intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

27 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 1

Roberta Pedrotti è tornata sullo spinoso argomento delle regìe del teatro musicale, prendendo lo spunto dal dibattito (in particolare quello ospitato da Corrado Augias su Repubblica) seguito alla discussa rappresentazione romana estiva del Rigoletto inscenato da Damiano Michieletto.

In un lunghissimo post (quasi un saggio) la mia illustre conterranea (lei viene da Lumezzane, io dalla vicina Tavernole) ribadisce il suo convinto sostegno alle regìe moderne (uso questo improprio aggettivo) in disaccordo con ciò che lei definisce falsi miti, che vengono presi in considerazione per essere poi regolarmente (e legittimamente, s’intende) smontati. Andiamo con ordine, capitolo per capitolo.

I registi nuovi divi?

Qui Pedrotti introduce l’argomento con considerazioni francamente lapalissiane: il teatro musicale è teatro e quindi necessita - da che mondo è mondo - di regista, scenografo, costumista, addetto alle luci e coreografo. Musica e testo letterario sono un tutt’uno dell’opera, che quindi abbisogna dei diversi addetti-ai-lavori per vivere compiutamente: ai registi va concessa quindi la stessa dignità ed importanza che si riserva da sempre ai Musikanten; e se si accetta il fenomeno del divismo per questi ultimi, non si vede perchè stigmatizzarlo per i primi.

La Pedrotti liquida poi come inconsistente e stucchevole il porsi l’eterna domanda: prima la musica o le parole?

Faccio umilmente osservare che è normalissimo (proprio in questo periodo ne siamo testimoni) eseguire opere in forma di concerto (musica senza teatro) mentre mi è ignoto che si siano mai messi in scena testi di libretti d’opera senza l’accompagnamento della musica composta su di essi. Così come non è raro che al musicista venga richiesto di comporre musiche di scena per accompagnare rappresentazioni di testi di prosa. E vorrà pur dir qualcosa...

Arbitrio e libertà

Qui Pedrotti cita un passaggio della lettera di Flores D’Arcais ad Augias, dove ci si chiede se non si debbano porre limiti al regista (per evitarne gli arbitrii) esattamente come non si accetta che il Direttore cambi le note scritte o la strumentazione sulla partitura. La Pedrotti argomenta che la definizione stessa di arbitrio sia affetta da presunzione di colpa e (direi giustamente, in linea di principio) si domanda dove sia e chi stabilisca il confine fra arbitrio e libertà. Poi aggiunge: “che un'interpretazione sia o meno da considerarsi tale [un arbitrio] non lo potremo discutere prima che [l’arbitrio] sia stato perpetrato”. Quanto agli interventi sulla musica, ricorda altrettanto correttamente che tagli, aggiustamenti, trasposizioni e interventi più o meno estesi sulle partiture se ne son sempre fatti e sono entrati in quella che si chiama tradizione (e/o prassi) interpretativa, oggi presa in considerazione persino da chi predispone le cosiddette edizioni critiche delle opere.

Vorrei qui cominciare a porre una questione di quantità e di qualità (di interventi fatti sulla lettera e sullo spirito dell’originale) anticipando un concetto caro a Marx: certe modificazioni quantitative - quando assumono dimensioni ragguardevoli - possono ingenerarne di qualitative... Interpretare in modo personale un’indicazione agogica o dinamica in partitura è cosa del tutto naturale (è addirittura un dovere, più che un diritto dell’interprete) ma trasformare un Largo in un Presto o un ppp in un fff significa snaturare del tutto l’oggetto della creazione artistica, e questo mi pare francamente un arbitrio, così come scambiare le parti fra la sezione degli archi e quella dei fiati dell’orchestra. Mentre interpretare un Allegretto come un Andante con moto, un f come un mf o limitare il vibrato degli archi mi parrebbe degno di massima comprensione.

Quanto al fatto che eventuali arbitrii non siano vietabili a priori, ma soltanto sanzionabili dopo che sono stati perpetrati e giudicati tali è un concetto del tutto condivisibile: è sempre a posteriori che si giudica qualunque atto umano, e la Legge non dice mai “é severamente vietato rubare”, bensì “chi ruba va in galera” (e dopo tre gradi di giudizio...) Nel nostro caso ciò che manca (o non viene di fatto applicato alle problematiche che stiamo discutendo) è un quadro normativo che stabilisca dove si configura l’eventuale reato (l’arbitrio) e quali siano le pene cui va incontro chi sgarra. Oggi si è molto più sensibili a garantire (giustamente) copyright e diritti consimili che non a difendere le opere da eventuali offese alla loro dignità-integrità. Anche perchè è oggettivamente abbastanza facile, per la giustizia, distinguere dagli originali un Rolex o una Lacoste o un VanGogh contraffatti, arduo invece stabilire se una messinscena del Trovatore si configuri come reato.

