sarà vero?

una luce in fondo ai tunnel
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18 ottobre, 2025

Il Donizetti bonapartista alla Scala.

Eccomi a commentare l’arrivo al Piermarini - piacevolmente affollato e ben disposto - della produzione (originaria di Londra, 2007) de La Fille du Régiment di Gaetano DonizettiPrima dell’inizio ecco l’annuncio di un raffreddore che – per fortuna? – non ha impedito a Florez di scendere in campo, evitando quindi una nuova falsa partenza, dopo quella di Korchak in Rigoletto.

Della messinscena si conosceva praticamente tutto, grazie alle registrazioni accessibili in rete (Vienna, MET, …) e qui Christian Räth (che riprende il lavoro di Pelly) non si è permesso di mutare alcunchè, dimostrando quindi ancora una volta che le regìe creative ma anche intelligenti non hanno età, e si possono apprezzare anche quando si conoscono a menadito.

Quanto al contenuto, la produzione mantiene largamente i dialoghi di Agathe Mélinand, già impiegati a Vienna e altrove, con piccoli tagli e varianti per le due entrate della Duchessa. 

E in effetti a livello di regìa l’unica curiosità di questa ripresa milanese riguardava proprio l’impiego dell’interprete della Duchessa di Crakentorp, tradizionalmente (non solo da Pelly) affidata a personaggi famosi in assoluto, o almeno nel luogo della rappresentazione. Nelle sue peregrinazioni, l’opera ha ospitato in quel ruolo celebri attrici e più o meno celebri cantanti, con interventi abbastanza fuori dal contesto. Senza dubbio la scelta più azzeccata è stata quella di Pelly a Vienna (2007) dove Montserrat Caballè si esibì anche interpretando una canzonetta svizzera ('g Schätzli): cosa per nulla gratuita, ma pienamente compatibile con il soggetto dell’opera, dove la Marchesa confessa di aver convissuto con Robert a Ginevra.    

Qui devo personalmente deplorare le modalità della partecipazione della nostra amata Barbara Frittoli: che si è limitata ai quattro versi da recitare, più un paio di moine e un urlaccio… Per poi uscire per gli applausi finali mescolata agli altri interpreti minori. Davvero inspiegabile averla relegata a comparsa: si può capire che lei non abbia più l’età per cantare Marie… ma perché ha accettato di esporsi a questa patetica figura?

Bene, dato quindi a Räth ciò che è di Räth Pelly, passo subito agli addetti ai suoni donizettiani. 

Evelino Pidò (72 anni…) ha alle spalle abbastanza navigazioni per saper tenere ferma la barra del timone di questa barca perennemente ricoverata in darsena per operazioni di maquillage, prima di ogni uscita verso nuove crociere. [I curiosi possono apprezzare le cospicue differenze fra il testo proposto qui nel 2007 e quello odierno.] L’Orchestra scaligera gli ha dato una grossa mano, mettendo in luce i multiformi pregi della partitura: slanci marziali o amorosi, rudezze, meschinità, ipocrisie e… comicità.  

Julie Fuchs e il menomato Juan Diego Florez non hanno tradito le attese (conservo un bel ricordo di loro in un Comte Ory al ROF del 2022) e anche ieri hanno monopolizzato l’attenzione (e gli applausi) del pubblico. Da incorniciare il lungo duetto al loro primo incontro (Depuis l’instant).

Lei si è calata benissimo nella parte di questa maschiaccia ribelle, a disagio negli abiti che la nobiltà le vorrebbe imporre, ma capace di sinceri sentimenti e, alla fine, gratificata dall’unione con il plebeo tirolese che le aveva salvato la vita. Voce ben impostata in tutta la gamma, leggero vibrato negli acuti e agilità negli abbellimenti (colorature, arpeggi e picchiettati spesso volutamente parodistici, fino alle proditorie stonature nella canzone di Venere). Efficace già alla prima entrata (Au bruit de la guerre) con il successivo duetto con Sulpice. E poi nel trascinante Il est là, Il est là, Il est là, morbeu! Ma anche patetica e dolente nella sua romance al termine del primo atto (Il faut partir). Simpatica e sfottente nel trio (Les amours de Cypris) con Sulpice e sua madre all’inizio del second’atto e poi perfetta nel passare nella successiva aria dal dimesso Par le rang et par l’opulence al trionfante Salut à la France! chiuso da un folgorante MIb. E infine emozionante (Quand le destin, au milieu de la guerre) nell’omaggio al benemerito Reggimento.

L’attuale Direttore Artistico del ROF cerca con mestiere di sfidare il tempo: sarà stato anche il raffreddore, ma la sua voce non ha più lo smalto e la brillantezza dei bei tempi, così i 9 (8 scritti +1 di tradizione) DO acuti del primo atto (Pour mon âme) non sono proprio risuonati come saette nel cielo del Piermarini. E l’ugualmente spurio DO# della Romance del secondo (S’il me fallait) è rimasto direttamente sulla carta, sostituito dal regolamentare LA.

