Hauser e la povera Elsa in un parco (con laghetti e canne) di Norimberga? Oppure dovremmo pensare che tutto ciò che Wagner ci vuol proporre sia null’altro che un sogno di Elsa? Compresi i fatti storici (Heinrich) e il conflitto religioso paganesimo-cristianesimo (Ortrud)?

Ridicolo. In compenso, ecco come Elsa viene descritta dal popolo, mentre si presenta al processo

(Elsa entra. Indugia un po’ nel fondo della scena; poi avanza molto lentamente, con grande timidezza, verso il centro del proscenio. La seguono alcune donne, che però, in un primo tempo, rimangono sul fondo, all’estremo limite della Corte di Giustizia.)
Tutti gli uomini
Guardate! si avvicina, con il suo peso di severe accuse.
Ah! come appare luminosa e pura!
Chi osa darle carico di tanto gravi crimini
dev’essere davvero ben certo della sua colpa.

Ecco, questa sarebbe la descrizione (luminosa e pura!) di una poveretta che ci viene mostrata come una qualunque drogata, e per di più colpevole di qualche misfatto, manifestando i classici tic di queste condizioni, come il grattarsi nervosamente e il cercare perennemente di nascondersi?

Anche qui, non serve entrare in ulteriori particolari per stigmatizzare questa concezione dissacrante e – in fin dei conti – sprezzante, che Guth-Dietrich hanno del capolavoro wagneriano. Il quale viene da loro letteralmente sequestrato, rivoltato come un calzino e rimontato secondo le loro idee lunatiche.

Insomma, un ennesimo caso di volgare adulterazione. Qui sì che ci sarebbe da chiamare i carabinieri, mica - come vorrebbe qualche zelante - per zittire quattro (o quaranta) buhatori di loggione. Dico e ripeto: chi fabbrica e smercia Lacoste e Rolex (o VanGogh) contraffatti, secondo le nostre leggi rischia la galera, o sbaglio? E anche nel caso che i falsi siano più apprezzati, agli occhi di qualche snob, degli originali.   

07 dicembre, 2012

Davvero notevole questo… Kaspar Hauser!


Decisamente, questa nuova opera che la Scala ha commissionato a Claus Guth ha un soggetto intelligente, interessante, di una sconvolgente attualità e di un’assoluta modernità; e per di più è messo in scena in maniera superlativa.

Salta però subito all’orecchio che le parole e la musica di questo mirabile dramma del terzo millennio siano copiate – ma proprio alla lettera, incredibile! – da quelle di un’opera semi-sconosciuta (il cui soggetto sta peraltro agli antipodi rispetto a questo di Guth) di tale Richard Wagner: un vecchio rudere, un residuato bellico di quasi due secoli fa, un’opera romantica (hahaha!) dissepolta da metri di polvere che la ricoprivano in un qualche scantinato di un qualche museo tedesco. Un testo ridicolo e inutilizzabile anche come coadiuvante soporifero per bambini ingenui, e una musica stomachevole, al cui confronto Papaveri e Papere pare Gruppen di Stockhausen… 

Peccato davvero perchè, con un testo e una musica adeguati, questo soggetto di Guth avrebbe tutte le carte in regola per diventare un autentico capolavoro: possibile che non si riesca a trovare un librettista e un compositore in grado di rivestirlo con qualcosa di meno imbarazzante, in modo da farne un’opera immortale?

27 agosto, 2010

La scomparsa di Christoph Schlingensief

La scomparsa di una persona è di per sé notizia grama. Uno dei campioni del Regietheater tedesco è morto di un cancro diagnosticatogli anni fa.

A Bayreuth lo ricordano come un grande per un Parsifal che era – a dir poco – da codice penale.

Pace all'anima sua.

04 aprile, 2009

Se Bardi l’avesse previsto...

.
Il Corriere della Grisi riporta in primo piano l’ormai annoso problema delle regìe di opera, pubblicando un decalogo di regole di comportamento cui i registi - e i loro datori di lavoro, sovrintendenti e direttori di teatri - dovrebbero attenersi, allo scopo di limitare, da un lato, il fenomeno della sistematica distorsione della natura delle opere, e dall’altro di calmierare i costi di allestimenti che coniugano la scelleratezza artistica con un ormai insostenibile sperpero di risorse del contribuente.