Della filologia

La Pedrotti resta sullo stesso terreno esaminando l’intervento del Prof. Enrico Malato, che scrive ad Augias, chiamando in causa la filologia: che diritto ha, l'interprete moderno di alterare, stravolgere un documento artistico storico?” Lei qui ha buon gioco a contestare la chiamata in causa dei filologi (che non fanno giurisprudenza!) e a replicare ancora una volta che, essendo l’interprete un anello necessario della catena di produzione dell’oggetto artistico che arriva al pubblico, è inevitabile che si debba assumere qualche responsabilità. Aggiunge poi testualmente: “Credo, invece, sia più rispettoso studiare a fondo un testo e assumersi anche il rischio di un'interpretazione ardita, se fondata e meditata, che puntare tutto sulla decorazione e l'usato sicuro senza andare oltre la convenzione.”

Non posso che ribadire il concetto che l’interprete ha il dovere, non solo il diritto, di lavorare sul testo scritto (parole e note) per rendercelo fruibile nel modo più efficace. In perdurante assenza di norme chiare in proposito, per contrastare possibili abusi si può solo auspicare che la Giustizia venga chiamata in causa da denunce (sporte da privati cittadini o da associazioni) che portino a sentenze che comincino a fare giurisprudenza, come si dice, creando un corpus giuridico di riferimento per tutta la materia. In caso contrario non resta che il diritto di critica, che ciascuno può esercitare in vari modi (dal disertare gli spettacoli incriminati, fino al boicottaggio non violento) e che può portare, nel tempo e se assume dimensioni di massa (ecco l’effetto quantità) a prosciugare le fonti a cui si abbeverano oggi i presunti vandali dell’arte.

Rispetto, cornice e quadro

Torna il riferimento a Flores d’Arcais e al Rigoletto michielettiano: il giornalista-scrittore afferma testualmente che “Rigoletto è quintessenziale che sia un “buffone”, costretto a far ridere anche quando colmo d’angoscia o dolore. Nel giostraio/servo tuttofare [quello di Michieletto, ndr] questa polarità è impossibile”. Quindi par chiaro che Flores se la prenda, più che con quella ambientale, con la trasposizione delle caratteristiche esistenziali e psicologiche del personaggio: solo la professione (forzata) di buffone giustifica la schizofrenica polarità della psiche di Rigoletto, essendo egli pagato per far ridere gli altri (Cortigiani, vil razza dannata...) pur vivendo sotto l’incubo di incombenti catastrofi a casa propria. Nella psiche di un giostraio questa polarità diventa piuttosto gratuita (un giostraio è tutto fuorchè un buffone di corte, fino a prova contraria).

Ma Pedrotti svia furbescamente, sia pur fugacemente, il discorso sull’ambientazione spazio-temporale, e qui ovviamente va a nozze, poichè le è facile sostenere che la Mantova del 1500 fu solo un trucco escogitato per aggirare la censura. Poi torna sul personaggio per esprimere concetti assodati: a Verdi interessava lo scavo psicologico di Rigoletto, un po' meno la sua gobba e nulla del tutto l’abbigliamento e il cappello a sonagli. E porta ad esempio positivo la regìa di Pizzech (Parma e poi Bologna) che toglie a Rigoletto la gobba, ma gli conserva in pieno lo status di mente dissociata fra sporco-lavoro e affetti privati.

Ancora Pedrotti si rifugia in un terreno comodo, quello della presentazione esteriore (scene e costumi) dove le è facile argomentare contro le sedicenti pretese filologiche di chi reclama elmi, corazze, trine e merletti, fondali dipinti e foglioline di cartavelina... E irridere chi pensasse di tornare alla fruizione del teatro di qualche secolo fa.

Infine, cita ancora Flores d’Arcais per confutare il parallelo fatto dallo scrittore fra regista e traduttore, sostenendo (giustamente) che il traduttore si limita a rendere fruibile il testo a chi non conosce la lingua originale.

In realtà Flores esprimeva un concetto ben diverso, anzi un timore: che succederebbe se il traduttore, invece di limitarsi a tradurre, si inventasse, o manipolasse sostanzialmente, la storia? E questo è precisamente il punto cruciale dell’intera diatriba: che succede se il regista, svolgendo la sua attività necessaria a renderci fruibile l’opera, ne manipola il contenuto?    