[A proposito di cantiere aperto (riferito a libretto e partitura): di quest’ultima romanza di Tonio, che inizia con Pour me rapprocher de Marie, esistono due versioni, una (presumibilmente l’originale) in SIb, e l’altra (di tradizione) in LA maggiore, tonalità che consente al tenore di esibire il (non scritto) sovracuto sulla mediante DO#. Le due versioni differiscono anche per poche battute finali (quella in LA è accorciata di 7), ma c’è stato qualcuno (qui il franco-congolese Patrick Kabongo, lo scorso aprile, a 1h52’39”) che ha cantato la versione in SIb, il che gli ha consentito di sciorinare un RE naturale sovracuto da record…]

Certo, in scena non c’erano solo i due protagonisti, e quindi va elogiato senza riserve il Sulpice di Pietro Spagnoli, voce e portamento proprio da caricatura di autorevole sergente di ferro. Oltre che nel trio con Marie e Marchesa, si è anche distinto nell’indiavolato terzetto con i due protagonisti (Tous les trois réunis) che precede il finale.

Lo stesso dicasi per Géraldine Chauvet, che ha dato al personaggio della peccatrice Marchesa di Berkenfield il giusto risalto. Già a partire dal suo ingresso (Pour une femme de mon nom) con gli equivoci riferimenti all’intraprendenza dei militari francesi.

Sempre all’altezza il Coro di Malazzi. Gli altri interpreti han fatto correttamente il loro dovere come da contratto.

Alla fine una decina di minuti di applausi per tutti: i tre protagonisti in testa, ma anche Pidò e la coppia che ha ripreso Pelly.


14 ottobre, 2025

Gli esportatori di democrazia tornano alla Scala.

Per la quinta volta dal dopoguerra torna alla Scala La Fille du Régiment di Gaetano Donizetti, di cui oggi viene proposto (ripreso da Christian Räthl’allestimento - universalmente apprezzato - di Laurent Pelly (ROH, gennaio 2007, poi portato in giro per il mondo). 

Opera nata nella Parigi del 1840, ancora in piena diatriba transalpina riguardo al rimpatrio da SantElena dei resti (ma c’era chi sospettava che fosse tutto un fake…) di Napoleone. Soggetto che sembrava fatto apposta per tener vivi gli scontri ormai decennali fra le curve rivoluzione-restaurazione.

Opera dal soggetto, neanche tanto scopertamente, filo-napoleonico:

- il 21° reggimento di Bonaparte che occupa il Tirolo governato dalla restaurazione;

- una nobildonna, esponente della restaurazione, che si innamora ed ha una figlia (Marie, fatta passare per sua nipote, onde evitare scandali) da un militare del reggimento francese (Robert);
- Marie che, caduto il padre, è accolta come mascotte dal reggimento e poi salvata da un mortale incidente quasi per caso da Tonio (che è un fiero oppositore dei connazionali restauratori) del quale si innamora;
- la madre di Marie che organizza per lei un matrimonio di interesse per proteggere il suo patrimonio;
- il 21° reggimento che rende giustizia a tutti, imponendo il lieto fine di sapore bonapartista: alla malora la restaurazione, sugli scudi la coppia vivandiera-soldatino.

Insomma, un soggetto solo apparentemente leggero, in realtà assai impegnato (così almeno dovette apparire nel 1840 ai francesi…) al di là dell’approccio comique dell’opera. Il quale però ne ha sicuramente favorito la planetaria diffusione, spesso accompagnata da manomissioni (ma non sempre in peggio…) per adattarla alle diverse piazze e interpreti.

E quanto agli interpreti di questo 2025, già ne conosciamo almeno quattro, emersi da almeno tre produzioni della Scala e della Staatsoper a partire dal 2007. In quell’anno, a febbraio-marzo, il Piermarini ospitò l’opera per l’ultima volta, con la fortunata regìa di Filippo Crivelli (scene e costumi di Zeffirelli) e un Florez scatenato, sotto la direzione di Abel. Proprio Abel diresse due mesi dopo l’esordio della citata messinscena di Pelly a Vienna, sempre con Florez (e la Dessay). Produzione ripresa colà nel 2016, senza Florez ma con la Julie Fuchs diretta da Evelino Pi, con il quale torna in questa ripresa scaligera.

Sapendo quindi tutto dei quattro principali interpreti della messinscena, non ci resta che una curiosità. All’inizio del second’atto compare la Duchessa di Crakentorp, personaggio che dovrebbe essere (come il Notaio) solo recitante, in omaggio al genere Singspiel (detto alla tedesca) dell’opera. Per tradizione lo si fa interpretare – noblesse oblige - ad un noto rappresentante del bel mondo, non necessariamente del teatro musicale.