Di certo v’è da chiedersi se Giovanni Bardi avrebbe deciso lo stesso di fondare la sua Camerata, se avesse previsto che fine avrebbe fatto l’opera lirica, anzi il dramma per musica da lui così fermamente voluto, a 500 anni di distanza.

Perchè - purtroppo - ciò che Bardi inventò è una cosa talmente speciale e unica al mondo che - unica, appunto, fra tutte le arti - si presta alle più stampalate (o anche serie a volte) manipolazioni, adulterazioni, ai più grotteschi o cervellotici stravolgimenti fra ciò che l’Artista autore aveva ideato e scritto sulla carta e ciò che un tizio, chiamato regista, si arroga il diritto di mettere in scena. Colui che dovrebbe essere il servo di quell’opera e quindi della volontà del suo Autore, è oggi assurto al ruolo di libero ricreatore dell’opera originale. E spesso e volentieri si tratta di ricreazioni che andrebbero gratificate mettendo il ricreatore a ricrearsi nell’ora d’aria di un carcere. Invece sono ricompensate con cachet milionari.

Tanto per fare un esempio, ve lo immaginate un regista che ambientasse l’Enrico IV ai giorni nostri, calando il Re d’Inghilterra, che so, nei panni del George W. Bush che si appresta a far guerra all’Iraq, dopo aver messo a ferro e fuoco l’Afghanistan? Sentite come esordirebbe il 43:

Scossi ancor come siamo
e spalliditi dai recenti affanni,
non concediamo tuttavia respiro
a questa nostra spaurita pace
e, con voce pur rotta dall’affanno,
ritorniamo a parlar dell’altra guerra
da portare su più lontani lidi.

Una gran farsa, diciamolo pure, nulla più. E infatti nessuno ha avuto - per ora almeno - il coraggio di proporre una simile stupidaggine.

Invece un Bieito qualunque può impunemente rappresentare il Ratto ambientandolo in un postribolo, con sesso orale esplicito... tanto c’è la musica di Mozart che lo salva, e il pubblico medio poco bada alla “trama”, addirittura alle parole e al fatto che il regista abbia stravolto la prima e manipolato le seconde. Perchè se la performance musicale è di livello, si passa sopra anche alle più bieche idiozie del regista, anzi quasi le si apprezza perchè allora sembrano dare un tocco di vita e di novità ad oggetti che altrimenti apparirebbero, appunto, come ammuffiti in un museo (oh, che barba, rivedere la Gioconda di Leonardo per la ventesima volta; godiamoci quella baffuta di Duchamp, che è più moderna!) Sembra poi un paradosso, ma quanto più le regìe sono strampalate ed arbitrarie, tanto più necessitano di un’esecuzione musicale (canto e orchestra) di primissimo ordine, poichè il pubblico in fin dei conti è andato lì principalmente per ascoltare la musica e apprezzare il canto, non perchè attirato dalla profondità dei testi o dalla plausibilità della trama (manco per Wagner... che è tutto dire).

Sul fronte più serio, i Carsen e gli Herheim, come i loro maestri-brechtiani-DDR-impastranati alla Götz Friedrich, mettono in scena spettacoli che sono - in se stessi - delle opere d’arte ma, appunto, sono il Parsifal di Herheim (non di Wagner) o l’Alcina di Carsen (non di Händel).

Oggi si arriva ormai (Carsen docet, proprio con Alcina) a far forza alla musica, con tagli anche sostanziali precisamente funzionali allo stravolgimento che il regista ha fatto del soggetto. Domani, per le stesse ragioni (modernità, appeal verso il pubblico, innovazione) si arriverà anche ad intervenire sui righi, sull’orchestrazione, e così via.

A ben pensarci, ne può uscire un business enorme: basta immaginare quante versioni diverse, una più interessante dell’altra, si potrebbero scrivere del Fidelio, del Lohengrin, dell’Otello!
.