Quel minuetto a Palazzo Te

È Nicola Piovani ad essere qui preso di mira, a fronte di un suo intervento ancora presso Augias, nel quale avanzava un’oggettiva e aperta provocazione: se si ambienta Rigoletto ai giorni nostri, è ridicolo far cantare Duca e Lady Ceprano sulle note di un Perigordino, più appropriati alla circostanza sarebbero una Lambada o un brano rock, con tanto di chitarre elettriche e batteria...

Pedrotti si dichiara stupefatta della banalità della provocazione, e subito reagisce con ferma determinazione: obiettivo di Verdi era di evocare in modo efficace una situazione drammaturgica ben precisa, lo stacco fra il volgare festino e l’approccio sdolcinato e suadente del Duca, che la Lady deve rifiutare controvoglia. E il Perigordino serve perfettamente alla bisogna, anche se è una danza che era del tutto sconosciuta ai tempi dei Gonzaga, essendo venuta di moda due secoli dopo, quindi un chiaro falso storico.

Giusto, ma si potrebbe obiettare che è diverso retrodatare una moda (una danza, nella fattispecie) e invece attualizzarla: la prima operazione è inconsapevolmente accettata, poichè noi tendiamo ad appiattire il passato (secolo XVI o XVIII fa lo stesso, è sempre roba antica, almeno nel terreno che stiamo esaminando) mentre la seconda viene istintivamente rigettata perchè percepita come bizzarra, assurda, illogica, demenziale (proprio perchè fuori-tempo) quindi incompatibile con la supposta seriosità del teatro (musicale e non). Faccio anch’io una provocazione: immaginiamo che Verdi - censura e querele permettendo - ambientasse l’opera (col Perigordino, indicato precisamente nel libretto) invece che presso i Gonzaga del 1500, a Palazzo Litta nel 1850... Come avrebbe reagito il pubblico milanese? Con applausi convinti o con feroci sghignazzate?

Conclude Pedrotti: “Creare sulla scena una struttura logica, non importa quanto irrealistica, ma in sé coerente.” Beh, la coerenza in sè è una condizione necessaria. Ma rischia di non essere sufficiente se vien meno la coerenza con l’oggetto originale, realistico o irrealistico che sia.

Apparenza, sostanza, professionalità

Qui Pedrotti reclama serenità di giudizio e abbandono di posizioni pregiudiziali: si valuti di volta in volta il risultato, senza bocciature (ma io aggiungo anche: senza promozioni) aprioristiche. Perfetto.

Segue un invito ad apprezzare la professionalità dei registi e a non denigrarli a priori come soggetti frustrati che cercano realizzazione di sè usando mezzucci e malafede. Invito da accogliere senza se e senza ma. Personalmente sono convinto, avendoli visti alla prova dei fatti, che i nomi che la Pedrotti cita, ed altri ancora (salvo pochi opportunisti e ciarlatani) siano personaggi di assoluto valore (vengono per lo più dalla prosa) che conoscono ogni aspetto del teatro e sanno perfettamente come costruire spettacoli coerenti in sè. Come ripeto, spesso non basta.

Giovani e futuro 

Pedrotti chiude il suo saggio ribadendo la sua incrollabile fiducia nel teatro musicale, legata alla presenza e all’attività di operatori (si parla in primo luogo proprio dei responsabili dell’allestimento) che siano in grado di dargli continuamente nuova linfa vitale. L’innovazione come processo continuo e inestinguibile (“naturale condizione dell'arte, che si evolve, si rinnova, riflette su se stessa”) e non come specchietto per le allodole utile solo per attirare a teatro qualche giovane in più.

Parole sante, ma - posso sbagliare - mi pare di cogliere una certa freddezza, non dico indifferenza, verso la produzione di nuove opere (invocata dallo stesso Michieletto) a favore della continua riproposta del patrimonio consolidato (fino al secolo scorso?) “La traviata o La bohème hanno una forza eterna di capolavori in grado di parlare a tempi diversi attraverso interpreti diversi, in abiti diversi, di rimanere se stesse mostrando ogni volta nuove sfumature, nuovi volti, nuove chiavi di lettura, a essere eterne e inesauribili, se vogliamo leggerle nel profondo”. Già: rimanere se stesse...

Conclude Pedrotti invitando ad abbandonare:categorie manichee iscritte sulle tavole della presunta e pretesa corretta rappresentazione dell'opera lirica”. Qui non posso che concordare.

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Qualche mia considerazione aggiuntiva... alla prossima puntata.

(1. continua)


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