Ad esempio, nell’ultimo allestimento scaligero del 2007 il privilegio toccò nientemeno che alla somma Anna Proclemer. Nella citata produzione viennese del 2007 Pelly invitò una grande beniamina del pubblico, Monserrat Caballè, alla quale ovviamente fece anche cantare una simpatico walzerino svizzero, 'g Schätzli.

Poi, nel 2016, fu invitata un’altra famosa cantante viennese, Ildikó Raimondi, nota interprete di Johann Strauss, che (a partire da 1h23’08” del citato video) fa il suo ingresso in scena, manda uno spartito al Direttore e canta (1h25’26”) un adattamento di By Strauss di Ella FirzgeraldAncora, nel 2019 al MET, l’ospite fu l’attrice Kathleen Turner.

Così, anche per questa speciale occasione l’invito ha riguardato una cantante che per anni ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo, Scala ovviamente inclusa: Barbara Frittoli. Vedremo quale sorpresa ci riserverà…


30 marzo, 2025

Una divertente opera seria alla Scala

Splendido debutto scaligero (a distanza di soli… 256 anni dalla nascita!) per L’opera seria di Gassmann-Calzabigi, questo melodramma settecentesco che fa un poco da cerniera fra Gluck e Mozart.

Merito di chi decise di proporcelo (tale Meyer…) e di chi ce lo ha servito in tavola scena come meglio non si potrebbe: la premiata coppia Christophe Rousset / Laurent Pelly.

Dico subito che gli inevitabili tagli alla musica riguardano quasi esclusivamente recitativi secchi, mentre gli accompagnati e le arie/concertati (della serie: prima la musica…) sono sostanzialmente rispettati. Rousset (che ha anche accompagnato al cembalo) coadiuvato dall’Orchestra mista Scala – Les Talents Lyriques (24 + 11 elementi) ha apportato pochi ritocchi alla partitura, come l’anticipo dell’aria di Passagallo (I miei balli son tanti miracoli) all’inizio del terz’atto, trasformando quindi la scena marziale del ritorno di Nasercano in un gustoso balletto da avanspettacolo; ha poi sfrondato il finale delle esternazioni singole dei vari protagonisti, chiudendo con il coro Noi giuriamo.

Pelly, da parte sua, ha proposto scene (di Massimo Troncanetti) piuttosto scarne: il primo atto con un semplice fondale a parete con porte dalle quali entrano ed escono i protagonisti che si aggirano in uno spazio vuoto; nel secondo compaiono anche pareti laterali (sempre con porte) a chiudere la scena della prova dell’opera seria; nell’atto conclusivo la prima parte ad Agra ha un’ambientazione esotica orientaleggiante, con palme, tende e la sagoma di un elefante sul quale entra Rossanara, più pochi orpelli che al momento opportuno crolleranno miseramente, provocando l’interruzione dello spettacolo (il cui fiasco è quindi attribuito a regista e scenografo, più che ad autori e cantanti…)

A sipario chiuso si svolge il cambio scena (accompagnato da suoni di arpa che ricordano quelli degli intervalli RAI anni ‘70, con pecorelle e affini) che ci porta nel retro del teatro, dove ritroviamo solo la parete di fondo con le tre porte dei camerini delle primedonne, dalle quali sortiranno anche le rispettive madri per la caotica scena finale.  

Lionel Hoche anima le coreografie, con partecipazione di ballerini (scena ad Agra) e mimi vestiti come diavolacci neri a rappresentare metaforicamente sciagure, imprevisti e contrattempi che affliggono l’ambiente del teatro, oltre che i militari che arrivano alla fine del second’atto a sedare il tumulto creatosi durante la prova.

I costumi, dello stesso Pelly, sono a loro volta una parodia del ‘700, con abiti tutti di color chiaro e forme esageratamente bizzarre, con pochi elementi atti a distinguere fra loro i vari personaggi. Unica eccezione il povero Fallito, abbigliato come un teatrante di oggi (ma con calzoni alla zuava….) Efficaci le luci di Marco Giusti ad illuminare (o oscurare) le varie scene. 

Quanto alla compagnia di canto, mi sento di accomunare tutti indistintamente in un unico giudizio di piena approvazione. Cosa che ha fatto anche il pubblico (folto all’inizio e poi abbastanza smagritosi – affar loro – nei due intervalli) che, rimasto freddino nel primo atto, ha cominciato ad applaudire le arie nel secondo e più ancora nel terzo. Per poi gratificare tutti di almeno 10 minuti di applausi ed ovazioni alla fine dello spettacolo.

Insomma, una proposta di ottimo livello che dà lustro a questa stagione scaligera di transizione.

 

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.